Matteo Noris, “L’animo eroe” (1689) e alcuni drammi per musica del secondo Seicento

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Author: 
Nicola Badolato
Università di Bologna

Il veneziano Matteo Noris (1640 ca. - 1714) è figura di spicco nella storia dell'opera del secondo Seicento e primo Settecento. [1] Autore di una quarantina di drammi per musica rappresentati tra il 1666 e il 1713, il suo nome compare in un elenco di illustri scrittori veneziani compilato dal bibliofilo trevigiano Giulio Bernardino Tomitano (1761-1828), è citato tra i letterati degni di nota nelle Iscrizioni veneziane dell'erudito Emmanuele Antonio Cicogna (1824-1853) [2], ma già ai giorni suoi «l'incomparabile Matteo Noris» godeva di una fama europea, tant'è vero che il librettista amburghese Barthold Feind (1687-1721) ne fa il nome, nei suoi Gedancken von der Opera (1708), come drammaturgo di spicco annoverandolo tra coloro «si attengono perlopiù, per amore della propria patria, ai soggetti romani e greci, di cui sanno realizzare eccellentemente il genio». [3]

Nel 1666 Noris debutta a Venezia nel Teatro di S. Cassiano con La Zenobia di Giovanni Antonio Boretti. [4] Negli anni '70 e '80 lavora senza sosta nel Teatro dei SS. Giovanni e Paolo: nell'arco di tre lustri vi scrive tredici drammi (11 originali e due rifacimenti di testi precedenti) in cui tratta di preferenza il tema della tirannide, di solito incarnata in un imperatore romano corrotto e degenerato (Domiziano nel 1673, per Boretti; Diocleziano nel 1674 e Galieno nel 1676, per Carlo Pallavicino) o in un condottiero barbaro (Attila nel 1672, per Pietro Andrea Ziani e Totila nel 1677, per Giovanni Legrenzi), che insidia una o più coppie d'amanti. L'ambientazione storico-antica di questi lavori, musicati da compositori di rango come Carlo Pallavicino, Giovanni Legrenzi, Pietro Andrea Ziani, è sempre suffragata dal ricorso alle fonti classiche, fra cui spiccano la Storia romana di Tito Livio, le Vite parallele di Plutarco, l'opera storiografica di Plinio il vecchio e l'Historia Augusta. [5]

Tra il 1681 e il 1703 Noris lavora per il Teatro di S. Giovanni Grisostomo, dove collabora con i compositori Giovanni Partenio (Flavio Cuniberto, 1681), Carlo Pallavicino (da Carlo re d'Italia, 1682, all'Amore inamorato, 1686) e Carlo Francesco Pollarolo (da Tito Manlio, 1697, ma già data a Pratolino nel settembre dell'anno precedente, al Giorno di notte, 1703). Nel contempo Noris lavora anche per i teatri di S. Salvatore (da I duo tiranni al soglio con musica di Antonio Sartorio, 1679  al Furio Camillo di Giacomo Antonio Perti, 1692 alla Finta pazzia d'Ulisse di Marc'Antonio Ziani, 1696) e di S. Angelo (tra gli altri, Il demone amante overo Giugurta, 1685, Pollarolo; I regi equivoci, 1697, Pollarolo; Virginio consolo, 1704, Antonio Giannettini; Berengario re d'Italia, 1710, Girolamo Polani). [6] Gli intrecci dei drammi prodotti in questi anni sono incentrati sulle vicende pubbliche e private di figure esemplari di despoti o generali del mondo antico. La caratterizzazione dei tiranni è sovente virata nel registro comico, la loro dissolutezza tramutata in «effeminatezza», e la descrizione delle loro malefatte punta quasi sempre al grottesco e al paradossale. [7]

Anche solo scorrendo per sommi capi i titoli sin qui riassunti, è evidente come fin dai suoi primi lavori Noris ordisca di preferenza intrecci basati su soggetti storici, rielaborati secondo le esigenze e le convenzioni di scrittura dell'epoca. [8] La predilezione per le fonti storiche emerge lungo tutto l'arco della carriera del drammaturgo, per il quale i testi antichi tuttavia non forniscono solo uno sfondo alle vicende favoleggiate, bensì informano di sé i drammi, sistematicamente alterati dall'inserimento degli accidenti necessari all'obbligatorio lieto fine. Questa prassi di scrittura viene più volte manifestata con chiarezza da Noris; si legga su tutte la prefazione "Al lettore" del Greco in Troia (Firenze, Teatro della Pergola, 1688), laddove nel descrivere «l'invenzione» come «il primo scopo di chi compone», il poeta rivendica per sé la piena libertà di rimaneggiare, al servizio della costruzione del dramma, miti e vicende della storia antica: «chi più e chi meglio inventa», prosegue Noris, «ha la maggior parte della lode. La favola è il primo elemento della poesia: questa è del poeta, l'istoria dell'istorico». [9]

Gli interessi storiografici e ideologici di Noris trovano sbocco in un voluminoso trattato intitolato L'animo eroe (Venezia, Girolamo Albrizzi, 1689) [fig. 1], compendio di «attioni istoriche de' più famosi antichi» greci e latini dedicato al principe Ferdinando di Toscana (1663-1713), col quale era entrato in contatto già l'anno prima per le rappresentazioni fiorentine del Greco in Troia e che sarà poi dedicatario di un altro dramma veneziano, Furio Camillo (1692). [10] L'animo eroe si riallaccia ad un genere coltivato tra i letterati italiani sin dall'età umanistica: la biografia di personaggi illustri della storia antica. Basti ricordare, tra i molti lavori riconducibili a questo genere letterario, il De mulieribus claris di Giovanni Boccaccio (1361), ristampato lungo tutto l'arco del Cinquecento a Venezia; la traduzione latina Plutarchi vitae parallelae di Guarino Guarini (Roma, Ulrico Han, 1470); l'Indice degli uomini illustri di Girolamo Ruscelli (Venezia, Comin da Trino, 1572); o ancora le trattazioni sulle vite dei "moderni" celebrati per arte o ingegno: gli Elogia veris clarorum virorum di Paolo Giovio (Venezia, Michele Tramezzino, 1546); la Vita del cavalier Marino di Giovan Battista Baiacca (Venezia, Sarzina, 1625); gli Elogi d'uomini letterati di Lorenzo Crasso (Venezia, 1656); Le vite de' pittori, scultori et architetti moderni di Giovan Pietro Bellori (Roma, Mascardi, 1672).

L'animo eroe raccoglie cinquanta medaglioni dedicati a filosofi, sovrani e uomini di governo le cui azioni più note possano assurgere a modelli, ora positivi ora negativi, di condotta morale e politica. Ma come collocare una siffatta silloge storiografica nella produzione di un poeta versato a tempo pieno nel teatro d'opera? Per sua espressa dichiarazione, l'autore considera la ricerca dello storico strettamente connessa con la scrittura drammatica. Lo si evince con chiarezza sin dalle prime battute della prefazione "Al lettore" del trattato (p. [xi]):

Come può una sola penna in un sol tempo spiegar due voli? Un solo arciero a due segni vibrar il dardo? Un solo viandante caminare per due sentieri? Io in un tempo stesso ho scritto prose, ho composto rime. Nel tempo che ho composti gli ultimi miei drami, rappresentati nei teatri di Venezia, e forse da te letti, ho distese le prose che ora tu leggi. Ho avute le due applicazioni. Se ho scritto o male o bene, giudicalo tu, che il tuo giudizio servirà per norma.

Sei dei personaggi illustrati nell'Animo eroe - Marcello, Marc'Antonio, Furio Camillo, Attilio Regolo, Catone l'uticense e Virginio - sono infatti eponimi di altrettanti drammi, e a ulteriore attestazione dello stretto rapporto tra questi ultimi e il trattato storiografico basti il ricorso agli spunti o dichiarazioni di poetica contenute nei paratesti dei drammi stessi. Passiamoli qui brevemente in rassegna.

 

Marcello in Siracusa (1670)

La dedica "A' lettori" del Marcello in Siracusa (1670) è sintomatica dell'opinione di Noris sulla dialettica tra storia e invenzione poetica. «Il capriccio» e «la poetica fantasia» fungono da sostegno ad un «componimento» che s'esprime attraverso «la bizaria nel sceneggiamento, il brio nell'equivoco, la nobiltà romana e la curiosità nel succeder dell'una all'altra scena». L'autore non manca di esibire in anticipo le fonti da cui ha tratto la vicenda di base del dramma: «L'istoria della presa di Siracusa [212 a.C.] mi fu insegnata da Plutarco [Vite parallele] e l'impresa del vetro d'Archimede da Teone [di Alessandria] e Macrolico [Francesco Maurolico?] dal Teatrum vitae humanae». Il ricorso alle medesime fonti, Plutarco in testa, ritorna anche nel profilo dedicato al console Marcello nell'Animo eroe (pp. 143-150): «capitano de' Romani, prima di entrare in Siracusa già cadente sotto delle sue armi, comandò che non si facesse ai popoli vinti alcun oltraggio.» E però, se il fine ultimo del dramma per musica, al di là dello sfoggio d'erudizione esibito dal poeta, risiede in primis nel diletto dello spettatore, il tono del trattato vira decisamente verso il registro gnomico. Scrive infatti Noris (pp. 149-150):

Ma di questo nimico amico [Marcello], crudele colla generosità, Siracusa baciò il peso che la sgravò dai ceppi, strinse il giogo che la lasciò libera, e pagò con usura di venerazione l'aggravio che l'alleggerì. A che distrugger per vincere quando si può vincere senza distruggere? Si può forse? Si può, sì. Ma per ciò poter far, che bisogna? L'animo sia maggiore della città, che la città sempre all'animo sarà soggetta.

E ancora: nella maggior parte dei drammi scritti da Noris per il Teatro di S. Salvatore compare almeno una scena che, pur funzionale allo svolgimento dell'azione, assurge ad emblema spettacolare del dramma stesso. Nel Marcello spicca in apertura l'episodio degli specchi ustorii di Archimede [11], evocato sin dall'antiporta del libretto [fig. 2] oltre che nella dedica del libretto («l'eroica impresa d'un vetro che con luminosi baleni abbagliò le pupille dell'augello del Tebro»). Questa stessa scena sarà poi rammentata anche in un analogo passaggio dell'Animo eroe:

Sempre, ancorché offenda, è venerabile la virtù: virtù forte, anche se impugna per alma un fragil vetro, e sì autorevole che nella destra del machinatore tramutò il Sole errante in astro fisso; così che, se Ulisse teneva nel pugno i venti per salvar le navi dalle tempeste, Archimede in mano teneva il Sole per incenerirle sull'acque.

Segno ulteriore, sembra di poter affermare, della stretta contiguità fra lo scrittoio storiografico e quello drammatico di Noris.

 

Marc'Antonio e Furio Camillo (1692)

Negli anni '90 emerge con sempre maggiore evidenza l'interesse del Noris per le fonti storiche. Il Marc'Antonio, scritto nel 1692 per il Teatro del Falcone di Genova, affronta il tema del regicidio: il dramma si apre con il rogo del cadavere di Cesare, da poco assassinato, mentre Bruto e i congiurati inneggiano alla libertà ottenuta (I, i: «Col sangue di tua piaga | tinta la nuova aurora | spunta di Roma ai colli»). Sebbene l'azione di questi ultimi venga apertamente accusata d'empietà (significativi i versi pronunciati da Marc'Antonio in I, ii: «Ferro e faci prendete: stringete | sin per arder di più capi | la rubella Idra molesta | vampe insolite il Cielo appresta»), essi tuttavia non vengono infine puniti, ed anzi si riconciliano col fantasma di Cesare nelle ultime sequenze dell'opera.

Il tema del regicidio è ripreso da Noris anche nell'Animo eroe, proprio nel capitolo dedicato a Marcantonio (pp. 113-121), e in termini ambivalenti: da un lato «il re è sempre sacro ancorché tiranno»; dall'altro, «se l'uomo talvolta uccide il tiranno re, il Cielo è che l'uccide colla destra dell'uomo». È evidente che alla base tanto del dramma quanto del trattato possiamo riconoscere la medesima visione ideologica del poeta.

Nello stesso anno del Marc'Antonio Noris lavora al Furio Camillo [fig. 3], scritto per il teatro del principe Ferdinando di Toscana a Pratolino. Le fonti qui adoperate sono principalmente due: la Storia di Roma di Tito Livio e la Naturalis historia di Plinio il Vecchio. Marco Furio Camillo nell'Animo eroe (p. 338) è ritratto da subito come quel «duce delle romane legioni» che «fece legar nudo e batter da' fanciulli con verghe sino alla città un maestro di scuola che rubello guidò a lui quei fanciulli ch'erano figli dei nobili di Faleria». Questo episodio - per inciso, immortalato in un celebre dipinto di Nicolas Poussin (1637) [12] - è il medesimo da cui «ha motivo lo intreccio» del dramma fiorentino:

Gran coraggio invero: comparirti davanti co' inesperti fanciulli […] i fanciulli però sono Istoria, ed il maestro che li conduce non è la favola. Questi guidò quelli, ch'erano i figli della prima nobiltà di Faleria, a Camillo capitano di Roma accampato sotto a Faleria stessa. […] Camillo non accettò l'offerta: fece spogliar nudo il maestro, mandòllo alla patria sferzato per via dai discepoli colle verghe, e i cittadini in compenso del dono donarono a lui la città.

Ragionando attorno alla figura del patrizio romano, tanto il dramma quanto l'esposizione storica puntano ancora all'ammaestramento del lettore: da un lato, nella quarta scena del prim'atto del Furio Camillo, l'eroe eponimo sentenzia che «non è mai giusta la cagion che sprona | a' danni della patria il cittadino, | e di qualunque offesa | ingiustissima sempre è la vendetta: | la causa ch'è del Cielo al Ciel si aspetta»; dall'altro, nell'Animo eroe, il narratore ricorda che «chi del rubello colpevole con lo scempio non ne fa esempio, nell'atto della pietà divien empio». E di nuovo sembra emergere con chiarezza la consonanza d'intenti tra le due sfere della produzione letteraria di Matteo Noris.

 

Attilio Regolo (1693)

Ancora per la villa medicea di Pratolino Noris scrive nel 1693 l'Attilio Regolo. La «famosa azione eroica» del capitano romano (narrata da Tito Livio e cantata da Orazio) «s'intreccia […] favoleggiando sopra il tragico fine di Attilio, perché sia drama di lieto fine». La figura storica di Attilio Regolo è ben delineata nell'Animo eroe (pp. 89-95): «Mandato ambasciatore al Senato romano da' Cartaginesi, dov'era egli prigioniero fatto in guerra, persuase il Senato a non fare il cambio di lui coi giovani di Cartagine, schiavi dei Romani. Promise tornar ai Cartaginesi coll'operato; tornò, riferì e morì tormentato». Il dramma comparso sulle scene medicee mette chiaramente in luce il ruolo centrale dell'eroe eponimo, costantemente abbrancato dai dilemmi interiori, il cui culmine è raggiunto nel monologo recitativo collocato alla scena III, xiv:

ATTILIO REGOLO

Ragioni della patria, e voi del Peno
e voi di sposa, e voi di figli tutte,
venite a me; chi è prima
cominci e ogn'altra ch'è ragion si esprima.
Dobbiamo della patria
ubbidir al comando.
Roma di pace ha d'uopo, e tu a tant'uopo
moltiplichi la guerra.
In Roma che far può senza lo sposo
moglie infelice e senza padre i figli?
Entra il nemico, il cittadino uccide,
svena i figli, le madri,
Sulpizia chiede aita,
per lo crine afferrata,
e Roma, l'alta Roma
dai ferri che tu cerchi è incatenata.
A vigorose e tante
ragioni incontrastabili e possenti,
Attilio, che rispondi?

E il trattato (pp. 90-91) enfatizza ancor di più, a mo' di sentenza, la figura esemplare di retta fermezza morale e virtù civile incarnata da Attilio Regolo:

 

Chi nel cuore ha la Patria, parlando non ha rispetti. I rispetti negl'interessi publici sono le pigrizie dannose dei prosperi avanzamenti: impediscono l'operar bene ed operar ciò ch'è medicina al male, sono il letargo degl'importanti affari, la remora dei negozi, la rugine del valore. I rispetti sono le mutolezze che fanno omicida il silenzio, sono gl'occulti fini che marciscono il corpo di qualunque più sano governo, sono le febri lente che atterano.

 

Catone uticense (1701)

Un simile intento didascalico si ritrova ancora nel Catone uticense (1701), dato nel Teatro di S. Grisostomo a Venezia con musica di Giovanni Domenico Partenio. Sin dalla dedica al "Leggitore", Noris definisce il suo dramma come «una mensa di passioni amorose ed eroiche» che nell'«azione istorica» di Marco Porcio Catone consente di tracciare

un forte esempio agl'occhi di quella republica che tanto l'amava, perché addottrini nella fede i cittadini. Eccoti la istoria, il di più si finge e si ti rappresenta la ferita di Catone, non la morte, perché abbiano luogo gli sponsali di Cesare con Flaminia e di Floro con Sabina.

Ritorna con forza il legame tra "storia" e "invenzione", evidentemente uno dei capisaldi nella poetica del Noris. In parallelo, nell'Animo eroe (pp. 25-32), si legge di come «Catone morì, e da sé stesso si diè la morte, poiché nonha di sé la virtù altro degno carnefice che sé medesima. Sì grand'eroe meno stimò la morte delle catene e della servitù»; da cui si può ricavare la sentenza seguente: «È fortezza dell'animo superar le passioni, è vero, ma quando il cittadino è inutile alla patria, deve morire». Tanto le trame ordite per il palcoscenico del S. Grisostomo quanto le pagine riservate alla lettura privata nella silloge storica, sembrano convergere anche in questo caso attorno al ritratto della rettitudine morale e all'elogio del martirio per l'acquisto della libertà rappresentato dalla figura dell'Uticense: lo spettatore da un lato, il lettore dall'altro ne ricavano per certo una visione unitaria.

 

Virginio consolo (1704)

È forse nella prefazione "Al lettore" del Virginio consolo (Venezia, Teatro di S. Angelo, 1704, musica di Antonio Giannettini) che si esprime al massimo grado l'interesse storiografico e ideologico di Matteo Noris. In prima istanza l'autore dichiara che il dramma

comincia con l'Istoria, ed è il tentativo di Dida di rapir alla mano di Lucio […] dentro la casa di Virginio […] la di lui figlia Verginia (chiamata nel drama presente col nome di Valeria) in tempo che il padre general dell'armi romane si ritrovava in Albido con l'esercito per la Marchia, e ciò Dida operò per commando d'Appio primo fra i consoli invaghito fervidamente di Virginia; e termina col fine pure dell'Istoria, ed è la venuta di Virginio con tutto l'esercito in Roma, eccitato quello dalla tirannide lasciva di Appio rappresentatali dal capitano verso l'onore della di lui figlia per la strage dei decendrii che seguì.

Poi prosegue:

Chi fa rappresentar il gran fatto dell'Istoria, chi lo rappresenta e lo vestì musicalmente non ha altra vanità che quella di piacerti se vi è merito e di compiacerti nel possibile. […] Io perché di poca vena e di povera invenzione, ho sempre imparato, come tutt'oggi imparo, dagl'autori d'antico grido ed esperienza e conosco benissimo che nei miei non forzuti e non eruditi drami nulla vi è di ammirabile, né meno però vi sono in essi traduzioni da discepolo, né furti da sferza, avendo sempre arrischiato il proprio e non fattomi sicurezza coll'altrui.

Se dunque la storia è per così dire piegata al servizio del dramma, nell'Animo eroe la figura di Lucio Virginio (pp. 315-322) è ancora una volta considerata esemplare per l'ammaestramento del lettore:

La natura umana nelle azioni crudeli contro la umanità fa gran forza e repugna, ma se la causa è di onore, si avvilisce, si rende e cede la pugna. Si chiama eroe quello che fa degne azioni da essere imitate perché animose. Più grand'eroe vien celebrato se le fa difficili da imitarsi […] E se viene chiamato eroe chi magnanimo a sé acquista l'onor del mondo, quanto sarà più eroe d'ogni altro VIRGINIO, che acquistando l'onor di una vergine, al Cielo acquistò l'onore.

 

Conclusioni

La rassegna qui proposta ha tentato di tracciare alcuni segmenti dell'attività letteraria d'un poeta teatrale di vaglia quale fu Matteo Noris, versato con pari zelo tanto nella tessitura di drammi per musica quanto nella raccolta e chiosa di fatti memorabili della storia antica. Le due attività che impegnarono Noris lungo tutto l'arco della sua carriera trovano fertili territori di osmosi proprio sulle scene operistiche Sei-Settecentesche, attraverso una produzione di lavori ricchi di connotazioni storiche e impregnati di spunti didascalici. Non va dunque sottovalutata, insieme con la perizia nella costruzione di intrecci funzionali all'apprezzamento degli spettatori, anche la dimensione edificante e modellizzante dei drammi di Noris, veicolo di una personale visione dell'uomo e della storia, con un accento particolare sulla arbitrarietà e sulla inconsapevole ferocia dell'uomo e della storia.

Se per il Noris autore dell'Animo eroe gli eventi e i personaggi del mondo antico costituirono un continuo serbatoio di insegnamenti, per il Noris drammaturgo la tradizione storiografica greco-romana rappresentò un sicuro deposito di conoscenze e modelli da cui partire per intrecciare, in un vivace dialogo tra delectare e docere, le trame più fortunate della sua carriera teatrale.


Immagini

1. Matteo Noris, L'animo eroe, Venezia, Girolamo Albrizzi, 1689, su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze

Matteo Noris, L'animo eroe, Venezia, Girolamo Albrizzi, 1689

 

2. Matteo Noris, Marcello in Siracusa, Venezia, Francesco Nicolini, 1670: antiporta e frontespizio, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Racc. Dramm. 094 (disponibile online: <http://www.braidense.it/rd/00944.pdf>)

Matteo Noris, Marcello in Siracusa, Venezia, Francesco Nicolini, 1670

 

3. Furio Camillo, Venezia, per il Nicolini, 1692: antiporta e frontespizio, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Racc. Dramm. 1005 (disponibile online: <http://www.braidense.it/rd/01005.pdf>)

Furio Camillo, Venezia, per il Nicolini, 1692

 


Note

1. Sulla vita e sull'attività di Matteo Noris si veda la recente voce a cura di Nicola Badolato nel Dizionario Biografico degli Italiani, LXXVIII, Roma, Istituto per l'Enciclopedia Italiana, 2013, pp. 747-751.

2. Cfr. E.A. Cicogna, Delle iscrizioni veneziane, Venezia, 1824-53, pp. 563 s. Lo stesso Cicogna cita un sonetto di Noris che compare inoltre nei Fiori d'ingegno […] in lode dell'effigie della Primavera dipinta da Carlo Marati raccolti da Giovanni Battista Magnavini nel 1685 (p. 60), silloge che figura tra le opere della veneziana Accademia dei Dodonei (cfr. M. Maylender, Storia delle Accademie d'Italia, II, Bologna, 1927, p. 217 s.), fondata da Jacopo Grandi e Antonio Ottoboni (nipote del futuro papa Alessandro VIII) e patrocinata dal procuratore Angelo Morosini (non sappiamo tuttavia con esattezza se Noris ne fosse membro).

3. B. Feind, Gedancken von der Opera, in Id., Deutsche Gedichte, Stade, 1708, p. 84 (trad. it. in L. Bianconi, Il Seicento, Torino, 1991, p. 334). Si ricorderà inoltre che il necrologio pubblicato nel Giornale de' letterati d'Italia (tomo XX, 1715, p. 459) ne attesta se non altro la grande fecondità drammaturgica dichiarandolo «autore di cento e più drammi musicali ne' quali egli si è esercitato più con le regole della sua fantasia che con quelle dell'arte».

4. L'esordio operistico di Noris fu accolto con un flop clamoroso, ciò che gli procurò tra l'altro una disputa legale con lo stampatore Camillo Bortoli, cui aveva ceduto i diritti sui proventi della vendita dei libretti in cambio di una liquidazione corrisposta in gioielli. Sull'episodio cfr. B.L. Glixon - J. Glixon, Inventing the Business of Opera: The Impresario and His World in Seventeenth-Century Venice, New York, 2005, p. 111.

5. Oltre ai drammi citati, Noris scrisse anche Marcello in Siracusa (carnevale 1670, musica di Boretti), Numa Pompilio (carnevale 1674, Giovanni Maria Pagliardi), Totila (carnevale 1677, Giovanni Legrenzi), Dionisio overo la Virtù trionfante del Vizio (carnevale 1681, Petronio Franceschini, completata da Giovanni Domenico Partenio), Bassiano overo Il maggior impossibile (autunno 1681, Pallavicino) e Traiano (carnevale 1684, Giuseppe Felice Tosi). A questi vanno aggiunti, come si diceva, due rifacimenti di lavori altrui: La Semiramide di Giovanni Andrea Moniglia (autunno 1670, Pietro Antonio Ziani) e l'Astiage, tratto dall'Alcasta di Giovanni Filippo Apolloni (autunno 1676, Giovanni Bonaventura Viviani).

6. Si aggiunga a questi titoli almeno un altro dramma, L'inganno trionfante in amore, dato al S. Angelo nel 1725 con musica di Antonio Vivaldi, un lavoro postumo forse rivisto dal compositore veronese Giovanni Maria Ruggieri (cfr. R. Strohm, The Operas of Antonio Vivaldi, Firenze, L.S. Olschki, 2008, pp. 347-350). Tra i drammi per musica dati nel Teatro di S. Angelo, merita di essere ricordato il caso del Demone amante (1685), oggetto di censura perché ritenuto offensivo contro la religione, giacché l'intreccio, basato sugli inganni orditi dal re berbero Giugurta ai danni di due ingenue fanciulle, si spinge a toccare il tema della possessione diabolica. Una seconda edizione del dramma preparata per la medesima stagione, assai rimaneggiata dall'autore e pubblicata col titolo accorciato di Giugurta, reca nell'ultimo foglio l'imprimatur e l'indicazione della registrazione presso la magistratura degli esecutori contro la bestemmia. Nei cinque anni immediatamente successivi a questo scandalo, Matteo Noris non scrisse alcun dramma per le scene veneziane. E però vari suoi lavori furono apprezzati fuori Venezia: il Flavio Cuniberto (musica di Domenico Gabrielli) fu dato a Modena (1688), Livorno (1690), Palermo (1692), Napoli (1693), Firenze (1697, ma con musica di Partenio), Genova (1702), Pratolino (1702, Alessandro Scarlatti) e Lucca (1706). Laodicea e Berenice fu ripresa nel Teatro del Cocomero a Firenze nel 1698. È inoltre degna di nota la fortuna romana di alcuni lavori: Nerone fatto Cesare comparve nel 1695 al teatro Capranica, dove l'anno successivo fu dato anche Il Flavio Cuniberto con musica di Luigi Mancia (e da questa versione Nicola Francesco Haym trasse il Flavio, re de' Longobardi per Georg Friedrich Händel, Londra 1723; se ne veda l'edizione moderna in I libretti italiani di Georg Friedrich Händel e le loro fonti, a cura di L. Bianconi e G. La Face, I, 2, Firenze, L.S. Olschki, 1992, pp. 301-323); Penelope la casta, notevolmente rimaneggiata (forse da Silvio Stampiglia),fu allestita nel teatro Tordinona (1696, musica di Perti); e ancora Il Furio Camillo al Tordinona e Il re infante al Capranica nel 1696 (Mancia). Un infelice rifacimento del Traiano per mano del cardinal Pietro Ottoboni (cfr. S. Franchi, Drammaturgia romana, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1988, p. 715), col titolo L'Eusonia overo La dama stravagante, comparve nel Teatro Capranica (1697). Il Bassiano fu dato a Livorno nel 1690 (musica di Carlo Pallavicino); Tito Manlio fu ripreso a Mantova nel 1719 (Vivaldi) e poi a Firenze nel 1721 (Luca Antonio Predieri) e nel 1742 (Michele Fini). L'odio e l'amor, rifatto da Paolo Antonio Rolli, giunse a Londra al King's Theatre (1721) con musica di Bononcini, e fu ripreso a Brunswick (1724 e 1731) e a Wolfenbüttel (1724) col titolo di Cyrus - Ciro. L'amore figlio del merito fu rifatto a Vienna nel 1739 (M. A. Ziani). Almeno sei drammi suoi furono tradotti in tedesco e musicati ex novo per il teatro del Gänsemarkt di Amburgo, tra il 1682 e il 1737 (cfr. Marx - Schröder, Die Hamburger Gänsemarkt-Oper. Katalog der Textbücher, Laaber, Laaber Verlag, 1995, ad indicem).

7. Per esempio, Domiziano, nel dramma omonimo, si presenta sulla scena dapprima «finto Marte in forma di statua» per insidiare una giovane di cui s'è invaghito (I,5), poi «in abito da Nettuno col tridente sopra una conca tirata da cavalli marini» per prender parte a una naumachia (II, 11), infine «da pastore» (III,19) per eleggere, novello Paride, la più bella tra le sue concupite (e tra queste, ad incrementare l'effetto burlesco della situazione, compare un paggio a sua volta travestito). Similmente si comporta l'eroe eponimo del Galieno, che giunge «in abito di donna» nelle scene I, 16 e II, 5-10.

8. Sulle tecniche di scrittura dell'opera veneziana nel Seicento si vedano almeno J. Glover, The Peak Period of Venetian Public Opera: The 1650s, «Proceedings of the Royal Musical Association», CII, 1975/76, pp. 67-82; E. Rosand, Opera in Seventeenth-Century Venice: The Creation of a Genre, Berkeley, University of California Press, 1991 (trad. it. L'opera a Venezia nel XVII secolo: la nascita di un genere, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013); L. Bianconi, Il Seicento cit., pp. 219-235 (in part. il capitolo "Convenzioni formali e drammaturgiche. Il lamento"); P. Fabbri, Il secolo cantante. Per una storia del libretto d'opera nel Seicento, Roma, Bulzoni, 2003; N. Badolato, I drammi musicali di Giovanni Faustini per Francesco Cavalli, Firenze, L.S. Olschki, 2012.

9. La prefazione del Greco in Troia - rappresentato in occasione dei festeggiamenti nuziali del principe Ferdinando di Toscana e Beatrice di Baviera - si apre con una sorta di excusatio non petita da parte del drammaturgo: «Non si scaldino gli Aristarchi al fuoco istorico del troiano incendio che arde nelle carte del presente drama, né s'ingegnino dire che da quello è stato scritto è diverso quello che si rappresenta. Non mi è incognita l'istoria, perché il fuoco d'Asia ha per le memorie sì grande la fiamma che ben chiara si fa vedere da tutti gli occhi ed in essa pellegrinano tutte le menti. Chi compone sa che la invenzione è 'l primo scopo di chi compone, perché dev'essere. Sa che questa è la prima parte che dee avere la composizione osservata in essa. Chi più e meglio inventa ha la maggior parte della lode. La favola è il primo elemento della poesia: questa è del poeta, l'istoria dell'istorico. Nel drama, il quale altro non è che una viva rappresentanza delle umane azioni, si deve più atteggiare che discorrere, più fare che dire, onde conviene molto inventare per molto fare» (cfr. M. Noris, Il Greco in Troia, Firenze, Nella Stamperia di S.A.S., 1688, pp. 8-9).

10. Non si può escludere che i primi contatti tra Matteo Noris la corte medicea siano stati agevolati dal cardinale Enrico Noris (1631-1704), veronese di origine bergamasca come il nostro drammaturgo, custode della Biblioteca Vaticana e teologo alla corte di Ferdinando de' Medici (1663-1713). Cfr. L. Spinelli, Il principe in fuga e la principessa straniera: vita e teatro alla corte di Ferdinando de' Medici e Violante di Baviera (1675-1731), Firenze, Le Lettere, 2010, pp. 31, 53, 117-118, 171.

11. Il congegno fu ideato, come è noto, dal matematico Archimede per incendiare le navi romane durante l'assedio di Siracusa nel 212 a.C. L'episodio è riferito da fonti tarde: Galeno (De temperamentis, III), Dione Cassio (Storia romana, XV), Giovanni Tzetzes (Chiliades, II, 118-128) e Giovanni Zonara (Epìtome ton istorion, IX, 4).

12. La grande tela di Poussin - 2,52 m × 2,65 m - è intitolata Camille livre le maître d'école de Faléries à ses écoliers, ed è oggi conservata nel Musée du Louvre di Parigi.