Uno dei canoni più saldi dell'ideologia classicista è il principio dell'imitazione, fondato sul presupposto che esistano modelli esemplari di perfezione assoluta ai quali gli emuli devono cercare di avvicinarsi. Si può discutere, come si faceva nel Cinquecento, se esista un paradigma unico o se, con più eclettismo, ne esistano più di uno tra cui volta a volta trascegliere il meglio, ma in ogni caso vale la legge della mimesi, che nel Rinascimento si codifica, da Machiavelli a Castiglione, con il topos degli arcieri, secondo cui bisogna appunto «fare come gli arcieri prudenti, a' quali parendo el luogo dove desegnano ferire troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il luogo destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere con lo aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro». [1] Si capisce allora la ragione dei tanti trattati che descrivono le figure del perfetto principe, del perfetto cortigiano, del perfetto comandante di eserciti, e via dicendo. In questa prospettiva le opere paradigmatiche costituiscono una rassicurante e indiscussa autorità paterna.
A un certo punto però, sul finire del Cinquecento, queste autorità diventano un peso mal sopportabile, se non addirittura un'ossessione edipica. La mimesi, dapprima serenamente praticata con un'imitazione deferente, necessaria per perpetuare una tradizione e una continuità senza traumi, non viene ancora rigettata, ma esercitata con la volontà di distinguersi. Lo stesso termine «Manierismo» che, sia pure con una fortuna stentata e discussa, è stato impiegato per designare un periodo intermedio tra il Rinascimento e il Barocco, significa che l'artista o lo scrittore vuole esprimersi "alla maniera di" un modello. Se nel pieno Rinascimento si aspirava alla perfetta identificazione, con il Manierismo si presuppone indirettamente una rivendicazione di autonomia. Il gusto fino allora stabile si espone a un atteggiamento più libero e personale, aperto a un raffinato sperimentalismo. A qualcuno questa irrequietezza è sembrata una forma di schizofrenia, perché divisa tra l'ossessione delle norme poetiche e la ricerca di una loro emancipazione, sconvolgendo la misura classica fondata sull'armonia, l'ordine, la simmetria, il decoro, la regolarità, la proporzione delle parti, nonostante che non se ne possa ancora prescindere.
Per quel fenomeno denominato da Harold Bloom «angoscia dell'influenza» [2], che sorge quando si è colti da un profondo senso di frustrazione davanti a un modello nei cui confronti l'ammirazione si confonde con l'insofferenza, forse indotta dall'invidia, la reazione perfino aggressiva viene a concentrarsi sui dettagli marginali, promossi a fulcro di un'opera nuova che alla fine ha poco o niente in comune con l'inibente modello originario. Il senso di impotenza si risolve allora in proclamazione di libertà, in rivendicazione creativa. Ecco perché il Manierismo è un'arte deformante, ricca di morbide squisitezze calligrafiche, sempre in caccia del bizzarro, dell'insolito, dello stravagante. Basterebbe pensare, per ricorrere a un esempio noto a tutti, all'autoritratto del Parmigianino, dipinto «alla maniera di» Raffaello, ma visto attraverso uno specchio parabolico che ne ingigantisce smisuratamente la mano, nel cui allungamento iperbolico si può riconoscere un ritorno anticlassico di elementi gotici, propensi a distendersi in forme affusolate o verticalizzate. E sempre a proposito di mani, particolare privilegiato della lirica petrarchesca, come non pensare alle tante variazioni nei sonetti di fine Cinquecento, magari sull'abbrivo di una ripresa del variegato petrarchismo della prima fase umanistica, prima che Bembo intervenisse a normalizzarne il mosso sperimentalismo ancora senza regole? Altrettanto agevole riesce poi ascrivere le nevrosi di Tasso alla sindrome manieristica di un letterato raffinatissimo incapace di adagiarsi nei metri e nel lessico di una tradizione avvertita ormai come troppo semplificata per potere esprimere adeguatamente la sua morbosa sensibilità di poeta dalla coscienza turbata ma lucida, in continua auscultazione dei propri affetti e dei propri sentimenti alla ricerca tormentosa di uno stile intensamente patetico da immettere in un universo epico ove la varietà delle passioni avvolgenti e ribelli entrino in «discorde concordia» con la struttura di un genere narrativo compatto. [3]
Questi cenni inevitabilmente fuggevoli e approssimativi a Parmigianino e a Tasso non hanno altra pretesa se non quella di mettere in guardia dalle riduzioni tipologiche a cui si tende a indulgere ricorrendo agli astratti -ismi e di far ricordare sempre che anche dietro la categoria storiografica ed estetica del Manierismo, come dietro quella del Barocco, vi sono sempre situazioni concrete, uomini vivi che, con le loro incertezze contraddizioni ambiguità, rendono il quadro molto meno lineare e coerente. Perfino Heinrich Wölfflin, noto per lo schema formale e metastorico con cui si segnano le opposizioni tra Rinascimento e Barocco (il lineare e il pittorico; la visione in superficie e la visione in profondità; la forma chiusa e la forma aperta; la molteplicità e l'unità; la chiarezza assoluta e la chiarezza relativa) [4], si è poi prodotto, dopo questa «storia senza nomi», in analisi rigorose e precise, di là dalle astrazioni semplificatrici delle antitesi. D'altra parte è inevitabile, in un convegno che si interroga sull'età barocca e sulla sua eredità, fare delle generalizzazioni, pur nella piena consapevolezza che una sintesi è sempre riduttiva e non rende giustizia della complessità delle situazioni reali. È anche evidente che se da una parte è scontata per tutte le svolte culturalmente epocali la molteplicità delle cause, è dall'altra inevitabile che ci si soffermi su qualcuna in particolare, dando per sottinteso che questa non sia l'unica, ma che la si privilegi per potere metterla un po' più a fuoco.
Soprattutto la storiografia positivistica, che amava gli studi eziologici, a cominciare da quelli sulle fonti, si è affaticata nel cercare le ragioni dell'avvento del Barocco, che per quelle generazioni ancora legate al nazionalismo risorgimentale significava anche la perdita del "primato" detenuto dall'Italia nel campo della cultura, ancorché già nel Cinquecento avvilita dalla dominazione straniera. Di volta in volta le cause sono state indicate nella dominazione spagnola, nella Controriforma e nella politica dei Gesuiti, nell'assolutismo degli stati, nella guerra dei trent'anni e nelle guerre di religione, nella debolezza militare dell'Italia, nelle trasformazioni dell'economia dovute alle scoperte geografiche, nell'esaurimento dell'attività delle accademie, nella degenerazione dell'Umanesimo. [5] Trattandosi di un fenomeno poligenetico, è probabile che tutti questi fattori siano responsabili della fine del Rinascimento, e valga la loro affastellata eterogeneità a dimostrare quanto complessa debba essere una spiegazione che inevitabilmente possiede implicazioni politiche, economiche, sociali, militari, e più specificamente culturali e letterarie. A questo proposito non saranno nemmeno da ignorare le sfasature temporali intercorrenti tra le diverse discipline, connotate da una cronologia differenziata.
In questa relazione il fattore su cui si vuole porre maggiormente l'accento, con un'operazione selettiva derivata soltanto dall'esigenza di economia, senza che sfugga la concomitanza e l'interazione con altre componenti, è la crisi dell'aristotelismo nel campo della retorica e della poetica e il contemporaneo affacciarsi di una nuova epistemologia dovuta a un mutamento di paradigma scientifico, un termine da intendersi nell'accezione e nella dinamica esposte da Thomas Kuhn. Secondo la sua definizione, il paradigma è «una conquista scientifica universalmente riconosciuta, che, per un certo periodo, fornisce un modello di problema e soluzioni accettabili a coloro che praticano un campo di ricerca». [6] Il momento rivoluzionario della scienza si verifica quando il vecchio paradigma, che Kuhn chiama «normale», con cui si interpretavano e si risolvevano i problemi dell'indagine naturale, non riesce più ad affrontare e a risolvere le «anomalie» (altro termine di Kuhn) che si presentano nella ricerca. È ciò che avviene tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento, quando dapprima le osservazioni astronomiche dell'orbita di Mercurio rendono inadeguata e troppo contorta la sua spiegazione attraverso i principî del paradigma aristotelico-tolemaico fondati sul geostatismo e poi quando i suoi presupposti della centralità assoluta della Terra e dell'incorruttibilità dei cieli sono smentiti dalle scoperte per un verso dei satelliti di Giove e per l'altro verso dei monti e delle valli nella Luna e delle macchie sul Sole. Vengono così ad affacciarsi scienziati innovatori che agiscono alla luce di un paradigma alternativo, che si potrebbe chiamare copernicano-galileiano, con cui le spiegazioni dei fenomeni partono dall'ipotesi di un sistema eliocentrico.
La nuova scienza batte in breccia il vecchio sistema a lungo puntellato dagli aristotelici, ma, dopo averlo demolito facendo perdere un equilibrio conoscitivo, non è stata in grado di sostituirlo subito con un nuovo paradigma capace di restituire le sicurezze perdute. Si crea allora un vuoto che si cerca intanto di colmare non già con un sistema ordinato e sicuro, ma con un tumultuoso accumulo di dati che vanno a costipare le scansie del sapere attingendo alle fonti più variegate, cercando conciliazioni di opposti con lo strumento analogico della metafora, garante di molteplici punti di vista. Alla «rottura del cerchio» [7], alla «perdita del centro», due elementi geometrici che designano a un tempo un universo finito e l'idea di una perfezione fondata sull'armonia delle parti, si reagisce con il bisogno di una soluzione unitaria, raggiunta però con tentativi di riorganizzazione artificiosa che, in mancanza di solidi approdi epistemologici, aspira a esorcizzare il senso di frustrazione con l'ostentazione delle forme monumentali, con l'esibizionismo difensivo delle iperboli, in uno scenario dominato da una rete di sembianze illusorie, quelle per cui, a detta di Gracián, «il sapere più grande consiste nell'arte dell'apparire». [8] Il rigoroso controllo della misura rinascimentale si infrange sotto l'impulso della sfrenata libertà conseguente alla perdita per altro dolorosa di sicuri riferimenti che venendo meno costringono a oscillare tra senso e intelletto, tra immaginazione e ragione, tra carnale e spirituale, tra naturale e sovrannaturale. [9]
Tutta un'epoca, quella che all'incirca va dal 1580 al 1680, si agita, ancorché premuta dall'esigenza di una stabilità, sotto le insegne inquiete dell'effimero, del precario, del transitorio, della labilità dell'esistere, in un'impressionante simultaneità di manifestazioni contrastanti che rendono impossibili i tentativi di definizioni univoche per la continua oscillazione dei vettori in campo. Si crea un momento di turbolenza, d'instabilità gnoseologica, di disorientamento, di perdita di fiducia, responsabile di provvisori sincretismi. I presupposti su cui riposavano le credenze secolari non sono più un patrimonio comune, convenuto e accettato senza ansie, ma diventano un problema insolubile capace solo di prospettare soluzioni eterogenee avvolte nell'incertezza, assunte lungo una fascia così divaricata da comprendere tanto il più dogmatico e cieco conformismo quanto il più eterodosso libertinismo. E nessuno meglio di un poeta, l'elisabettiano John Donne (1572-1631), potrebbe rappresentare l'angoscia degli uomini barocchi, per i quali una «new philosophy calls all in doubt», con la conseguenza che «'tis all in pieces, all coherence gone», costringendoli a riconoscere che «this world's spent, / when in the planets, and the firmament / they seek so many new», potendo solo constatare che il loro vecchio mondo «is crumbled out again to his atomies». [10]
A maggior ragione, passando dal piano dell'episteme a quello dell'opinabile, l'affermarsi della cultura barocca, secondo la diagnosi di Guido Morpurgo-Tagliabue, trova nel campo della retorica una sua motivazione parallela nella crisi degli endoxa, ovvero le premesse largamente condivise su cui si fonda la teoria dell'argomentazione. Venendo meno «un sistema unico, dominante e accettato di principî comuni, quale lo avevano posseduto l'antichità, il medioevo, il primo rinascimento» [11], una materia che veniva seguita senza dubbi radicali diventa incerta, malagevole, da rifondare, sicuramente ancora sotto il magistero di Aristotele, il cui Organon tuttavia non è più accettato senza discussione, con vistosi squilibri della sua tassonomia originaria.
Significativo a questo proposito è il titolo, semioticamente sconcertante, del Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro, che costituisce un paradossale ossimoro, nel quale si viene a congiungere il tradizionale paradigma di Aristotele con quello innovatore e alternativo di Galileo, simboleggiato dal cannocchiale. Si potrebbe quasi sostenere che questo sistema ibrido, bifocale, ruotante intorno a due centri, sia l'equivalente nell'àmbito delle scienze umane del sistema astronomico di Tycho Brahe, fatto proprio non a caso dai Gesuiti, secondo il quale i pianeti ruotano, come voleva Galileo, intorno al Sole ma questi comunque gira pur sempre intorno alla Terra immobile. Un terzo esempio di bifocalità ossimorica può essere costituito dalla definizione di «Classicismo barocco», rappresentato nel Seicento dalla cerchia romana di Maffeo Barberini, fautore di una poesia in linea con una risentita saggezza umanistica aliena nella sua sorvegliata sobrietà dalle arguzie dell'ingegno. Ma pur continuando a perseguire il modello di una fluente prosa governata da una ipotassi piramidale, il paradigma rinascimentale che si rifaceva a Cicerone perde la sua coerenza e la tradizione classica del latino aureo si contamina, nel caso del circolo barberiniano, con il modello biblico dei Salmi.
Inevitabilmente un'età così piena di contrasti come il Seicento, con tanti aspetti a volte anche opposti che convivono fianco a fianco, confondendosi e sovrapponendosi perfino in una stessa personalità, non può essere ridotta a un'unica cifra. Il classicismo, mentre nel Cinquecento, essendo il gusto dominante, investiva ogni manifestazione, nel secolo successivo si organizza intorno a motivi polemici contro la moda corrente, dalla quale per altro non può mai dirsi del tutto immune, come se il tumulto barocco fosse intervenuto a mutare la precedente unità del sapere. I frammenti dell'antico vengono restituiti in una totalità nuova dove a segnare la fine del Rinascimento è la crisi del principio d'autorità.
Non è solo la nuova scienza di Bacone, Galileo, Cartesio, Pascal, Keplero a condannare l'ipse dixit: anche le poetiche ne sono partecipi, se non nelle pronunce esplicite, nel loro atteggiamento agonistico verso i modelli della tradizione. Avendo perso sicuri punti di riferimento, si ricerca la novità, l'originalità, espressa anche con forme di ribellione che mal sopportano le regole e la tradizione. Comincia qui la secolare querelle des anciens et des modernes con il ritorno del topos prerinascimentale che paragona gli uomini del presente a nani sulle spalle dei giganti, superiori agli antichi non foss'altro per essere venuti dopo. Il principio d'imitazione può anche non venir meno completamente, ma in questo caso si scelgono modelli eccentrici, emarginati o trascurati nel Cinquecento perché schiacciati da altre auctoritates. In termini generali ai rappresentanti della letteratura latina «aurea», che era proprio un attributo conferito dal Rinascimento all'età di Augusto, si sostituiscono quelli dell'età «argentea», non senza altre contaminazioni, soprattutto alessandrine. Nella prosa si crea nel Seicento un movimento anticiceroniano di latitudine europea, fondato sul latino di Seneca e di Tacito. [12]
Se si considera l'operazione compiuta dal più esemplare di questi campioni del laconismo, Virgilio Malvezzi, un prosatore noto e ammirato anche in Spagna, si può comprendere tutta la distanza dalle poetiche rinascimentali. Se infatti si guarda solo alla veste esteriore, le sue ricostruzioni delle vite di Romolo e di Tarquinio il Superbo potrebbero sembrare delle biografie che fanno la parafrasi di ciò che ha scritto Tito Livio, uno storico oltre tutto in linea, per la patavinitas di cui fu accusato, con lo stile florido per molti versi affine a quello ciceroniano. Sennonché alla radice di questa scelta non c'è la volontà di un'ossequiosa imitazione ma il proposito di una sfida agonistica che rovescia i canoni della mimesi rinascimentale, in quanto Malvezzi non vuole più "romanizzare" o "ellenizzare" la prosa cinquecentesca, ma al contrario "secentizzare" lo storiografo latino, non solo attenendosi a un "argenteo" modello alternativo a quello dell'età augustea, ma anche e soprattutto creando un genere nuovo, non più oratorio, secondo il principio classico che ha inteso la storia appunto quale «genus maxime oratorium», ma filosofico, non più fondato sulla retorica dell'agorà e dei discorsi pubblici, ma su una diagnosi profonda, intima e assorta dei moti dell'animo. Il vero protagonista delle considerazioni di Malvezzi non è il tiranno, ma la sua psicologia, il vero oggetto del suo studio non sono le sue azioni ma i loro presupposti etici e politici. Non solo ma, tenuto anche conto della spiritualità e della devozione cristiana di Malvezzi, non si deve escludere nemmeno il modello della Bibbia, con i suoi scorci improvvisi di luci e di ombre, con i suoi silenzi, le oscurità e le reticenze, con l'intrinseco appello ad approfondire il senso e le suggestioni del non detto. Si potrebbe allora ipotizzare, avendo sempre in mente quello che ci ha insegnato Auerbach in Mimesis, che Malvezzi abbia voluto "tradurre" la fluente prosa liviana, in cui, come in Omero, tutto è spiegato, nell'enigmatico linguaggio biblico.
Le due culture, quella greco-romana e quella ebraica, si contaminano non solo nella prosa, dove i predicatori emulano l'oratoria classica nel commentare i versetti biblici e Marino nelle Dicerie sacre fonde l'oratoria sacra con l'erudizione "laica", ma anche nella poesia, per l'influsso dei Salmi, come si vede nello stesso Barberini, nei suoi poeti e in Campanella. Se, per rifarsi ancora ad Auerbach, è propria del classicismo rinascimentale la divisione degli stili, con la sua fine si passa alla loro mescolanza. È tipico delle poetiche barocche l'istituzione di generi misti di frontiera, quali la tragicommedia o il poema eroicomico, mentre le forme classiche (la lirica, l'epica) si colorano di tinte romanzesche. Ciò che Tasso visse drammaticamente come una grave infrazione di cui pentirsi, ora diventa la norma. Come non bastasse, i contenuti del petrarchismo vengono stravolti fino a sovvertire il suo canone, dando luogo al Kitsch, visibile nell'intenzionale deformazione delle sue astratte bellezze. Le fonti non sono più quelle acclarate e fissate da una gerarchia ma sovvertite in direzione delle periferie. In Marino non solo Ovidio e Apollonio Rodio prendono il posto di Virgilio nel genere epico, ma in quello lirico il baricentro si sposta sugli autori ellenistici, da Nonno a Mosco a Bione. E sempre in direzione alessandrina si muove il romanzo barocco, un genere neppure contemplato da Aristotele per la sua connaturata irregolarità, e nel Rinascimento poco frequentato in modo autonomo, ma molto diffuso nel Seicento, soprattutto nelle versioni avventurose. Un altro segno, questo, della fine del Rinascimento, riscontrabile quando nel sistema dei generi fa la sua irruzione questa forma eversiva e incodificabile.
Per una di quelle coincidenze che non sempre sono frutto di una «storia dello spirito» determinata a far tornare i conti a ogni costo, entro la logica dello Zeitgeist, si dà il caso che proprio nel periodo in cui la scienza moderna comincia a lottare per la sua affermazione sul paradigma aristotelico si assista alla diffusione impetuosa del romanzo, antagonista, nell'invocare pluralismo di azioni e molteplicità di personaggi, della fissità dell'epica, il genere sovrano, insieme con la tragedia, del Rinascimento. È un fatto incontrovertibile che, secondo le distinzioni illuminanti di Bachtin, il genere epico è ritenuto compiuto e perfetto nei suoi valori assoluti formulati in un passato lontano su cui l'esperienza personale del presente non ha alcuna incidenza o, se la possiede, il suo ruolo non è decisivo, trattandosi di un modello giudicato incontestabile, esattamente come la cosmologia peripatetica. Il romanzo invece è di natura fluida, incompiuta e in divenire, con uno statuto dal mandato sempre provvisorio, condizionato dalla situazione del presente e da una più libera invenzione creativa, emancipata dai modelli univoci della tradizione e della mimesi perché aperto alla plurivocità del reale. [13] Non è quindi azzardato, nell'assomigliare il comportamento euristico del nuovo metodo della scienza moderna alle procedure narrative del romanzo, cogliere in questi due eventi, l'uno sul côté epistemologico, l'altro su quello letterario, il segno di un passaggio epocale.
Non per nulla ancora per Bachtin «il romanzo è l'espressione della coscienza linguistica galileiana che ha rinunziato all'assolutismo di una lingua unica e unitaria, non accettando più la propria lingua come solo centro semantico-verbale del mondo ideologico». Alla perfezione statuaria dei cieli tolemaici si addice la parola definitiva dell'epica, declamata da una tradizione orale che ne sancisce la sacralità immota; alla logica fermentante della scienza moderna, con la quale vengono distrutti la finitezza e l'isolamento dell'universo, può «essere adeguata soltanto la coscienza linguistica galileiana, incarnata dalla parola romanzesca» [14], più adatta alla percezione muta, in un dialogo non meramente ricettivo ma critico con i fenomeni, allorché le grandi scoperte astronomiche e geografiche, per non dire di quelle matematiche del calcolo infinitesimale, dilatano a dismisura i confini del vecchio mondo, per secoli rappresentato adeguatamente dall'idealizzazione unitaria e stabile dell'epica.
A questo punto, chi può sostenere che sia soltanto una coincidenza il fatto che nell'elenco di libri posseduti da Galileo figurino la versione italiana del Lazarillo de Tormes, tradotto nel 1605 come Il picariglio castigliano da Barezzi, e il Don Chisciotte nella traduzione del 1622-25 di Lorenzo Franciosini? [15] È del tutto fantasioso pensare che all'attività dello scienziato moderno sia più congeniale di altre la forma del romanzo picaresco, espressione di un pensiero e di una parola non ufficiali, destabilizzanti, nutriti di discorso familiare e di comicità, o meglio ancora degli acidi della satira, un genere considerato il più vero predecessore del romanzo in quanto il riso che gli è connesso, oltre che annullare le distanze dalla propria materia fissate dall'epica, ne dissolve anche le antiche certezze, indirizzando il discorso verso una più libera problematicità?
Anziché apprendere dai modelli lezioni di vita dal carattere esemplare, come ancora sognava Tasso, le poetiche del Barocco vi attingono forme peregrine che rimontino di preferenza ai testi umbratili della tradizione ellenistica, da cui ricevere nuovi impulsi allo sperimentalismo ispirato al virtuosismo tecnico. Senza abbandonare le regioni poetiche del passato, gli autori barocchi le percorrono fino ai luoghi più marginali, guidati però dalla volontà moderna di riportare alla luce inedite meraviglie che sappiano fare spettacolo. Il loro patrimonio non viene riesumato per essere venerato, ma per trarne motivi di arguzie. L'idea di eternità connaturata nel classicismo rinascimentale cede il posto ai giochi illusionistici, con l'osservatore che deve rinunziare a una visione frontale e definita, rimpiazzata da uno scenario mutevole. Cardini del nuovo sistema letterario sono la metafora e la metamorfosi, due fenomeni che si possono interpretare come manifestazioni della perdita di punti sicuri di riferimento. Poiché non c'è mai nulla di concluso, al contrario di quanto avveniva in seno al canone classico, ove la temporalità, fattore di mutamento, era quasi bloccata su un solo momento dell'azione, all'interno di una struttura compositiva accentrata temporalmente e spazialmente, come nell'epica, il canone estetico si volge al dinamismo delle forme introducendo nelle opere più punti di vista, tra i quali ci si muove senza sosta.
Le poetiche barocche si rendono conto con una consapevolezza mai avuta prima che, contrariamente a quanto recita la definizione canonica e classica di metafora, questa non è una figura di sostituzione ma comporta un processo semantico di tipo additivo, nel senso che il termine figurato non prende pacificamente il posto del termine proprio, ma entra con esso in tensione dialettica, interagendo una volta di più secondo la logica bifocale dell'ellisse. Quando Emanuele Tesauro osserva che questa figura retorica fa vedere «in un vocabulo solo un pien teatro di meraviglie» [16], intende dire che questo tropo è come un palcoscenico drammaticamente dotato di molteplici quinte sovrapposte visibili sinotticamente. Non solo, ma la perdita di referenti comunemente condivisi fa sì che il termine figurato tenda a sua volta a diventare il termine proprio di un traslato di secondo grado, creando una metafora continuata prossima all'allegoria. Che ciò contravvenga al canone rinascimentale sarà denunciato nella stagione di Arcadia da chi si proponeva un ritorno al classicismo. Per Muratori non è lecito dare consistenza agli oggetti metaforici e perciò fantastici perché infrangono la legge classicista del verisimile. Secondo quanto si legge nella Perfetta poesia italiana sull'abbrivo di un esempio censurato che giunge da Francesco de Lemene, si può ancora dire, con due metafore, che le labbra di una bella donna sono rose e i suoi seni gigli, ma non si possono poi per questo invitare le api a suggerne il miele. [17]
A essere infranto è il canone rinascimentale della chiarezza, della perspicuitas, oltre che dell'aptum, del conveniente, che le poetiche barocche spesso ignorano o trasgrediscono perché il loro interesse diventa piuttosto quello di ritrovare con ogni mezzo l'unità e la coerenza che si sono perdute da quando, per parafrasare il titolo di un famoso libro di Alexandre Koyré, la scienza ha sancito il passaggio da un mondo chiuso a un universo infinito. Ecco perché, nello sforzo di tenere insieme una realtà che da ordinata - è questo il senso della parola "cosmo" - si è rivelata caotica, il Barocco fa della metafora l'oggetto principale delle sue ricerche, in quanto figura che stabilisce un corto circuito accostando concetti e cose non omogenee, mentre semmai il Rinascimento dava la preferenza alla similitudine, con cui l'analogia stabilisce una somiglianza tra due elementi che rimangono distinti, laddove la metafora fissa un'identità, pur essendo spesso di natura capziosa, surrettizia e infondata. Ed ecco anche perché nel Seicento si dà tanta importanza all'ingegno, la facoltà mentale che trova relazioni tra cose apparentemente remote, facendo del «legamento» (così Matteo Peregrini chiama nel suo trattato Delle acutezze ciò che oggi Richards ha chiamato il «ground» [18]) l'elemento cruciale di ogni poetica. Inutile precisare che dell'ingegno e della metafora tratta già Aristotele, ma è significativo che nel corso del Cinquecento i tanti commentatori della sua Poetica non abbiano dato loro la rilevanza che assumono nel secolo successivo.
Nel momento in cui la scienza ha mostrato la natura irriducibile dell'universo, si mettono in primo piano la ricerca di una sintesi, l'aspirazione a un'unità che si è perduta e che si cerca drammaticamente di ritrovare. L'enciclopedismo è sempre esistito, ma mai, da quello di Poliziano a quello di Diderot e D'Alembert, è stato altrettanto inclusivo, nella pretesa, comune forse solo a quello medievale, di non trascurare nulla, ubbidendo a un horror vacui che non esita a mettere a repentaglio la tassonomia ordinata e discreta del Cinquecento, quella per esempio di Pierre de la Ramée, fondata su una logica dicotomica. Basterebbe vedere il corrispettivo di queste pansofie secentesche costituito dal collezionismo, che in quel secolo si manifesta con le Wunderkammern, comprensive del raro, dell'esotico, del teratologico. Nondimeno la passione per l'eccentricità e per l'anomalia non nasce in realtà da un anelito ribellistico di infrazione, ma anzi dal suo contrario, dall'intento di controllare anche le eccezioni, trovando per esse una collocazione che vanifichi il loro sfuggente isolamento. È la stessa ambizione che induce a scrivere poemi cosmogonici, da Du Bartas a Tasso a Milton, e a costruire senza posa mappamondi, astrolabi, planisferi con cui compendiare, per dirla con Giambattista Marino, «la gran rota del tutto in picciol tondo» (Adone, X 174 4).
La fine della presunzione antropocentrica, sancita dalla nuova scienza, il venir meno l'illusione che il cosmo sia stato creato in funzione dell'uomo messo al centro di tutto l'universo fa convivere due tratti opposti, da una parte la frammentazione delle cose che assegna loro una forte individualità, a formare una totalità gremita, frantumata, esuberante, giustapposta, dall'altra l'aspirazione all'unità, per altro insoddisfatta e per così dire asintotica, confacente al gusto per le costruzioni monumentali. Viene però meno una gerarchia di valori, da quando la nuova cosmologia, negando oltre tutto la perfezione dei cieli, a cominciare dallo stesso Sole, quale meta simbolica a cui tendere, insieme con l'antropocentrismo ha messo in discussione una visione teleologica, inculcando negli uomini un senso di precarietà, d'instabilità, di contraddittorietà, derivato comunque dalla loro intraprendenza conoscitiva.
È noto a tutti il sintagma leopardiano della Terra ridotta a «granel di sabbia» per irridere o compiangere la vanità dell'umana «prole» che crede di essere «signora e fine […] data al Tutto» (La ginestra, vv. 183-194), da cui deriva l'immagine pirandelliana degli uomini che hanno appreso dalla scienza moderna di vivere «su un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino». [19] Non si deve però dimenticare che la metafora è tipicamente secentesca, presente in un poeta metafisico inglese, Abraham Cowley, il quale dopo avere esclamato: «how small the biggest parts of Earth's proud tittle show!», nota che in proporzione la non meno orgogliosa Inghilterra «seems a grain of the sand». [20] L'insignificanza dell'uomo sperduto in un universo insensato gli fa perdere l'orientamento, con il tutto che s'identifica nel nulla, e viceversa. Il canone selettivo del classicismo si converte in coacervo inclusivo, in cui l'ornamentazione e l'accessorio coprono il vuoto lasciato da ciò che era sostanziale. Quella che fu la lirica discriminante del petrarchismo nel Seicento accoglie anche il brutto, cantando donne zoppe, sdentate, balbuzienti, mute, guerce, pazze, spiritate, aprendo per giunta nuovi fronti da trattare, scelti, come già nell'età alessandrina, tra creature e oggetti ora triviali (pulci, zanzare, mosche, cicale, rane), ora effimeri (la bolla di sapone, le nuvole), ora quotidiani (il ventaglio [21], gli occhiali), ora esotici (la passiflora). Nella poetica del Barocco tutto è accettato e messo sullo stesso piano: «omnia canenda sunt in poësi», sostiene il gesuita Alessandro Donati. [22]
Alla legge della sprezzatura rinascimentale subentra quella della catacresi, dell'abuso, quando la bellezza non è più data dalla semplificazione ma dall'imprevedibile e dallo stravagante. Ragionando da un punto di vista angustamente classicistico, tutto ciò è la testimonianza di una decadenza italiana, come da prospettiva arcadica ebbe a denunciare Muratori, per il quale nel Seicento «l'Italia, non so come, lasciò rapirsi da altri popoli, non già le lettere, ma il bel pregio della preminenza in alcuna parte delle lettere; e trascuratamente permise che altre nazioni più fortunate, certo non più ingegnose, le andassero avanti nel sentiero della gloria, ch'ella aveva dianzi insegnato ad altrui», specie quando, nel Cinquecento, «dalla nostra Italia di nuovo succiarono l'altre provincie dell'Europa il vero sapor delle scienze». [23] In questa translatio studiorum Muratori metteva in primo piano la serietà delle scienze umane e naturali contrapponendole alle «frasche» della poesia. In altri modi la dicotomia ritornerà ancora nella storiografia risorgimentale, per prolungarsi fino a Croce. Per quanto la produzione più numerosa appartenga di fatto alla lirica, alla novellistica, all'epica, al romanzo, tutti generi coltivati all'ombra delle Signorie di ancien régime, la costruzione desanctisiana dell'Italia letteraria valorizza una galleria di filosofi e di scienziati considerati i veri padri della nazione. Dal suo punto di vista la decadenza letteraria del Seicento è stata riscattata da Bruno, Campanella, Galileo, simboli del risveglio della vena speculativa e scientifica.
L'ipotesi che qui si è fatta è invece che la letteratura barocca non è antinomica alla rivoluzione scientifica, ma può esserne, in ultima istanza e con molte mediazioni e concause, una sua conseguenza. A suggestionare questa prospettiva è stato, nell'ultimo cinquantennio, l'affermarsi di una diversa periodizzazione centrata sul «primato della Rivoluzione scientifica» come svolta con cui rendere ragione dell'avvento del "mondo moderno", in sostituzione dell'impianto illuministico che aveva insistito, da Michelet a Burckhardt e fino a Gentile, sul «primato del Rinascimento». [24] Se la modernità consiste, per lo meno nei suoi caratteri dominanti e più evidenti, nella multidimensionalità e fluidità dei rapporti, nell'ibridazione, nell'instabilità, è più probabile che essa cominci con l'affermazione della cultura barocca, un'età da cui sembra discendere l'eredità odierna di un tempo fondato sulla contraddizione, sull'incertezza, sull'inquietudine degli interrogativi più che sull'appagamento delle risposte.
Note
1. N. Machiavelli, Il Principe, cap. VI. E si veda anche la dedica del Cortegiano, III.
2. H. Bloom, L'angoscia dell'influenza (1973), trad. it., Milano 1983.
3. A. Battistini e E. Raimondi, Le figure della retorica, Torino 1990, p. 135.
4. H. Wölfflin, Concetti fondamentali della storia dell'arte (1915), trad. it., Milano 19842.
5. Si veda, a titolo indicativo, il saggio di A. Graf, Il fenomeno del secentismo, in «Nuova Antologia», XL (1905), vol. CXIX, n. 811, pp. 353-382, a pp. 372-376.
6. Th. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), trad. it., Torino 1969, p. 10.
7. The Breaking of the Circle è il titolo di un lavoro pionieristico di M. H. Nicolson dedicato al Seicento (New York-London 1960).
8. B. Gracián, El discreto, texto crítico por M. Romera Navarro y J. M. Furt, Buenos Aires 1959, cap. «Hombre de ostentación».
9. Un quadro efficace della «perplessità interrogativa» del Seicento in C. Calcaterra, Il Parnaso in rivolta (1940), Bologna 19612, p. 122.
10. J. Donne, The First Anniversary (1612), in A. J. Smith (a cura di), The Complete English Poems, Harmondsworth 19732, p. 276.
11. Edita dapprima come Aristotelismo e Barocco, in Retorica e Barocco. Atti del iii Congresso Internazionale di Studi Umanistici (Venezia, 15-18 giugno 1954) a cura di E. Castelli, Bocca, Roma 1955, pp. 119-195, la lunga relazione è stata ripubblicata, insieme con altre ideali appendici, in G. Morpurgo-Tagliabue, Anatomia del Barocco, Palermo 1987, dove le cit. del testo sono alle pp. 26 e 47.
12. Cfr. G. Williamson, The Senecan Amble, Faber & Faber, London 1951 e M. W. Croll, Style, Rhetoric, and Rhythm, Princeton (N. J.) 1966.
13. M. Bachtin, Epos e romanzo (1938), in V. Strada (a cura di), Problemi di teoria del romanzo (con G. Luckács e altri), trad. it., Torino 1978, pp. 181-221.
14. Id., Estetica e romanzo, trad. it., Torino 1979, p. 174.
15. A. Favaro, La libreria di Galileo Galilei, in «Bullettino di bibliografia e di storia delle scienze matematiche», XIX (1886), pp. 219-293.
16. E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, Torino 16705 [rist. anastatica a cura di G. Menardi, Savigliano (Cuneo) 2000], p. 267.
17. L. A. Muratori, Della perfetta poesia italiana (1706), Venezia 1748, p. 292.
18. I. A. Richards, La filosofia della retorica (1936), trad. it., Milano 1967, pp. 88-92.
19. L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal (1904), Milano 19766, p. 50.
20. A. Cowley, The Ecstasie, in Pindaric Odes, London 1677, p. 41.
21. «Oggetto importante nell'estenuata armeria erotica dell'Adone» è definito da Giovanni Pozzi nel commento a G. Marino, L'Adone, a cura di G. Pozzi, Adelphi, Milano 1988, II, p. 342. Un sonetto al ventaglio dedica anche Antonio Bruni, in B. Croce (a cura di), Lirici marinisti, Bari 1910, p. 120.
22. A. Donati, Ars poëtica, sive institutionum artis poëticae libri tres, Coloniae Agrippinae 1633, p. 16.
23. L. A. Muratori, Primi disegni della Repubblica letteraria d'Italia (1703; in realtà 1704), in G. Falco e F. Forti (a cura di), Opere, Milano-Napoli 1964, vol. I, p. 180. Stessa osservazione si trova in Antonio Vallisneri: «Così veggiamo essere accaduto alle scienze: dall'Asia passarono alla Grecia, dalla Grecia in Italia, ed ora, se non è, pare almeno, con mio infinito cordoglio, che co' libri migliori, manoscritti antichi, memorie, lapidi, medaglie, bronzi e simili facciano passaggio nell'Inghilterra, nella Francia e nella Germania, luoghi una volta giudicati barbari, senza lettere e senza nome» (A. Vallisneri, Che ogni italiano debba scrivere in lingua purgata italiana [1722], a cura di D. Generali, Firenze 2013, p. 73).
24. Cfr. M. Ciliberto, Cesare Vasoli interprete del Rinascimento, in S. Caroti e V. Perrone Compagni (a cura di), Nuovi maestri e antichi testi, Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Cesare Vasoli (Mantova, 1-3 dicembre 2010), Firenze 2012, pp. 1-17, in part. pp. 9-11.