I Cartari, una famiglia di giuristi nella Roma barocca

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Author: 
Simona Feci

Le pagine che seguono costituiscono la prima elaborazione di un'indagine in corso sui giusdicenti della magistrature criminali dello Stato della Chiesa in età barocca. Il tema si collega a una tradizione di ricerca sugli ufficiali degli antichi stati italiani che negli anni Novanta ha conosciuto una stagione molto feconda [1], ma che poi si è quasi del tutto arrestata malgrado nel frattempo si siano moltiplicati gli studi sull'amministrazione della «giustizia» in età moderna. [2] Ritornare sul problema significa arricchire il questionario con ulteriori domande, le quali pongono in relazione due ambiti disciplinari: la storia sociale e la storiografia giuridica. [3] Identificare i componenti delle magistrature, infatti, è solo il primo passo per riflettere in modo circostanziato sul profilo del giurista secentesco, lo stylus iudicandi delle magistrature criminali e le innovazioni concettuali che intervengono nella dottrina giuridica durante il XVII secolo. [4] Mi pare, questo, un preludio necessario se vogliamo accogliere la suggestione proposta dal progetto ENBaCH e interrogarci sulla pertinenza (e sull'eventuale utilità di una applicazione) del concetto di «barocco» alla cultura giuridica secentesca. Anche una sommaria ricognizione bibliografica rivela che, nella storiografia giuridica, l'aggettivazione 'barocco' è impiegata perlopiù come indicatore cronologico, cioè come sinonimo di 'Seicento'. [5] Addirittura Douglas J. Osler, che alcuni anni fa intitolava la sua raccolta di testi giuridici italiani del XVII secolo «Jurisprudence of the Baroque», assume in questa accezione i sistemi legali dei paesi della Controriforma (Italia, per l'appunto, Spagna e Portogallo con le loro sfere di influenza oltre Atlantico) tra 1550 e 1750, un arco di tempo coincidente con la piena età moderna. [6] Colpisce, d'altra parte, che negli studi sulla cultura «barocca» la scienza giuridica e la giurisprudenza siano assenti: evidentemente estranei alla sfera dell'arte, i testi prodotti dai giuristi sembra che siano ritenuti incapaci di essere posti in relazione pure con la letteratura e con la scienza, nonostante l'impiego della scrittura e l'elaborazione di «generi letterari», lo sviluppo di una riflessione sulla lingua [7], e soprattutto l'applicazione degli autori all'esercizio del 'giudizio' e alla ermeneutica del «caso».

Per un saggio dei problemi che pone e riapre una ricerca prosopografica sui «giusdicenti», è utile - in questa sede - presentare le vicende biografiche di una nota famiglia originaria di Orvieto: i Cartari, i cui esponenti sono giuristi e magistrati impegnati al servizio dei tribunali criminali dello Stato della Chiesa e di alcuni stati territoriali dell'Italia centro-settentrionale. Proprio l'omogeneità di questo indirizzo, seguito sull'arco di almeno tre generazioni tra metà XVI e metà XVII circa, consente di verificare, innanzitutto all'interno del lignaggio, le permanenze e le discontinuità nel profilo del magistrato (al di là ovviamente delle strategie di promozione della famiglia stessa). Per di più, la disponibilità di un importante archivio familiare e la ricchezza dei materiali prodotti e conservati al suo interno offrono una possibilità eccellente per ricostruire in modo qualitativo le carriere dei diversi membri e la loro produzione giuridico-dottrinale. [8] I Cartari però non sono un caso eccezionale. Anzi, i membri di questa famiglia rientrano a pieno titolo in un insieme di giusdicenti laici attivi nell'apparato giudiziario dello Stato pontificio (ma non solo), di cui ho ricostruito la carriera e sto esaminando l'attività professionale, l'eventuale produzione giurisprudenziale e dottrinale, le relazioni con altri e talora assai famosi giuristi, gli interessi culturali, attestati dalle biblioteche e dal patronage, nella prima metà del Seicento, cioè durante i pontificati Borghese, Ludovisi e Barberini. [9] Ed è quindi in relazione a questo gruppo di funzionari e giusperiti pontifici che le vicende qui presentate acquistano un carattere esemplare.

 

1. La carriera del «criminalista» nello Stato della Chiesa tra XVI e XVII secolo

Della famiglia Cartari, consideriamo tre esponenti: Giulivo (1559-1633), suo padre Flaminio (1531-1593) e il nipote Pietro Paolo Febei (1586-1649), figlio di una sorellastra. [10]

Cominciamo da Giulivo. Si laureò a Perugia il 25 ottobre 1582, a 23 anni, e intraprese l'attività legale. Conseguì il primo incarico pubblico nel 1591 come uditore criminale del governatore di Campagna e Marittima Dionigi Ratta (il quale poi sarebbe stato luogotenente criminale dell' Auditor Camerae e uditore di Rota). Fu quindi luogotenente del governatore di Fano Maffeo Barberini (fine 1592-metà 1593), che lo raccomandò nella stessa posizione al governatore di Ascoli Luca Alamanni (1593). Successivamente, dal 29 agosto 1595 al 13 giugno 1602, esercitò la carica di vicario criminale dell'arcivescovo di Milano Federico Borromeo, con la facoltà di procedere «in omnibus et quibuscumque causis, litibus et negotiis criminalibus ac etiam S. Officij Inquisitionis hereticae pravitatis». [11]

Al termine di questo periodo, per motivi di ordine familiare rientrò in patria. Nel dicembre 1606 sposò Lavinia Beccoli (figlia di Vincenzo, che era stato mastro di casa dei duchi di Urbino, e di Artemia Marabottini), i cui fratelli Giulio e Giovan Battista erano o sarebbero diventati anch'essi dottori in legge.

Svolse l'incarico di uditore del Torrone di Bologna dal febbraio 1608 al 10 ottobre 1614, periodo in cui furono legati Benedetto Giustiniani, Maffeo Barberini e, per alcuni mesi, Luigi Capponi. [12] Nel 1615, «trattenendosi in Orvieto, fu chiamato in Roma per trattare e concludere con altri deputati la concordia tra li ministri ecclesiastici di Milano e li Regij». [13] Esercitò poi alcuni governi «prelatizi» o assegnati di solito a prelati: fu prefetto a Norcia (nov. 1615-genn. 1620), succedendo a mons.r Niccolò Strozzi, e governatore a Faenza per un anno (a partire dal febbraio 1620). [14] Nel febbraio 1621, a poche settimane dall'elezione di Gregorio XV, Cartari fu chiamato a Roma come luogotenente criminale dell'Auditor Camerae Giovan Domenico Spinola. [15] In seguito, il papa volle inviarlo per un secondo mandato a Bologna come uditore del Torrone durante la legazione di Roberto Ubaldini e mentre era vicelegato Giulio Sacchetti, «come a carica di maggior guadagno e stima». [16] Dopo pochi mesi però, asceso al soglio Maffeo Barberini, Cartari fu richiamato a Roma e, il 13 ottobre 1623, Urbano VIII lo nominò fiscale generale della Reverenda Camera Apostolica. [17] Infine, dopo molte avvisaglie e alcuni falsi allarmi manifestati fin dal 1626, fu nominato senatore di Roma nel 1629. [fig. 1] Secondo Carlo, il papa avrebbe in tal modo inteso «minuirgli la fatica et accrescergli honorevolezza» con la «carica principale che possa darsi a gl'ammogliati». [18] Morì in carica il 16 aprile 1633.

Vediamo a questo punto la carriera del nipote di Giulivo Cartari, Pietro Paolo Febei (1586-1649), figlio della sorella uterina Cecilia. I due percorsi, infatti, oltre a essere omogenei sono tra loro fortemente intrecciati.

Pietro Paolo Febei, dopo una prima formazione in patria e studi a Pisa, raggiunse Cartari a Bologna nel 1608, «acciò ivi con la scorta del zio proseguisse i studij legali». [19] Il soggiorno del giovane durò poco tempo tuttavia, a causa di una patologia agli occhi aggravata dall'aria della città felsinea (circostanza che si sarebbe ripresentata anche in seguito a ridimensionare l'attività di Febei). Ritornato in patria, su incarico del comune di Orvieto, intraprese una lettura pubblica di Instituta civile e impartì lezioni private di diritto, mentre si dedicava all'avvocatura. Nel 1610 sposò Lucrezia Guidoni, da cui ebbe cinque figli maschi e due femmine. [20] Nel 1615 seguì Giulivo a Norcia come suo luogotenente, e lo affiancò anche a Faenza, dal 1620. Dopo aver rinunciato a tornare a Norcia come uditore del governatore Pietro Carpegna, Febei soggiornò qualche tempo a Orvieto in qualità di segretario del Comune, un ufficio di nuova istituzione destinato a un togato. La trasferta a Jesi come uditore del governatore Nicolò Monaldeschi, al quale era stato proposto da Cartari, s'interruppe entro pochi mesi, nel 1622, per la promozione del prelato alla S. Consulta. Nel medesimo anno pertanto Febei si trasferì a Perugia come luogotenente del vicelegato Francesco Visconti (figlio di Isabella Borromeo e dunque nipote del cardinale Federico), quindi lo seguì a Fano, quando questi assunse il governatorato della città nel 1623, e poi a Spoleto, sempre nella medesima posizione. Nel 1624, allorché Cartari era fiscale generale, Febei si trasferì a Roma come giudice criminale di Campidoglio; poi si spostò prima a Ferrara, come luogotenente criminale del legato (1627), quindi a Bologna come uditore del Torrone (1627-1628). [21] Con la nomina di Cartari a Senatore, Febei subentrò come fiscale generale. [22] In seguito alla morte della moglie, avvenuta già prima del trasferimento romano, Febei si ritrovò nella condizione di poter prendere gli ordini: il nuovo statuto ecclesiastico consentì a Urbano VIII di nominarlo assessore del S. Offizio nel 1633 (ed ebbe così parte nel processo di Galileo), ma già nel 1635 era vescovo di Bagnoregio. Fu l'ultimo dei suoi incarichi, sebbene fosse stato anche in predicato di diventare nunzio a Napoli e governatore di Roma. [23]

Sulla base di questa sintetica rassegna delle carriere di Giulivo Cartari e di Pietro Paolo Febei, avanziamo ora alcune considerazioni, tese tutte a indicare il carattere di esemplarità del loro percorso.

Sull'origine 'provinciale' dei funzionari degli apparati pubblici, amministrativi e giudiziari, degli antichi stati italiani, si sono fatte da tempo osservazioni. [24] E il caso dei Cartari, nativi di Orvieto, rientra nella percentuale di un terzo dei «criminalisti» dello Stato della Chiesa che, nella prima metà del Seicento, provengono dall'Umbria. [25] Vorrei suggerire, tuttavia, che esista una dicotomia tra le carriere dei civilisti e quelle dei criminalisti, dicotomia che risulterebbe dalla impermeabilità non solo degli individui ma anche delle «dinastie» dei giuristi all'uno o all'altro ambito. [26] Pertanto anche la geografia provinciale delle provenienze merita di essere precisata con più cura, proprio intrecciando la prospettiva centrata sui luoghi di origine con quella che muove dalle istituzioni.

Venendo agli uffici, è facile riconoscere nella serie di incarichi rivestiti da zio e nipote quali siano le sedi di maggiore prestigio in cui i «criminalisti» operanti nello Stato della Chiesa sono chiamati a esercitare: il tribunale criminale del Governatore, quello sempre romano dell'Auditor Camerae, il tribunale legatizio di Ferrara e quello di Bologna (o tribunale del Torrone), il fiscalato generale della Reverenda Camera Apostolica. [27] La rilevanza di questi incarichi è nota ai contemporanei: ad esempio, dell'auditorato del Torrone si parla come del «papato de criminalisti». [28] E, anche se la storiografia sulle istituzioni giudiziarie pontificie non le ha studiate in collegamento tra loro, né ha considerato gli effetti che proprio la circolazione degli individui produce su e tra di esse, l'esistenza di un 'cursus' o di una trafila era ben chiara all'epoca. All'inizio del Settecento, a proposito dell'ufficio di procuratore generale del Fisco, Francesco Maria Costantini specificava che, nello Stato della Chiesa, esso «sit primus criminalistarum gradus et soleat conferri iurisconsultis, qui antea munus iudicis vel locumtenentis criminalis exercuerit in civitatibus et locis conspicuis». E portava a esempio la carriera dell'allora fiscale Filippo Antonio Totti (1707-1709), anch'egli passato luogotenente criminale del governatore, uditore del Torrone (1697-1700) e luogotenente criminale dell'AC (1701-1707). [29]

L'organicità di questo sistema che raccorda i tribunali dello Stato (come d'altronde i governi) è assicurata proprio dall'intreccio di individui che trascorrono dall'una all'altra istituzione. Di questa itineranza, gli Avvisi sono al tempo stesso fonte d'informazione e attestazione eloquente come dimostra il ragguaglio inviato da Roma il 14 ottobre 1623: «È giunto qua da Bologna il signor Giulio Cartaro fiscale generale che ha preso possesso del suo officio et è stato fatto luogotenente criminale di mons.r Governatore il s.r Gio. Vincenzo Cobelli [Iacobelli] in luogo del s.r Iacomo Azio il quale si dice sia per andare luogotenente a Ferrara». [30] Inoltre, fonti qualitative come quelle fornite dall'Archivio Cartari mettono in luce i legami che la circolazione dei diversi membri di queste magistrature stabilisce tra loro. [31]

La carriera nelle magistrature criminali non si limita alle sedi che ho indicato. Prende avvio con incarichi di minor peso, preparatori a posizioni di crescente responsabilità, come le podesterie e i luogotenentati dei governi minori, la posizione subalterna di giudice 'sostituto' nei tribunali maggiori e perfino l'ingresso nel tribunale criminale del Senatore di Roma. Si arricchisce con l'esercizio di funzioni giusdicenti svolte presso i tribunali signorili, le magistrature particolari, le curie episcopali (nello Stato e al di fuori di esso), le altre sedi legatizie come quella di Ravenna, le nunziature. Uditorati e luogotenentati si possono combinare (specialmente durante il pontificato di Paolo V, mi sembra) con incarichi di governo in quei centri che sono riservati per statuto a togati oppure a togati e prelati (qual è il caso dei mandati a Norcia e a Faenza di Giulivo Cartari). [32] Infine Rote (come quelle di Genova e Lucca) e altre corti esterne ai confini pontifici reclutano anch'esse giusdicenti provenienti dallo Stato della Chiesa. [33] Lo stato laico dei giusdicenti preclude loro la possibilità di accedere alle posizioni di vertice spettanti ai soli ecclesiastici e di aspirare a una carriera effettivamente di vaglia in una realtà statuale come quella della Chiesa. Nell'ottobre 1617 il card. Agostino Galamini dichiarava a padre Gregorio (al secolo Ercole Cartari) che il fratello Giulivo, di cui aveva grandissima considerazione, «se fosse stato prete sarebbe inanzi assai». [34]

Una seconda considerazione riguarda la stabilità di questo schema di progressione di carriera. Lo abbiamo verificato per quanto riguarda la prima metà del Seicento, intanto sulla base della carriere Cartari e Febei; è reputato valido anche per il periodo seguente come suggerisce Costantini; è attestato almeno dal secondo cinquantennio del XVI secolo. Prima di introdurre la generazione più anziana dei Cartari, cioè Flaminio, vale la pena di richiamare la carriera di un contemporaneo, Orazio Benedetti, destinato a diventare senatore di Roma come lo sarebbe poi stato Giulivo Cartari.

Appartenente a una coorte di fratelli che contava un prelato (Benedetto, attivo nella Curia romana e vicelegato di Romagna), un laico destinato a perpetuare il lignaggio (Federico, che prestò servizio per i duchi di Urbino e altri signori «nel reggimento di podestarie e luogotenentati in più e diverse città») e un militare (Bernardino), Orazio Benedetti nacque a Cagli intorno al 1530. Si addottorò in utroque iure a Perugia nel 1556; fu incaricato della podesteria di Città di Castello e del governo di Amatrice; nel 1565 divenne procuratore fiscale della Curia generale della provincia di Marca. Fu quindi luogotenente criminale del governatore di Roma (1568), luogotenente criminale della provincia di Romagna sotto il cardinal legato Alessandro Sforza (dal 1570), luogotenente generale del governatore di Fermo Giacomo Boncompagni (1574-77), quindi di nuovo luogotenente criminale della provincia di Romagna sotto il legato del Monte; nel 1578 fu governatore di Orvieto; nel 1579 auditore del Torrone di Bologna e nel biennio seguente luogotenente generale criminale di tutto lo Stato pontificio eccettuata Bologna sotto il legato Sforza che era anche governatore della Marca. Nel 1582-83 fu viceduca e governatore negli stati di Sora e Arpino per il duca Boncompagni e nel 1584 senatore di Roma. Benedetti morì nell'ottobre 1585 in patria, dove si era ritirato quando Sisto V, asceso al pontificato, lo aveva sostituito. [35]

Come si vede da questo pur arido elenco di incarichi, tutti di durata piuttosto breve, le differenze tra Benedetti, da un lato, e Giulivo Cartari e Pietro Paolo Febei, dall'altro lato, non pregiudicano l'unitarietà del cursus honorum e semmai risentono delle protezioni che ognuno fu in grado di attivare. Ma torniamo ai Cartari, e alla generazione più vecchia, il cui esponente di maggior reputazione fu Flaminio (1531-1593). Dopo gli studi di diritto a Perugia tra 1551 e 1557 e il matrimonio nel 1558, Flaminio fu podestà a Spello (1560). Nel 1562 divenne sottouditore del Torrone, chiamato dal congiunto Trivulzio Gualtieri che era auditore [36], e l'anno dopo, quando questi divenne governatore di Ancona, lo seguì come uditore criminale. [37] Non mancarono incarichi di gonfaloniere in patria e ambasciatore a Firenze e presso Pio V (1566), e ancora a Roma come avvocato e «agente» di Orvieto (1568-1571). Nel 1570, comunque, secondo alcune testimonianze, sarebbe stato luogotenente sostituto criminale dell'Auditor Camerae; e nel 1574-75 fu di nuovo luogotenente criminale del governatore di Ascoli (prima Gualtieri, che morì nel 1574, e poi il suo successore). [38] Nel 1577 fu uditore del vescovo di Spoleto Ventura Maffetti. Nel Proemio dell'edizione a stampa degli statuti di Orvieto (Statutorum civitatis Urbisveteris, Roma 1581), si legge il nome di Flaminio tra i riformatori incaricati dal confaloniere Aurelio Avveduti e dai quattro conservatori della Pace di rivedere il testo normativo. Sulla scorta di due consigli dell'Ondedei, Carlo Cartari attribuisce all'avo il carico di luogotenente del card. legato di Perugia e Umbria Filippo Spinola (entro il 1585); sempre nel primo lustro degli anni Ottanta, fu uditore generale della provincia della Marca sotto il legato Marc'Antonio Colonna. Nel 1589 Flaminio fu eletto nella terna dei giudici della Rota civile esecutiva di Genova. [39] Al suo ritorno, nel 1591, fu indotto da Natale Rondinini, allora fiscale generale, ad assumere la carica di primo luogotenente criminale del governatore di Roma, che rivestì tra la fine del 1591 e il 1592. [40] Esercitò inoltre come giudice delle Appellazioni a Orvieto e nel 1593, l'anno della sua morte, presentò la propria candidatura alla Rota criminale genovese. [41]

Sulla scorta delle biografie dei Cartari e di Benedetti e Febei, possiamo concludere che il groviglio giurisdizionale e un'apparente autonomia delle diverse magistrature pontificie non escludono l'esistenza di percorsi riconoscibili e praticati. Lo studio di questi itinerari ne favorisce la leggibilità, ma soprattutto concorre a individuare il contesto di elaborazione del sapere giuridico, in modo particolare di quello penalistico prodotto nello Stato pontificio tra fine Cinquecento e prima metà del Seicento.

 

2. Comporre la carriera

Vorrei a questo punto ripercorrere le biografie dei Cartari esaminando il modo in cui concorrono ad articolare la loro carriera nelle istituzioni giudiziarie e nelle sedi di governo. Questo approfondimento permette di introdurre nella ricostruzione anche le opzioni che essi respinsero e illumina quindi sull'insieme di motivazioni e interessi individuali e familiari che informano lo svolgimento del cursus honorum. Gli studi sugli «ufficiali», a cominciare da quello di Renata Ago, e un'importante stagione di indagini sulle corti europee ci hanno familiarizzato con i meccanismi sottesi alle carriere prelatizie nella Curia romana. [42] Anche nel caso dei laici, la famiglia e le relazioni di patronage si dimostrano decisivi per il successo.

Assistiamo, infatti, al coinvolgimento di tutta la parentela nell'itinerario professionale e nelle attività del singolo magistrato. Basta solo considerare il ruolo che i familiari già inseriti nell'apparato pubblico e, in particolare, nel circuito delle cariche 'criminali' svolgono nel reclutamento dei giovani. Sia Flaminio Cartari sia Pietro Paolo Febei devono il primo incarico importante alla diretta chiamata di uno zio. Nel gennaio 1562 Trivulzio Gualtieri, allora uditore del Torrone, informava Flaminio: «alli 7 di questo per via di Roma ve scrissi che essendosi licentiato da me il mio sostituto havivo pensato di dar questo luoco a voi et vi pregavo quando vi tornasse comodo di venire a questo servitio di mettervi subito in cammino. Hora vi replico il medesimo esortandovi di nuovo a non lassar passare così bella occasione et d'uno offitio tanto honorato et utile et però montate subito subito [sic] a cavallo et venite ch'io vi aspetto» [43]. Nel caso di Pietro Paolo Febei, poi, la collaborazione con Giulivo Cartari fu ricorrente ed egli stesso la replicò con il proprio figlio Giovan Paolo, chiamato a Bagnoregio come vicario vescovile. Ma, prima di coinvolgere il nipote, Cartari aveva pensato di avvalersi di uno dei suoi fratelli, il minore Rutilio. Nella eventualità che Luca Alamanni, in procinto di diventare governatore di Ascoli, volesse due ufficiali invece di un solo luogotenente, Giulivo ipotizzava di farsi accompagnare da Rutilio, laureatosi a Perugia solo l'anno prima, «che per questa strada si cominciarebbe a scozzonare». [44]

Introdurre i fratelli Cartari permette d'altronde di apprezzare la collaborazione familiare e il sostegno alla carriera dei diversi membri di un lignaggio, entrambi resi possibili proprio dall'uniformità dell'indirizzo formativo voluto dal padre Flaminio.

L'educazione giuridica ricevuta da Giulivo era stata impartita anche ai fratelli minori. Muzio (1562-1594), che si era addottorato insieme con il primogenito nel 1582, era forse il più dotato dei figli di Flaminio, al quale fu vicino probabilmente sia a Genova sia a Roma. Tuttavia, nella sua breve vita, poté vantare solo la carica di podestà di Spoleto (1588-89) e l'esercizio dell'avvocatura nella città eterna. Anche il terzogenito, Papirio (1565-1604), si addottorò a Perugia nel 1590; fu agente della comunità di Orvieto a Roma nel 1592; per due semestri, dal 1593 al 1594, fu podestà di Tolentino; in patria fu estratto gonfaloniere nel 1598 e l'anno seguente esercitava come avvocato e consultore della città; ottenne, infine, dal 1º maggio 1601 sino alla morte nel 1604, la carica ambita di uditore di Rota a Perugia. [45]

Questa compattezza di formazione e competenze fu interrotta col quartogenito maschio, Ercole (1567-1651), il quale si oppose recisamente a intraprendere gli studi legali. Sulla base dei racconti familiari ricevuti dal padre Giulivo, Carlo Cartari riporta che «Flaminio diceva ad Hercole che sarebbe stato il servitore dei gl'altri suoi quattro fratelli, che tutti erano dottori, pensando così di stimolarlo allo studio. Hebbe [invece Ercole] grandissima applicatione alla pittura e perché ci si scorgeva buona maniera, si lasciò proseguire quanto comportava il suo stato e fu suo maestro il Zuccaro, pittore assai celebre. Da molte sue opere, tanto di disegno quanto di pittura fatte in quei principij, si conosce che haverebbe fatto gran progresso, se havesse proseguito». Ercole, tuttavia, entrò nell'eremo di Camaldoli prendendo l'abito di eremita di S. Romualdo e assumendo il nome di Gregorio. [46] La vita religiosa fu abbracciata anche dal giovane Rutilio, il quale nel 1594 abbandonò segretamente la dimora romana del monsignore bolognese Ratta, dove viveva con Muzio, per entrare tra i Cappuccini, sebbene morisse solo un mese dopo avere vestito l'abito. [47]

Anche Giulivo aveva dovuto far valere con il padre Flaminio la propria decisione di lasciare la strada dell'avvocatura per quella nelle magistrature. In una lettera del 1588, ancora lontano dal primo incarico ufficiale che sarebbe arrivato solo qualche anno dopo, infatti, scriveva al genitore: «Quanto al fatto mio, ho pensato benissimo et tutta via mi confermo nel opinione che se il cardinale si contentarà d'accettarmi per auditore di non lassare passare quest'occasione perché se bene entro in Corte non pensate ch'io sia per lassare di non attendere a studiare per confidarmi solo nella sorte, anzi disegno di studiare assai più perché ne haverò più commodità che non ho adesso, et farò tale studio che mi habbia da servire all'avocatione in evento che per spatio di qualche anno la Corte riuscisse fallace, che se bene io non entrassi in Corte et havessi la mira d'attendere all'avocatione, questo non si potrebbe fare se non per spatio di cinque o sei anni, nel qual tempo non haverei commodità di studiare come haverei in Corte, poiché questo esercitio del procurare ricerca continuo moto. Vedete pure di trovare occasione di adempire questo mio desiderio, che spero non habbia da apportare se non honore et utile». [48]

Mazzacane ha interpretato la lettera come «un documento significativo del mutamento profondo negli orizzonti di un giurista della fine del Cinquecento, che s'inseriva nelle prospettive nuove e concrete apertesi per il suo ceto lungo la strada degli uffici e delle clientele». [49] Tuttavia a me pare evidente che il dialogo tra il pur ventinovenne Giulivo e Flaminio, sebbene differente da quello che sarà forse intercorso tra questi ed Ercole, non possa essere considerato una interlocuzione tra pari, ma rinvii piuttosto alle forme storicamente date della comunicazione tra generazioni, in particolare intorno al modo in cui genitori e figli (o tutori e pupilli) concordano il futuro dei più giovani. [50]

Come abbiamo visto, esercitarsi 'sul campo' era la sola via attraverso cui acquisire quelle competenze professionali che la formazione accademica non assicurava, sicché appariva giustificato che i giovani dottori si prestassero, sia pure temporaneamente, a svolgere un incarico privo di un adeguato tornaconto economico. Nel settembre 1611, ad esempio, l'orvietano Domenico Coelli commentava con Giulivo la partenza del congiunto Giacomo Coelli per Bologna al seguito del nuovo vicelegato Lorenzo Magalotti, di cui il giovane era già uditore: «mi persuado che, presente legato [Maffeo Barberini], il vicelegato mastichi poche cause et in conseguenza chi lo serve per auditore tagli fette molto magre, in modo che se non ci si agiongesse la speranza ch'io tengo che VS resti [come uditore del Torrone], et con l'aiuto suo Iacomo possi far qual cosa, malamente con questo puro trattenimento lo lasciarei venire; io non penso che lui sia per far peculio, desidero solo che praticando impari qual cosa et non rimetta sempre de quello di casa, che pure mi pareria tempo hormai». [51]

Volàno nell'intraprendere la carriera pubblica e sostegno imprescindibile, la famiglia pone anche a questi giusdicenti l'obbligo di osservare la logica del lignaggio e di saperne interpretare gli interessi. E proprio per assicurare la continuità della casata, sovvenire i membri più deboli e curare il patrimonio, Giulivo Cartari impresse alla propria carriera una torsione decisiva. Come indica una testimonianza diretta di Federico Borromeo [52], egli lasciò l'incarico di vicario criminale dell'arcivescovo di Milano per ragioni di ordine domestico, e, sempre per lo stesso motivo, rinunciò ad assumere la medesima posizione presso l'arcivescovo di Bologna, Alfonso Paleotti, propostagli nel 1603. [53] Fin da allora, infatti, le condizioni di salute dell'unico fratello ancora in vita e coniugato, Papirio, destavano preoccupazione e avevano persuaso l'uomo a testare affidando i propri figli, un maschio e una femmina di pochi anni, allo zio paterno Vincenzo e a Giulivo. Quando Papirio morì, nell'agosto 1604, le responsabilità della tutela e la fragilità della successione avevano già indotto Giulivo a mutare stato, pattuendo il matrimonio con Lavinia Beccoli (concluso nel 1606), preludio alla nascita dei suoi cinque figli. [54] In tal modo egli, che, una volta seguito il matrimonio del fratello Papirio, nel 1600 si era procurato «per privilegio il riconoscimento dello stato di chierico», rinunciando al celibato si pregiudicò probabilmente più alti onori, quelli riservati agli ecclesiastici. [55]

La famiglia e la parentela concorrevano in modo significativo, almeno nel caso dei Cartari, anche a rendere compatibile la distanza del luogo di esercizio della carica con la necessità da un lato di assolvere alle esigenze domestiche, dall'altro di alimentare la rete delle protezioni nella Curia romana. La corrispondenza conservata nell'Archivio familiare restituisce in tutta la sua complessità e delicatezza il lavorìo che, mentre Giulivo era distante (a Milano, Bologna, Norcia e Faenza), compivano per suo conto il fattore Sante Terenzi in patria e in Curia Domenico e Giacomo Coelli. [56]

Essere presente ai «padroni» - alla mente se non alla persona - era condizione necessaria per ottenere incarichi che erano di nomina pontificia e che quindi, anche a questo livello, richiedevano di alimentare tutti i meccanismi atti a vincere la competizione tra i candidati. La lezione è ben riassunta da Carlo Cartari, allorché annota: «ho per traditione che il papa [Gregorio XV] dicesse a mio padre che se si fosse lasciato veder prima, l'haverebbe fatto fiscale di Roma»: l'indugiare di Giulivo in patria e il ritardato omaggio al papa Ludovisi avevano indotto il pontefice ad assegnare il fiscalato generale a un altro giusdicente. [57]

Gli incarichi giudiziari duravano ad beneplacitum del papa, ma risentivano della permanenza in carica di governatori e legati [58], i quali si procuravano luogotenenti e uditori di proprio gusto e fiducia. Si pensi ad esempio alla collaborazione tra Francesco Visconti e Pietro Paolo Febei. Alla proposta di valersi di un altro soggetto per uditore, il prelato avrebbe risposto «che, havendo esperimentato di quanto valore, integrità e prudenza fosse il Febei, nipote et allievo del Cartari, e conoscendo di quanto pregiudizio gli sarebbe il privarsi della sua persona, era resoluto di non voler altro che lui fintanto che egli si compiacesse di seguitarlo». [59]

Un circuito di «voci» accompagna le nomine: prospetta la 'mutazione', preannuncia candidati e prescelti, divulga la decisione sovrana. A volte suscita aspettative e dà luogo a clamorosi abbagli. Nel 1610, allorché Giulivo Cartari è a Bologna come uditore del Torrone, il suo fattore lo informa che «da quindici o sedici gentiluomeni li di passati in Orvieto mi fu fatta la allegressa del fiscalato di Roma, Io le risposi che non sapevo tal cosa et che mi dispiace le bugie, Questa sera sie rallegrato con me il signor Pietro Albano per simil conto et mia detto che se io scrivevo a VS le facesse un baciamano in nome suo». [60] Già in primavera notizie relative a Prospero Farinacci, il detentore della carica, avevano fatto supporre la possibilità di una sostituzione al vertice dell'apparato giudiziario. Ma egli stesso aveva pensato bene di smentire questa eventualità, come raccontava a Giulivo il fidato Domenico Coelli: «L'aviso de VS circa l'indispositione del sr Farinaccio non ha fondamento de verita et si vergognaria il nostro sr fiscale de far vacanza per obitum così presto, così ha detto lui medesimo questa matina dopo consulta nell'anticamera dell'ill.mo padrone». Coelli, tuttavia, proseguiva rassicurando Cartari della sua efficienza: «quando poi il Signore lo volesse [Farinacci] orbato perpetuo utroque oculo, se assicuri VS che senza suo aviso haverei per me stesso operato di far nominare a SB la persona di VS dallo ill.mo Barberino che già mi ricordo de un discorso in materia tenuto con sua signoria ill.ma, però si quieti per adesso et peli un poco meglio costesti Bolognesi se vuole haver concetto di buono per se et Camera come si ricerca al fiscale». [61]

La lettera dimostra l'attenzione posta da Giulivo al prestigioso incarico di fiscale generale fin da questa data, complice anche la turbolenta carriera del titolare, Farinacci appunto, che in effetti all'inizio del 1611 fu sostituito da Pier Marino Cirocchi.

Dato il sistema di reclutamento e avanzamento nelle magistrature criminali, il rapporto clientelare con prelati eminenti e cardinali risulta decisivo per la promozione personale. Per Giulivo Cartari, la relazione con Maffeo Barberini fu determinante ad assicurargli una carriera eccellente. Era stato Flaminio, vantando una stretta confidenza con il protonotario Francesco Barberini, zio di Maffeo, a introdurre il figlio presso il prelato. Il secondo incarico di Giulivo, alla fine del 1592, è proprio come luogotenente del governatore di Fano, il neonominato Barberini. [62] Anche il posto successivo si deve ai buoni uffici del prelato, il quale, nel 1593, raccomanda Cartari al nuovo governatore di Ascoli, Luca Alamanni. [63] La protezione di Barberini fu attiva ancora, durante l'uditorato bolognese di Giulivo, con lo scopo di assicurare la permanenza nell'incarico, passibile di revoca sia in caso di mutazione del legato sia nell'eventualità di una conferma del titolare. [64] E, quando il cardinale subentrò a Giustiniani come legato (agosto 1611-14), si adoperò per ottenere dal papa che Cartari conservasse la sua posizione nel tribunale del Torrone, nonostante l'avvicendarsi dei due prelati e le pressioni del cardinal nipote (allora titolare dell'arcivescovato) per imporre un proprio candidato. [65] La protezione di Barberini si conservò inalterata negli anni successivi. Non appare privo di significato che, nel 1615, a Cartari venisse affidato il governo di Norcia, il quale ricadeva sotto la giurisdizione del vescovo di Spoleto, che allora era proprio Barberini. [66] E fu grazie ai consigli del prelato che egli si risolse ad accettare il secondo mandato presso il Torrone di Bologna che Gregorio XV (già arcivescovo di Bologna tra 1612 e 1620) volle affidargli nel 1623. [67] Ed è, infine, sotto il pontificato di Urbano VIII che Giulivo raggiunge i massimi onori della sua carriera.

Di questa e di altre protezioni pure di peso - del cardinale Federico Borromeo, attivo nel promuovere Cartari come uditore del legato Giustiniani, dello stesso Giustiniani e di altri personaggi di grande influenza anche se minore visibilità - restano tracce documentarie importanti. [68] Queste tracce indicano, peraltro, come intermediari preziosi e in alcuni casi decisivi per le sorti di Giulivo siano stati quei familiari residenti a Roma che erano in grado di intrattenere quotidiani rapporti con i 'padroni' anche mediante ripetuti donativi di vino di Orvieto, mortadelle di Bologna e altri prodotti alimentari, riforniti obtorto collo dal fattore Terenzi.

A comporre la carriera, dei Cartari così come di altri giusdicenti, intervengono anche considerazioni intorno all'entità del guadagno ricavabile dall'esercizio di una determinata carica e in una sede specifica, valutazioni circa l'opportunità di allontanarsi dalla casa e dal centro degli interessi familiari, riflessioni in ordine alla rete di fedeltà e clientele che la distanza fisica potrebbe mettere a repentaglio. Questi motivi sono esposti in lettere e memoriali destinati a 'padroni' e a protettori, entrano nei circuiti della raccomandazione dove vengono spesi argomenti tanto per perorare il conseguimento di un posto, quanto per sottrarsi all'incarico che si è in predicato di ottenere o si è effettivamente ottenuto.

Anche soggetti interessati in modo collaterale alle vicende personali dei magistrati erano consapevoli dei calcoli di opportunità che dovevano guidare la scelta di una nuova collocazione. Il fattore di Giulivo Cartari, ad esempio, verso la fine del triennio della legazione di Benedetto Giustiniani rifletteva sulla possibilità che il suo 'padrone' non torni in patria e gli suggerì: «o cerchi d'aver qualche governo più vecino alla patria overo ritirarsi per che l'onor di VS ce sara massime poi che l'utile de quotesto paese credo sia molto scarso […]», «più conto le torneria guadagnare sc. 500 l'anno e star vicino a casa che guadagnarne mille e star tanto lontano». [69] Giulivo, dal canto suo, rifiutò sia la carica di uditore criminale dell'arcivescovo di Bologna, propostagli nel 1603, sia quella di uditore della Rota criminale genovese, nella cui terna era stato sorteggiato nel 1616, in questo caso perché «trovandosi … al servitio del pontefice, suo prencipe naturale, non volse andare a Genova». [70]

Pietro Paolo Febei, d'altra parte, fu ancora più difficile. Nel febbraio 1611 Domenico Coelli, che si prodigava nella delicata opera di procurare raccomandazioni e appoggi, non mancava di avanzare lamentele con Giulivo circa il comportamento del nipote: «Che il sr P.P. non mostri curarsi molto d'offitij per quanto raccolsi dal suo modo di scrivere, quanto a me non ha dato punto di fastidio non desiderando altro che il comodo suo, confesso bene che mi parve non so che dove erano intervenute lettere di cardinali in sua raccondazione et se concorreva l'opera de VS, mi dicesse dopo hauta la gratia che lui non cercava offitij et non li domandava ma che per corrispondere a quello VS da se stesse haveva fatto etc.». [71] Un decennio più tardi Febei rifiutò di tornare a Norcia come uditore del governatore, una carica già esercitata per diversi anni alle dipendenze di Giulivo, che gli venne offerta da Pietro Carpegna allorché il congiunto divenne luogotenente criminale dell'AC. Qualche anno dopo declinò la proposta di entrare nel tribunale criminale del Governatore di Roma che gli era stata presentata sempre per i buoni uffici dello zio. Secondo Carlo Cartari, «si scusò il Febei con mons. Governatore e con il zio et anche con lettera scritta di mons. Monaldeschi all'istesso Cartari, di non accettare l'offitio cortesemente propostogli a cagione della sua sanità non perfetta né abile a resistere alle fatiche che incessantemente e di giorno e di notte erano necessarie per quella carica; era però la prima ragione perché esso non haveva genio a quel tribunale». [72]

Queste note intorno alla composizione delle carriere mostrano il campo di forze e di interessi all'interno del quale i soggetti operano e suggeriscono al tempo stesso l'agenda delle questioni che lo studio sui giusdicenti deve esplorare.

 

3. La produzione dottrinale e la celebrazione della memoria familiare

All'impegno nelle magistrature e negli uffici pubblici i Cartari accompagnarono la redazione di alcune opere giuridiche. A dire il vero, solo Flaminio sviluppò lungo l'arco della sua esistenza un'attività scientifica sistematica, compiuta fino alle stampe. Spetta, infatti, a Carlo Cartari, il figlio di Giulivo, la responsabilità maggiore nell'aver assicurato ai suoi familiari il profilo autoriale e l'ascrizione tra i 'giuristi', diversamente da quanto invece era e sarebbe capitato ad altri soggetti, giusdicenti della medesima caratura istituzionale e professionale, privi di familiari e discepoli in grado di perpetuarne la memoria. Proprio in ragione di ciò, mi soffermerò in questa sede esclusivamente su tale aspetto, destinando allo studio ancora in corso l'analisi storico-giuridica delle opere, edite e inedite. [73]

Carlo Cartari impostò un'ambiziosa impresa di promozione dei propri congiunti attraverso l'edizione di alcune loro opere, il progetto di pubblicarne altre, la pubblicità dei lavori rimasti manoscritti, il repertorio delle citazioni e la ricostruzione circostanziata e sapientemente documentata della genealogia familiare, culminante in una Vita del padre. [74] Questa impresa, di cui l'Archivio familiare conserva i diversi livelli, si sviluppa per almeno venticinque anni a partire dalla fine del quarto decennio del Seicento. L'edizione delle opere, in particolare, si concentra tra 1638 e 1648, gli anni a cavallo dell'ascrizione di Carlo tra gli avvocati concistoriali.

Nel manoscritto delle Notizie, Cartari dà conto della produzione giuridica di Flaminio, Giulivo, Muzio e di altri membri della famiglia, con informazioni che sono riversate in forma più asciutta nel suo Advocatorum Sacri Consistorii Syllabus. [75] Ma già un decennio prima, il Cartharium sertum, un opuscolo encomiastico dedicato a Carlo da Giovan Battista Vannarelli, aveva reso nota l'intera produzione giuridica dei Cartari, pubblicando esattamente i medesimi titoli reperiti dal dedicatario tra le carte di famiglia e in alcuni casi ancora oggi conservati lì. [76]

Flaminio Cartari, come è noto, è l'autore più rinomato. Le opere edite in vita sono il Tractatus de executione sententiae contumacialis capto bannito (Venezia 1587) e il Theoricae, et praxis interrogandorum reorum (Venezia 1590; con edizioni e ristampe postume: Roma 1594; Venezia 1596 e 1639). Il figlio Papirio curò le Decisiones Rotae causarum executivarum Reipublicae Genuensis (Venezia 1603; poi 1609 e 1626), cui si deve la fama dell'autore. Rimase invece inedita la Methodus processus informativi, un'opera di vasta mole, cui Flaminio lavorò assiduamente con l'aiuto di Muzio negli ultimi anni di vita, ma di cui è sopravvissuto solo un frammento. [77]

Nell'elenco delle opere dell'avo, Carlo Cartari include testi che, sebbene disponibili solo manoscritti, non per questo sembrano da reputare privi di 'esistenza' e di potenziale fruibilità: De defensionibus reorum; De socio criminis; De ratione iudicandi causas criminales; Collectanea communium opinionum criminalium; 480 Consilia civilia; 250 Consilia criminalia; Collectanea in materia statutorum. Oggetto solo di menzione, invece, è un 'Tractatus de securitate sive cautione de non offendendo', di cui Carlo dichiara: «io non ho questo trattato ma esso [Flaminio] l'allega nel suo trattato de defensionibus reorum». Infine ulteriori materiali manoscritti, frutto di studi e riflessioni dottrinali così come dell'attività giusdicente, sarebbero i Commentaria in aliquas partes iuris pontificis ac caesarei; Annotationes ad lecturas, consilia, decisiones et tractatus diversorum authorum; Resolutiones aliquot causarum civilium provinciae Marchiae Anconitanae; Decisiones seu diffinitiones nonnullae causarum tam civilium quam criminalium civitatis Spoleti; Decisiones causarum criminalium Provinciae Marchiae; Resolutiones ad interrogationem cardinalis Spinulae Perusiae Umbriaeque legati. [78] In aggiunta, a rimarcare l'alto profilo di giurista di Flaminio e il successo tra gli autori di «criminalistica», Cartari includeva nella 'genealogia di famiglia' il repertorio degli autori, le opere e i luoghi in cui l'avo era citato e gli elogi più significati a lui rivolti, a cominciare dalle parole di apprezzamento indirizzate da Prospero Farinacci. [79] L'elenco delle menzioni, che non manca di ridondanza, include, oltre ai figli Giulivo e Muzio, Antonio Merenda, Eliseo Danza, Mario Antonini, Stefano Graziani, Vincenzo Caroccio, Giovanni Luigi Ricci, Gaspare Antonio Tesauro, Jeronimo Fernández de Otero, Mario Giurba, Marcello Megalio, Marta, Giovanni Vincenzo Ondedei, Cesare Locatelli, Pietro Caballo, Mauro Burgio, G.M. Vermiglioli, Almonte Ciazzi, Angelo Scialoia, Sebastiano Guazzini, G. Domenico Gaito, G.B. Scanaroli, G.B. Marchesani, Orazio Barbato, Pirro Mauro, Alessandro Ambrosini, Sforza Oddi, Lanfranco Zacchia, G.B. Fenzoni e Leandro Galganetti, Sigismondo Scaccia, Francesco Bernardino Porro, Carlo Emanuele Vizzani, Grazioso Uberti, Serafino Massini, Carlo Pellegrino, Santoro da Melfi. [80]

Un'analoga, minuziosa rendicontazione dei testi giuridici è effettuata da Carlo Cartari per gli zii Muzio e Papirio. Muzio, già stretto collaboratore del padre nell'attività scientifica, non aveva pubblicato nulla in vita, anche a causa della morte prematura a soli 32 anni, e tuttavia era stato autore prolifico. Il nipote curò il Tractatus de legitima soluenda per patrem pro filio condemnato siue De poenis innocentum pro noxa nocentum (Roma 1643), quasi cinquant'anni dopo la morte dell'autore e, appunto, proprio all'indomani dell'aggregazione tra gli avvocati concistoriali. Altri manoscritti superstiti di Muzio erano il Aliud de Iure, aliud de consuetudine, su cui il nipote si esprimeva nei seguenti termini: «opera di due volumi, datagli da me l'ultima mano potrebbe stamparsi, ma vado cercando un libraro o stampatore che faccia la spesa» [81], e il De legitima solvenda per patrem vivente filio. Oltre al frutto dell'attività di consulente e patrocinatore, testimoniata dalle raccolte di Variae resolutiones, Communes conclusiones, consigli diversi, Carlo menzionava una 'Disputatio an princeps laicus possit usuras haebreis permittere' che egli non possedeva tra le carte di famiglia ma che Muzio aveva allegato nel trattato Aliud de iure, aliud de consuetudine. [82] Di Papirio, invece, il nipote dichiara di possedere alcune Orationes, scritte per diverse occasioni, e «un gran numero di consegli civili e criminali». [83]

Sulla memoria del padre Giulivo, invece, Cartari investì di più, curando le novantasei Decisiones criminales fori archiepiscopalis Mediolanensis (Roma 1638, con dedica di Carlo a Urbano VIII, e 1676) e la Disputatio de foro competenti adversus iudices, administros, aliasque personas ecclesiasticas, laicam iurisdictionem perturbantes (Roma 1648). Lasciò allo stato di inedito i Responsa, cioè la raccolta di diversi consigli che pure non mancava di segnalare. [84] Non sono riferibili a Giulivo, bensì a Pietro Paolo Febei, le due raccolte di Resolutiones criminales Curiae Ferrariensis e Resolutiones criminales Curiae Turroni Bononiae, datate tra 1627 e 1628. [85] Questi, sappiamo da Carlo Cartari, che «erasi da molti anni applicato a comporre un'opera legale pur troppo vasta, che (come esso diceva) richiedeva la sua età fino all'anno centesimo, intitolata Methodus Theorica et Praxis civilis, ma interrotta dalla morte è rimasta imperfetta. Un'altra con titolo simile ne haveva ordita per le materie criminali: molti suoi consulti civili e criminali si conservano manoscritti appresso gli heredi come anche molti sermoni da esso composti». [86] Eppure né Carlo, né tantomeno uno dei figli di Pietro Paolo ritennero opportuno o furono in grado di dare alle stampe questi materiali.

La tematica giurisdizionale lega le due opere di Giulivo Cartari, lungo il filo dell'esperienza di magistrato: le Decisiones, riferite al periodo milanese, e la Disputatio, che invece si desume dal manoscritto conservato nell'Archivio di famiglia essere stata redatta negli anni in cui l'autore era prefetto di Norcia, cioè nel secondo quinquennio degli anni Dieci. [87] Come vicario criminale dell'arcivescovo di Milano, Cartari si era ritrovato coinvolto nelle controversie tra foro ecclesiastico e foro laico che innescatesi fin dagli anni Sessanta del Cinquecento, opposero anche Federico Borromeo alle autorità civili. Se in tali vicende protagonista ben noto fu Giacomo Menochio, la posizione di Cartari nella terna dei vicari arciepiscopali non era senza rilevanza. Ed egli in effetti fu direttamente interessato da uno degli episodi minori, «di disturbo» che costellarono le difficili relazioni e ne alimentarono l'asprezza. Nel 1599 a seguito delle iniziative assunte dal vicario del Capitano di Giustizia, Truso Trusi, nei confronti di un parroco, oggetto di una denuncia di nuova opera, Cartari ricorse allo strumento della scomunica per ingiungere la revoca del provvedimento del magistrato. Per ritorsione il palazzo arcivescovile fu occupato da soldati armati e mascherati, mentre Cartari, minacciato di morte, si era rifugiato in una stanza dello stabile. I rischi corsi in questa circostanza, cui fece seguito anche il bando da Milano per lui e per alcuni sottoposti, entrarono a pieno titolo tra i meriti acquisiti da Cartari e in diverse circostanze furono spesi da Borromeo per perorare protezione e favori verso l'antico vicario. [88] E alcuni anni più tardi, Cartari fu chiamato a Roma tra i rappresentanti dell'arcivescovo per elaborare la Concordia giurisdizionale tra il foro ecclesiastico e il foro secolare, insieme con i rappresentanti delle autorità laiche milanesi e con l'assistenza di cinque cardinali. Come ho detto, egli era restio ad accettare l'incarico e si risolse solo dopo ripetute lettere di Borromeo e di suoi intermediari. [89] Si trattava, secondo quanto faceva sapere a Giulivo il senatore Papirio Cattaneo, attraverso l'agente a Roma di Borromeo, di un impegno circoscritto e per questo di breve durata: «questi negotij giurisditionali se possono finire in una settimana, perché se bene li capi sono molti, con tutto ciò se restrigneranno in 4 o 5 capi che saranno quelli nelli quali non se fu restato d'accordo a tempo di Clemente 8, nel qual tempo già fu stesa la concordia et in quelli capi nelli quali fu restato d'accordo non se ne farà altra reflessione, ma solamente in quelli nelli quali ce restò qualche difficultà nelli quali il detto sr senatore dice haver già fatto le scritture et alla prima audienza le darà alla santità di NS». [90] La Concordia, composta di 15 articoli, fu sottoscritta da Borromeo e dal governatore don Pedro de Toledo Osorio, ma la validità era subordinata alla approvazione del re di Spagna e del papa che la rilasciarono nel 1617 e la pubblicazione poté avvenire solo nel febbraio 1618. Nel frattempo però, come uditore del Torrone, Giulivo era stato interessato dalla competizione che il legato Maffeo Barberini aveva imbastito con l'arcivescovo Borghese per difendere l'esercizio della propria giurisdizione nei riguardi degli ecclesiastici bolognesi e per la possibilità di catturare i laici riparati nei luoghi pii. Si trattava di rivendicare le medesime facoltà riconosciute al predecessore Giustiniani, ma anche di ribadire spazi di autonomia necessari per il pieno esercizio delle funzioni di buongoverno spettanti al legato. All'indomani di queste esperienze, si situa quindi la stesura della Disputatio.

Una conclusione a queste pagine, parte di una ricerca avanzata ma non ancora conclusa, può essere solamente provvisoria. Riferire a un gruppo ampio e omogeneo di soggetti le questioni che le vicende dei Cartari aprono e altre, qui tralasciate ma suggerite dalle fonti, consentirà di ricostruire la fisionomia del magistrato 'criminalista' della prima età moderna, sfuggendo a quelle coloriture che una raffigurazione convenzionalmente 'barocca' della giustizia e dei suoi funzionari ha nel tempo suggerito.

 


Immagini

1. Giulivo Cartari senatore di Roma (Roma, BA, ms 1645, c. 170)
fig. 1

 


Note

[1] Sono emblematici i saggi raccolti in Grandi tribunali e rote nell'Italia di Antico regime, a cura di M. Sbriccoli e A. Bettoni, Milano 1993 (in particolare le considerazioni di E. Fasano Guarini, Per una prosopografia dei giudici di Rota. Linee di una ricerca in corso, pp. 389-420), oltre a A. Gardi, Tecnici del diritto e Stato moderno nel XVI-XVII secolo attraverso documenti della Rota di Bologna, in «Ricerche storiche», XIX (1989), pp. 553-584; R. Ago, Carriere e clientele nella Roma barocca, Roma-Bari 1990; di recente Offices et papauté (XIVe-XVIIe siècle). Charges, hommes, destins, a cura di A. Jamme e O. Poncet, Rome 2005; Offices, écrit et papauté (XIIIe-XVIIe siècle), a cura di A. Jamme e O. Poncet, Rome 2007.

[2] Da ultimo La giustizia dello Stato pontificio in età moderna (atti del convegno di studi, Roma, 9-10 aprile 2010), a cura di M.R. Di Simone, Roma 2011.

[3] Anche in questo caso, il riferimento è risalente: Storia sociale e dimensione giuridica: strumenti d'indagine e ipotesi di lavoro: atti dell'incontro di studio (Firenze, 26-27 aprile 1985), a cura di P. Grossi, Milano 1986.

[4] È impossibile qui affrontare il tema della 'biografia collettiva' dei giuristi, e tuttavia a sostegno della necessità di riattivare percorsi di ricerca abbandonati e riprendere le fila dell'analisi sulla scienza giuridica in età moderna, vorrei richiamare il recente Dizionario biografico dei giuristi italiani che ha mostrato le potenzialità di un impiego sapiente della biografia individuale per dare nuova linfa all'indagine e alla riflessione storico-giuridica: v. le considerazioni di I. Birocchi, Il Dizionario biografico dei giuristi italiani: una riflessione critica, in Lavorando al cantiere del "Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX sec.)", a cura di M.G. Di Renzo Villata, Milano 2014, pp. 3-26 e l'Introduzione dei curatori al Dizionario stesso (I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti, Presentazione. Per un diritto fatto da uomini, Bologna 2013, I, pp. VII-XXIII).

[5] Si veda a questo proposito l'impiego in alcuni dei più recenti manuali come I. Birocchi, Alla ricerca dell'ordine. Fonti e cultura giuridica nell'età moderna, Torino 2002; A. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa. Dal Medioevo all'età contemporanea, Bologna 2007; M. Caravale, Storia del diritto nell'Europa moderna e contemporanea, Roma-Bari 2012.

[6] D.J. Osler, Jurisprudence of the baroque. A census of seventeenth-century Italian legal imprints, Frankfurt/Main 2009, 3 voll., in particolare I, pp. XVII-XVIII dell'introduzione.

[7] Il riferimento è al proemio al Dottor volgare di G.B. De Luca, e ai due testi Dello stile legale (1674) e Difesa della lingua italiana (1675), su cui v. le riflessioni rispettivamente di A. Mazzacane (Introduzione. Giambattista De Luca avvocato e curiale) e P. Fiorelli (Introduzione), alle edizioni moderne delle due opere (Bologna 2010 e Firenze 1980).

[8] Per un primo quadro bibliografico v. O. Filippini, Memoria familiare e scritture d'archivio. Carlo Cartari nella Roma del Seicento, in «Mélanges de l'École Française de Rome, Italie et Méditerranée», 118 (2006), 1, pp. 141-161, e R. Mordenti, I libri di famiglia in Italia, II, Geografia e storia, Roma 2001, pp. 101-102; A. Mazzacane, Cartari, Flaminio, in Dizionario biografico degli Italiani, XX, Roma 1977, pp. 786-788 e Id., Cartari, Giulivo, ivi, pp. 792-793; A. Petrucci, Cartari, Carlo, ivi, pp. 783-786.

[9] Per esattezza, al momento il confronto è istituito con una cinquantina di magistrati tutti attivi - in un dato momento della loro carriera di «criminalista» - nel tribunale del Governatore di Roma durante la prima metà del Seicento, in 35 come luogotenenti criminali, in 12 come sostituti.

[10] Per un orientamento nella genealogia della famiglia: Generazione 1. Flaminio (1531-1593; sposa nel 1558 Virginia di Polidoro Polidori, nobile orvietana di famiglia originaria di Siena, già vedova di G. Paolo Febei dal quale aveva avuto Sebastiano e Cecilia); Vincenzo (1536 - testa l'8 dic. 1603). Generazione 2. Figli di Flaminio: Ortensia (1570-1608; nel 1588 sposa Sinibaldo de Sinibaldi, dal quale non ha figli); Giulivo (1559-1633); Muzio (1562-1594); Papirio (1565-1604); Ercole (1567-1651); Rutilio (1572-1594). Generazione 3. Figli di Giulivo e di Lavinia Beccoli: Maria (1610; nel 1624 sposa il nobile orvietano Aurelio Avveduti da cui ha 13 figli), Camilla (1612; nel 1632 sposa Orazio Vincentini, dottore e nobile in Rieti, da cui ha sei figli); Carlo (1614-1697), Giacinto (1618-1619); Ortensia (1620-1621). Figli di Papirio e di Faustina Guidoni: Flaminio (1601-1609), Virginia (1603-1624; nel 1621 sposa Gaspare Marabottini, dal quale ha Giovanna e Papirio, che muore a tre anni). Figli di Cecilia Febei (sposata con Francesco di Ludovico Febei): Domenico; Pietro Paolo (1586-1649).

[11] Roma, Biblioteca Angelica (BA), ms 1645, c. 182r (trascrizione del breve di nomina, datato 29 ag. 1595); Archivio di Stato di Roma (ASR), Cartari Febei, b. 2. Sul carattere complesso delle funzioni, dato dalla plasticità delle competenze plurime dei vicari dell'arcivescovo (il generale, il civile e il criminale), dalla collegialità dell'azione e dalla partecipazione alle congregazioni particolari che gestivano l'esercizio delle molteplici funzioni e competenze dei personale della curia, a cominciare da quella dell'Inquisizione, quelle (settimanali) riguardanti le cause civili e criminali e quella (mensile) della riforma del tribunale, v. D. Zardin, Tra continuità delle strutture e nuovi ideali di 'riforma': la riorganizzazione borromaica della curia arcivescovile, in Lombardia borromaica Lombardia spagnola (1554-1659), a cura di P. Pissavino e G. Signorotto, Roma 1995, II, pp. 695-764, in part. pp. 723-724 e Id., La curia arcivescovile al tempo del cardinal Federico, in «Studia borromaica», 17 (2003) Federico Borromeo vescovo, a cura di D. Zardin, pp. 31-56.

[12] Il breve di nomina di Paolo V, del 28 febbr. 1608, è trascritto in Roma, BA, ms 1645, cc. 183r-v: Cartari sostituiva il defunto auditore Pirro Ercolani, della cui morte dava notizia anche un Avviso dello stesso 9 febbraio: «scrivono di Bologna la morte del s.r Pirro Ercolano, auditore di quel Torrone, con gran disgusto del legato Giustiniano, poiché quel buon gentilhuomo per compiacere sua Signoria illustrissima non tirava a' denari et lassava correre le cose come piaceva al legato senza fare un minimo guadagno in quell'offitio che per ordinario è tenuto il papato de' criminalisti», Biblioteca Apostolica Vaticana (BAV), Barb. Lat. 6341, c. 25.

[13] Roma, BA, ms. 1645, c. 16.

[14] Ivi, cc. 185r-v e 188; ivi anche il breve di nomina del 20 dic. 1619.

[15] Ivi, cc. 130, 132 e 222 (gli anziani di Faenza a Giulivo Cartari, 28 febbr. 1621).

[16] Ivi, c. 17 (trascrizione del breve di nomina del 29 maggio 1623).

[17] Ivi, cc. 241v-242 (il legato Ubaldini a Giulivo, 16 sett. 1623): «La santità di N.S.re m'ha fatto intendere ultimamente di volersi servir di lei per fiscale di Roma; nuova, che se bene m'è dispiaciuta per la perdita ch'io fo in cotesto tribunale di soggetto di tanto valore et ch'io tanto stimavo, considerando nondimeno l'avanzamento et honore che a lei ne ridonda, ne prendo gran contento per amor suo e me ne rallegro seco tanto più quanto S.S. col gusto che ha di questa elettione, rende palesi al mondo maggiormente i suoi meriti»; v. anche ivi, c. 241v (Francesco Barberini a Giulivo, 13 sett. 1623).

[18] Ivi, c. 18. Alle cc. IVr-VIIv si trova il resoconto dell'Ordine che ha tenuto nel pigliare il possesso di Senatore in Roma l'ill.mo s.r Giulio Cartari che ebbe luogo il 18 febbraio (anche a stampa: M. Pagani, Ordine che ha tenuto l'ill.mo s.r Giulio Cartari nel prender possesso di Senatore di Roma, Roma 1629).

[19] ASR, Cartari Febei, b. 139, cc. 226r-230v e 252r-254v: Notitie circa la persona del s.r PP Febei, cavate dalle lettere del s. Domenico e del sr PP Febei dall'anno 1607 al 1624, c. 226v; copia anche ivi, b. 141, cc. 218r-264r.

[20] Sul matrimonio, v. ASR, Cartari Febei, b. 14; sui figli ivi, b. 139, alle cc. citate.

[21] Gli estremi si ricavano dalla raccolta di «Resolutiones criminales Curiae Ferrarensis» (16 apr.-25 nov. 1627) e «Resolutiones criminales Curiae Torroni Bononiae» (26 nov. 1627-2 maggio 1628), in ASR, Cartari Febei, b. 131.

[22] Anche BAV, Barb. Lat. 9686, cc. 21r e 22r.

[23] F. Mayer, The Roman Inquisition: A Papal Bureaucracy and Its Laws in the Age of Galileo, Philadelphia 2013, pp. 136-139.

[24] Per lo Stato pontificio, v. E. Irace, La nobiltà bifronte. Identità e coscienza aristocratica a Perugia tra XVI e XVII secolo, Milano 1995, con riferimento anche agli studi di Bandino Giacomo Zenobi; e in generale E. Brambilla, Giuristi, teologi e giustizia ecclesiastica dal '500 alla fine del '700, in Avvocati medici ingegneri. Alle origini delle professioni moderne (Atti del convegno, San Miniato di Pisa, 8-10 maggio 1995), a cura di M.L. Betri, A. Pastore, Bologna 1997, pp. l69-206.

[25] Vedi infra nota 9.

[26] La ricerca al momento non è così avanzata da indurmi a formulare conclusioni definitive: mi baso sul confronto tra i nominativi in mio possesso e quelli forniti per la Rota di Bologna, di Ferrara e di Macerata da A. Gardi (Tecnici del diritto cit.), C. Penuti (La Rota di Ferrara: funzioni e organico degli uditori fra Sei e Settecento, in Grandi tribunali cit., pp. 480-481) e A.M. Napolioni (I giudici della Rota di Macerata, 1589-1711, ivi, pp. 540-543).

[27] Su queste magistrature (solo in alcuni casi studiate in modo sistematico), v. G. Angelozzi, C. Casanova, La giustizia criminale in una città di antico regime: il tribunale del Torrone di Bologna, secc. XVI-XVII, Bologna 2008; A. Cicerchia, Giustizia di antico regime. Il Tribunale criminale dell'Auditor Camerae (secc. XVI-XVII), tesi di dottorato in «Storia politica e sociale dell'Europa moderna e contemporanea», XXII ciclo, Università di Roma 'Tor Vergata', 2009-2010; in generale, cfr. almeno I. Fosi, La giustizia del papa. Sudditi e tribunali nello Stato Pontificio in età moderna, Roma-Bari 2007 e La giustizia dello Stato pontificio cit.

[28] BAV, Barb. Lat. 6341, c. 25 (2 febbr. 1608).

[29] F.M. Costantini, De officio procuratoris fiscalis…, Romae 1745, p. 47.

[30] BAV, Barb. Lat. 6350, c.n.n. (14 ott. 1623).

[31] ASR, Cartari Febei, b. 12.

[32] Sui governi, v. S. Giordano, Note sui governatori dello Stato pontificio durante il pontificato di Paolo V (1605-1621), in Offices et papauté cit., pp. 885-905; C. Weber, Legati e governatori dello Stato Pontificio (1550-1809), Roma 1994.

 

[33] Per il coinvolgimento dei Cartari nella Rota di Genova, v. oltre.

[34] Roma, BA, ms 1645, c. 234v.

[35] Ivi, ms. 1644, cc. 173-175. Weber, Legati cit., p. 487, gli attribuisce i governi di Fermo (1576 e 1582), oltre a quello di Orvieto che data al 1578.

[36] ASR, Cartari Febei, b. 40, Liber natalium filiorum…, per la datazione.

[37] Roma, BA, ms 1645, cc. 9 e 160.

[38] Ivi, c. 275.

[39] La lettera inviata dal governo della Repubblica il 22 marzo 1589 è edita in Mazzacane, Cartari, Flaminio cit., p. 787.

[40] Roma, BA, ms 1645, c. 310 (Rondinini a Flaminio Cartari, Roma 15 ag. 1591): «Vacò molti giorni sono per la morte del sr Antonio Ghino il luogo di primo luogotenente di mons.r Governatore di Roma, et havendo io proposta VS fra li molti et molti che da altri venivano nominati per detto carico, et fatta quella bona relatione del molto valore et bontà sua che dovevo fare per verità et per la molta affettione che le porto, et anco per l'amplissima fede che me n'era stata fatta dal sr [Giovan Giacomo] Panico mio precessore, è piaciuto a Sua Beatitudine et all'ill.mo card.l Sfondrato mio signore di ordinar che di deputi VS per detto luogo di primo luogotenente…»; v. anche il resoconto di Carlo Cartari, ivi, cc. 11 e 160v; e ASR, Tribunale criminale del Governatore, Costituti, b. 425.

[41] M. Fortunati, I giudici della Rota genovese nel XVI secolo: schedatura e problemi di fonti, in Grandi tribunali cit. p. 525.

[42] A titolo esemplificativo, v. i volumi pubblicati nella collana "La corte dei papi" dell'editore Viella.

[43] Roma, BA, ms. 1645, cc. 9 e 274 (lettera di Gualtieri, Bologna 9 genn. 1562).

[44] ASR, Cartari Febei, b. 12, c.n.n., 13 giugno 1593.

[45] Ivi, c.n.n., 14 genn. 1601. Sul sistema delle agenzie, v. E. Irace, Una voce poco fa. Note sulle difficili pratiche della comunicazione tra il centro e le periferie dello Stato Ecclesiastico (Perugia, metà XVI-metà XVII secolo), in Offices, écrit et papauté cit., pp. 273-299; S. Tabacchi, Il Buon Governo. Le finanze locali nello Stato della Chiesa (secoli XVI-XVIII), Roma 2007.

[46] Roma, BA, ms 1645, cc. 26-27.

[47] ASR, Cartari Febei, b. 12, c.n.n., 28 ott. 1594.

[48] Ivi, c.n.n., 2 sett. 1588. Sull'attività legale di Giulivo, v. ivi, c.n.n., 8 luglio 1586: Aurelio Avveduti gli comunica di aver concordato a suo favore una provvigione mensile di 2 scudi e lo informa: «Ho conferito con il s. suo padre il quale a mostato molta satisfatione che lei abia presa questa causa et mi adetto che cie una costitutione della Marcha per la quale si vede che non è proibito alli particolari tener fortezze pur che non le tenghino serrate e in forma de fortezze».

[49] Mazzacane, Cartari, Giulivo cit., p. 792.

[50] Su questi temi, anche se con un focus sull'adolescenza e la prima giovinezza, v. R. Ago, Giovani nobili nell'età dell'assolutismo: autoritarismo paterno e libertà , in Storia dei giovani, a cura di G. Levi e J.-C. Schmitt, 1. Dall'antichità all'età moderna, Roma-Bari 2000, pp. 375-426 e S. Feci, «Educazione» e mantenimento di nobili orfani nella Roma del Seicento, in «Mélanges de l'École française de Rome. Italie et Méditerranée», 123 (2011), 2, pp. 381-394.

[51] ASR, Cartari Febei, b. 17, c. 88; v. anche c. 95: in effetti, in gennaio Domenico confermava a Giulivo, «il principio del suo auditorato [di Giacomo] quanto agl'emolumenti è debolissimo, non so poi se ne seguirà miglior fortuna; dove VS lo puo aiutare et perche studij, fatichi, buschi qual cosa lo faccia». Su Giacomo Coelli (1583-1655), v. E. Irace, Dai Ricordi ai Memoriali: libri di famiglia in Umbria tra medioevo ed età moderna, in Mordenti, I libri di famiglia in Italia cit., pp. 141-161: terzo figlio maschio di Giulio e Giuditta Cartari (figlia di Baldassarre e Beatrice Guidoni), Giacomo giunse a Roma nel 1605 per studiare presso il Collegio romano; si addottorò in filosofia e utroque iure nel 1609 e divenne anche sacerdote; dopo il soggiorno bolognese e la nomina cardinalizia di Magalotti, si stabilì a Roma tra 1612 e 1625, quindi tornò a Orvieto; presentato da Magalotti a Scipione Borghese, fu agente di Orvieto in Curia, agente generale delle comunità dello Stato ecclesiastico; agente di Cosimo Bardi vescovo di Carpentras, arrivando a guadagnare 800 scudi l'anno. Vedi anche Tabacchi, Il Buon governo cit., ad ind.

[52] Roma, BA, ms 1645, c. 309.

[53] Carlo Cartari acclude una lettera di G. Giacomo Boneto a Giulivo del 10 sett. 1603: «Mons.r [Antonio] Seneca ha scritto a VS dodeci giorni sono che'l sr arcivescovo di Bologna disegna di chiamarla al suo servitio per vicario generale et havendo s.s.ill.ma rechiesto informatione e parere ancora da esso monsignore, prima di rispondergli è stato aspettando la risolutione di VS, a cui inviò anco l'istessa lettera di mons.r arcivescovo perché la vedesse et considerasse bene, essortandola ad accettar il partito per molti rispetti», ivi, ms 1645, c. 131. Il motivo del rifiuto è indicato da Carlo in questi termini: «verum sui ipsius status immutationi proximus, assensum honorificae vocationi non praestit» (ivi, c. 183).

[54] Per la tutela dei figli di Papirio, registrata nel dicembre 1604, v. ASR, Cartari Febei, b. 10.

[55] Notizia del privilegio, in Mazzacane, Cartari, Giulivo cit., p. 792.

[56] ASR, Cartari Febei, b. 17.

[57] Roma, BA, ms 1645, c. 17.

[58] I governi erano in media biennali (almeno durante il pontificato di Paolo V) e le legazioni per statuto triennali; in ogni caso, l'avvicendarsi dei pontificati comportava un certo grado di rinnovamento dei detentori di uffici, v. Giordano, Note cit., in part. pp. 900-902.

[59] ASR, Cartari Febei, b. 139, c. 228v.

[60] Ivi, b. 14, c.n.n., 3 sett. 1610.

[61] Ivi, b. 17, c.n.n., 23 apr. 1610.

[62] Nell'aprile 1593 il governatore Barberini e il suo luogotenente Cartari e il cancelliere criminale Stefano Mainardi sono sottoposti a sindacato (ivi, b. 2).

[63] Ivi, b. 12, c.n.n., 13 giugno 1593, Giulivo a un fratello (verosimilmente Muzio): «Ho inteso quanto scrivete intorno a quanto procura per me mons. Barberini appresso al governatore che va ad Ascoli che è mons. Alemanni governatore di Jesi, et già ne ho hauto aviso da un servitore di mons. Barberini per ordine di SS.ria R.ma et quando succeda il governo in persona di detto mons.r Alemanni sarà anche facile che succeda a me il luogo di auditore col favore di mons.r Barberino essendo stato accompagnato dalla buona relatione che il signor Antonio <Borzi> ha fatto a detto mons.r Alemanni della persona mia, che per quanto egli mi ha scritto alli giorni passati mi propose a detto monsignore succedendo mutatione di governo però quando detto monsignore a quest'hora non sia provisto d'altro potrà facilmente succedere a questo luogo. Et poiché voi mi assicurate che che [sic] quest'occasione piace a mons. Ratta, io scrivo a mons.r Barberino che a me piace il partito proposto et supplico SS. R.ma a favorirmi».

[64] Ivi, b. 17, c.n.n., Domenico Coelli a Giulivo, 26 sett. 1609: «Della mutatione che tuttavia la mi mette in securo di cotesto Torrone io non so a chi tocchi di farla o in che luoco, se a NS et a Roma almeno dagli intimi di SB non si confessa, se la devono fare di certo, me ne rimetto etc. Oggi otto parlai a lungo con l'ill.mo Borghese et lo supplicai che per mostrar segno al s. cardinal legato che VS è offitiale grato a NS et a s.s. ill.ma m'havesse honorato di una lettera testimoniale a s.s. ill.ma ancorche senza questa mostri il sr cardinal legato d'amarla, me la promise con grande prontezza, anzi ordinò a me medesimo che in suo nome dicessi all'ill.mo Lanfranco che scrivesse con ogni affetto…»; 9 giugno 1610: racconta di un colloquio avuto con Borghese, nel corso del quale ha avuto conferma che i timori di Giulivo di una mutazione del Torrone sono infondati e non c'è intenzione di sostituirlo.

[65] Tra le memorie orali sul padre che Carlo Cartari raccoglie, vi è quella del vescovo di Urbania Onorato Onorati, il quale nel 1662 lo informava di quanto Urbano VIII gli aveva riferito intorno a Giulivo e alla loro 'amicitia' e «che il detto papa, allhora cardinale, si era interposto con Borghese, per fargli havere il detto offitio, al quale concorreva anche il Seneca», Roma, BA, ms 1645, c. 77.

[66] ASR, Cartari Febei, b. 15, c.n.n., il card. Barberini a Domenico Coelli, 27 ott. 1615: «Il signor Giolivo m'ha scritto del carico havuto nuovamente della prefettura di Norcia, et n'ho sentito piacere per l'affettione che gli porto e per il merito di lui, il quale perche desidera valersi del Febei suo nipote per luogotenente secondo che a VS ha significato, et fattone instanza all'ill.mo s.r cardinale Borghese, mi giova di credere che sarà stato compiaciuto. Con tutto ciò quando fosse necessario che VS ne parlasse in nome mio a s.s.ria ill.ma potrà farlo in caso di bisogno».

[67] Secondo Carlo Cartari, «stando esso [Giolivo] perplesso d'accettar la carica per lo scommodo del viaggio con li famigliari e a cagione della propria età già grave, il cardinale Barberini lo persuase efficacemente ad accettarla con soggiungergli 'pregate Iddio che succeda un papa vostro amico (essendo Gregorio cadente) che subito vi faremo tornare a Roma' e così per appunto avvenne perché non si trattenne Giolivo sei mesi in Bologna che passò all'altra vita il pontefice il cardinale Barberini fu assunto in Urbano ottavo e il Cartari fu subito chiamato a Roma fiscale generale con particolar compiacenza di quel pontefice», ivi, b. 139, c. 229r.

[68] Per quanto riguarda Borromeo, v. l'Avviso di Roma del 16 febbr. 1608: «l'uffitio d'auditore del Torrone di Bologna è stato dato al s.r Giulivo Cartari da Orvieto, giudice criminale dell'arcivescovo di Milano, dal quale è stato in diverse occasioni raccomandato a Sua Santità , e hora di moto proprio gli ha dato questo carico» (BAV, Barb. Lat. 6341, c. 31v); Roma, BA, ms 1645, c. 309, trascrizione di una lettera a Paolo V, s.i.d.: «Il card. Boromeo rappresenta alla santità Vostra che il dottore Giolivo Cartari da Orvieto, dopo l'haver fatto diversi offitij in Perugia, in Campagna di Roma, in Fano et in Ascoli, andò al servitio suo in Milano, dove è stato vicario criminale sette anni con molta lode et sodisfattione, in quei tempi massime di controversie e turbulenze giurisdittionali, nelle quali si mostrò sempre molto intrepido e zelante non senza qualche pericolo anco delle propria vita, et essendo poi astretto di ritornare alla patria per affari suoi domestici ha mutato stato, così richiedendo il bisogno di casa sua et desidera essercitarsi in offitij secolari. Et il medesimo cardinale desideroso di giovarle per le sue buone qualità supplica con ogni affetto la santità vostra si compiaccia impiegarlo in qualche honorato trattenimento in Roma o nello Stato ecclesiastico di qualche governo …». La protezione dei prelati si manifestò inoltre nel padrinaggio dei figli di Cartari: Maria, la primogenita, fu tenuta a battesimo da Giustiniani nell'ottobre 1610 e con l'occasione il cardinale donò «un puttino a cavallo sopra un candido destriero, di bella fattura, arricchito di perle, rubbini e diamanti»; la secondogenita Camilla, nata due anni dopo, ebbe a padrino Maffeo Barberini, che donò «un reliquiario d'oro con perle e ornamenti, con una collana d'oro», ivi, cc. 29-30. Sui doni, v. i commenti del fattore di Giulivo, in ASR, Cartari Febei, b. 14, c.n.n., 9 nov. 1610.

[69] ASR, Cartari Febei, b. 14, c.n.n., 9 nov. 1610 e 24 maggio 1611.

[70] (ms 1645, c. 16); «Dovendosi far provisione di novi auditori della Rota criminale di questa città, che consta di tre dottori, sete stato eletto per uno di essi, con certa speranza che per le buone vostre parti dobbiate compitamente sodisfare al desiderio nostro et al bisogno della Repubblica, il quale ufficio durerà tre anni, che comincieranno a X di marzo venturo 1617 nelli quali a vicenda anno per anno doverà ciascuno de gli auditori far l'ufficio della pretura, e ciò con li beneficij, salarij, preminenze etc.» (Il duce e i governatore della Repubblica di Genova, Genova 21 luglio 1616), ms 1645, c. 187v, l'originale a cc. 302r-v.

[71] ASR, Cartari Febei, b. 17, cc. 79 e 80 (per la citazione, 16 febbr. 1611).

[72] Ivi, b. 139, c. 228v.

[73] Per una valutazione storico-giuridica delle opere dei Cartari, bisogna attenersi ancora al giudizio espresso da Aldo Mazzacane nelle voci biografiche loro dedicate.

[74] Roma, BA, mss 1644 e 1645, 2 voll.: C. Cartari, Notizie diverse raccolte… per scrivere le vite de' Senatori di Roma. La Vita di Giulivo è ivi, ms 1645, cc. 168-189. Lettere e testimonianze scritte e orali raccolte da Carlo - con un procedimento che secondo Mordenti prelude alla «moderna scrittura autobiografica del 'sé' individuale» (I libri di famiglia cit., p. 102) - sono indicatori della posizione dei Cartari rispetto ai titolari del potere papale e curiale e delle benemerenze acquisite per i propri servigi. A tal proposito, v. la menzione dei due soli eventi ricordati, oltre al cursus honorum e alle vicende familiari: il concorso di Giulivo nel ritrovamento della 'sacra benda della Vergine' rubata con atto sacrilego a Bologna nel maggio 1613, mentre erano arcivescovo Alessandro Ludovisi e legato Maffeo Barberini, (ivi, ms 1645, c. 183v), e la partecipazione alla concordia milanese del 1615, sulla quale, v. oltre. Per quanto riguarda poi l'intenzione di editare le opere dei familiari, ivi, c. 160v.

[75] Roma 1656, p. 172. Le informazioni sono riprese a metà Settecento anche da G.B. Febei, Notizie di scrittori orvietani per il sig. conte Mazzucchelli di Brescia …, in «Archivio storico per le Marche e per l'Umbria», III (1886), pp. 355-360.

[76] Roma 1646. Una copia è conservata in ASR, Cartari Febei, b. 10.

[77] Per l'identificazione dei manoscritti attualmente conservati nell'Archivio di famiglia, v. Mazzacane, Cartari, Flaminio cit. Sulla lavorazione, ASR, Cartari Febei, b. 12, c.n.n., Flaminio a Giulivo Cartari (Genova, 9 giugno 1590): «… ho cominciato a dare l'ultima mano al primo libro et de mano in mano se rescrive in netto et dove adesso ci attende Mutio solo, se bene con poco progresso, ci attenderò anchor io et il servitore nelle ferie che entraranno che il servitore scrivera il secondo libro et io il terzo che sera delli quali tre, che poi il resto se verra mettendo in netto et se potra avanzare tempo col cominciar a stampare questi che mentre se attendera a questi alla stampa, se possono metter in ordine li restanti che col repertorio saranno cinque o sei libri, che in tutto saranno meglio de 3000 carte scritte in q.o foglio, che sono a lettera di Mutio versi 25 per facciata et così 50 per carta. Del trattato De essecut. sent. io ne hebbi scudi 30 in denari et 40 opere, se puo tirare il conto a proportione che fu quello circa 500 carte scritte a mano, che redutte le 40 opere a denari a iul. 6 l'una sono scudi 54 in tutto, che moltiplicati per sei sarebono scudi 324 perché sei volte più sera questa et da vantaggio. Oltre che bisogna considerare che le 40 opere che havesse di <queste> varrebono molto più dovendo esser in foglio et tanto più se se ne facessero due parte, stampandole con carattere come quello del Farinaccio o del Menoch. De presumptio. che da questo se puo vedere quanto tiri inanzi oltre li detti scudi 324 tirate <solo> a proportione del detto trattato. Però se può trattare con s.r Pellegrino come scrive et vedere quel che si può fare […]»; ivi, lo stesso (Roma, 19 dic. 1592): «Il methodo non è anchora in ordine, tuttavia gli sto a torno per darli l'ultima mano; so [pr. sto] intorno al falso et ci ho riaggiunto fino hora tutto quel che hanno detto 45 consulenti et sto dietro agli altri da rimettere intanto nel mio prontuario rerum criminalium; mi è cresciuto più di 200 se non 300 carte di più di quello che era: questo è la magior fattiga, nel resto non bisognara fatigar molto più. … Harei caro sapere il nome di quello che vuole attendere a stampare il methodo et se potrebbe intendere che partito vorrebbe fare, seranno senza manco 3500 carte scritte in carta genovese a lettera di Mutio et mia di buona mano, et se ne potrebbe fare ancho due parte secundo il carattere et il foglio in che si stampasse, et per la prima parte andarebbe il 1°, 2° et 3° libro che è il tratto del capo del delitto et de delinquente detegendo; la 2° parte sarebbe il 4° et 5° libro, che il 4° contiene la qualita de delitti che sono tre volumi scritti così a mano, et il 5° contiene la materia de testimonij et prove et se potrebbe fare ancho tutto un volume. Ms Damiano Zennaro libraro a Venetia mi ricerca del medesimo et qui e per lui ms Girolamo Franzino: non habbiamo però fatto patto alcuno, se bene gl'ho dato intentione di darglielo se saremo d'accordo. Però bisogna costi con questo altro negotiare con destrezza per non farsi pregiuditio con questo altro».

[78] Roma, BA, ms 1645, cc. 11-12 e 270v; G.B. Vannarelli, Cartharium sertum, Roma 1646, pp. 14-15.

[79] «… fu stimato tra i primi criminalisti de' suoi tempi come ne fanno testimonianza il Farinacci, Guazzino, Deciano, Caballo et altri autori», Roma, BA, ms 1645, c. 160v.

[80] Ivi, cc. 66-71 e di nuovo 178r-180v.

[81] Ivi, c. 23.

[82] Ivi, cc. 23-24. Vannarelli, Cartharium cit., pp. 14-15.

[83] Ivi, c. 26.

[84] La versione ms della Disputatio e delle Decisiones criminales in ASR, Cartari Febei, rispettivamente bb. 128 e 134.

[85] Ivi, b. 131.

[86] Ivi, b. 139, c. 230v. Febei, Notizie cit., p. 374 menziona anche una Methodus riguardante la materia canonistica che, insieme come le altre due, «passano i dodici tomi», e un Discursus et quaestiones legales in quatuor libros institutionum. Nel breve ritratto in ms 1645, c. 5 «ha composto diverse opere legali, ma non perfetionate per la stampa».

[87] Ivi, b. 128.

[88] C. Beretta, Iacopo Menochio e la controversia giurisdizionale milanese degli anni 1596-1600, in «Archivio Storico Lombardo», CIII (1977), pp. 47-128, in part. pp. 119-123. La ricostruzione di Carlo Cartari, seppur succinta, non manca di efficacia: «Mentre fu vicario in Milano, successero numerose controversie con li ministri regij e Giolivo le superò con quella intrepidezza d'animo che a molti è ben nota, anco con pericolo della propria vita», Roma, BA, ms 1645, c. 14. A seguito di questi fatti Clemente VIII emise due brevi, rispettivamente del 22 maggio e del 12 agosto 1599, ivi, cc. 305 e 307, nel secondo dei quali prevedeva la «sospensione della scomunica contro quelli soldati che andarono nel palazzo archiepiscopale di Milano per pigliare il Cartaro et contro complici et fautori» (come recita un'annotazione ms sul retro). L'11 agosto Giulivo scriveva a Papirio: «Li scommunicati non sono ancora assoluti et di novo non habbiamo altro. Ricordatevi di pigliar moglie et state sano» (ASR, Cartari Febei, b. 12, c.n.n.).

[89] Roma, BA, ms. 1645, c. 16. Il 27 marzo 1615 Giovan Battista Besuzi, nel dare a Giulivo notizia della intenzione di Borromeo di valersi di lui nel delicato incarico, illustrava a quale compito fosse chiamato il giurista: «Il negotio è questo, che dovendosi trattare, anzi concludere di presente la concordia fra questa Chiesa et li ministri Regij, il Senato a quest'effetto per ordine di Spagna ha mandato a Roma il fiscale Coiro, che si trova ivi già tre mesi sono et hora manda il sig. senatore Papirio [Cattaneo], il quale partirà domani, et il sig. cardinale ha destinato il sig Benedetto Beolio, canonico ordinario di questa Chiesa, che si trova in Roma et insieme la persona di VS come amorevole che è di s.s.ill.ma, prattico di questa chiesa et affettionatissimo, Sappia VS che il sig. cardinale l'ha fatto con ogni sigurtà e confidenza, et ha commesso a me che le ne scriva con pregarla a farli questo piacere, havendone già dato parte all'eccellentissimo sig. governatore et al Senato istesso et in particolare al sig. senatore Papirio, il quale ha fresca memoria di lei et ha sentito particolar gusto, che s.s.ill.ma habbia fatto elettione di lei a questa impresa…», ivi, cc. 186r-v e 296r-v; sempre ivi, cc. 185r-v, le lettere a Giulivo di Borromeo (Milano, 1° apr. 1615) che, sulla falsariga di quella di Besuzi, lo richiede nell'incarico di «difendere et aiutare la parte della Chiesa et … tirare avanti la concordia nella maniera e termini che a suo tempo le faremo sapere»; e di Scipione Borghese (15 maggio 1615) in cui gli comunica l'ordine del papa in esecuzione ai desideri di Borromeo.

[90] Ivi, cc. 290r-291r, lettera di Papirio Bartoli, 18 apr. 1615.

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