Le Vite individuali

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1. Le biografie individuali

Abbiamo dunque visto come le raccolte di Vite servissero a costruire una «storiografia di casta» e in questo senso contribuissero alla legittimazione di un campo professionale e dei suoi adepti. Abbiamo anche preso in esame gli strumenti utilizzati dagli autori per dare particolare forza e capacità di convincimento alle loro tesi: da un lato la sottolineatura della nobiltà di quell'arte, attraverso la sua stretta connessione con la filosofia e più in generale con le attività intellettuali; dall'altro l'enfasi sull'eccellenza di chi quell'arte professava, vista attraverso i riconoscimenti tributati dal pubblico e soprattutto dai grandi, attraverso attestati di stima, doni, retribuzioni, e così via. Per gli autori di quelle raccolte, tuttavia, questo genere di riconoscimenti non era altro che la manifestazione pubblica e visibile della nobiltà intrinseca dei soggetti interessati, nobiltà che si manifestava nella loro liberalità, nell'amore disinteressato per il bene pubblico e soprattutto nell'indubitabile ingegno e nell'eccelsa dottrina.

Le biografie individuali di artisti, poeti, scienziati, eruditi vari, che cominciano ad apparire più o meno in contemporanea con l'uscita della raccolta vasariana, sembrano a prima vista appartenere allo stesso genere letterario e rispondere ai medesimi scopi: a riprova si può citare la Vita di Torquato Tasso, scritta da Giovanni Battista Manso. L'obiettivo del marchese era infatti rivendicare l'appartenenza del poeta alla cultura napoletana e celebrare il ruolo di quest'ultima oltre che, naturalmente, la grandezza del suo biografato. [1]

Esaminando più da vicino queste Vite, e confrontandole con altri documenti di cui siamo ora a conoscenza, ci accorgiamo però che spesso non è così e che quelle che prevalgono sono motivazioni di tipo specificamente apologetico, come peraltro avviene spesso anche nel caso delle autobiografie. [2] Per questo ho pensato che fosse utile prenderne in esame un certo numero, cercando di capire quali fossero i problemi che gli autori si affannavano a risolvere o le accuse che intendevano rintuzzare, oltre che scoprire a quali accorgimenti retorici ricorressero per farlo. La presenza di alcune biografie quasi coeve di personaggi famosissimi, quali Michelangelo, Marino, Galilei, Bernini e le tante nuove ricerche condotte sul loro conto in questi ultimi anni, mi hanno inoltre suggerito di partire proprio da loro, per mettere a punto un modello di indagine e affinare non solo gli strumenti interpretativi ma anche la sensibilità al tipo di retorica utilizzata e agli argomenti addotti per restaurare reputazioni traballanti e operare legittimazioni definitive. Tutto questo ci aiuterà a leggere meglio tra le righe di altre biografie di personaggi infinitamente meno noti, ma anche di documenti di genere diverso, E forse così riusciremo a capire meglio la qualità e la varietà dei modi utilizzati per promuoversi da quanti aspiravano a far riconoscere la propria eccellenza, e a legittimare l'idea che la nobiltà per ingegno e dottrina fosse diversa ma non inferiore a quella per sangue e antica ricchezza, e pertanto meritevole di un suo riconoscimento specifico in un rango sociale suo proprio.

 

2. La Vita di Michelangelo di Ascanio Condivi

Sia che puntassero a esaltare la professione, a celebrare una città, a esaltare un'Accademia, le raccolte di Vite avevano, come ho detto, obiettivi promozionali. Le biografie individuali, invece, spesso presentavano sfumature diverse. Non era infatti raro che, soprattutto se uscivano a poca distanza dalla morte del biografato o addirittura mentre costui era ancora in vita, accanto agli intenti celebrativi assumessero anche un carattere più o meno chiaramente giustificativo o addirittura apologetico.

Il caso probabilmente più noto è quello della Vita di Michelangelo Buonarroti pubblicata da Ascanio Condivi nel 1553 [3], solo tre anni dopo l'uscita della prima edizione di quella di Vasari, e soprattutto mentre Michelangelo era ancora vivo e attivo. Nella premessa l'autore scrive di essere stato «sforzato d'accelerare, anzi di precipitar [la pubblicazione dell'opera]. Prima perché sono stati alcuni che scrivendo di questo raro huomo, per non haverlo (come credo) così praticato, come ho fatto io, da un canto n'hanno dette cose che mai non furono, da l'altro lassatene molte di quelle, che son dignissime d'esser notate. Da poi per che alcuni altri a' quali ho conferite et fidate queste mie fatiche, se l'hanno per modo appropriate, che come di sue si degnano di farsene honore. Onde per sopperire al difetto di quelli, et prevenir l'ingiuria di questi altri, mi son risoluto di darle fuori così immature come sono». [4] In realtà, più che per ristabilire la verità degli eventi biografici rispetto alle tante inesattezze di Vasari, è ormai assodato che Condivi fosse stato spinto a scrivere soprattutto per giustificare l'enorme ritardo di Michelangelo nell'esecuzione della tomba di Giulio II, iniziata da anni e non ancora finita, e per respingere l'accusa ancora più infamante di aver intascato una somma enorme senza aver rispettato la sua parte di contratto. [5] I dissapori con la committenza, i cambiamenti di progetto, le pressioni del nuovo papa Leone X perché si dedicasse piuttosto alla chiesa di San Lorenzo in Firenze, e tutti gli altri tumultuosi eventi che avevano contrassegnato quegli anni avevano di fatto talmente ritardato l'esecuzione del monumento funebre da aver creato un vero e proprio «caso» intorno a quella tomba. Oltre all'irritazione del duca d'Urbino e dei suoi emissari, Michelangelo aveva dovuto affrontare una diffusa maldicenza, che si rifletteva anche nella lettera del novembre del 1545 con la quale Pietro Aretino lo accusava apertamente di essere un ingrato, un avaro, un ladro. [6] Non stupisce quindi che Condivi sentisse di doverlo giustificare scrivendo: «Così entrò Michelangelo un'altra volta nella tragedia della sepoltura, laquale non più felicemente gli successe, di quel di prima, anzi molto peggio, arrecandogli infiniti impacci, dispiaceri, et travagli, et quel ch'è peggio, per la malitia di certi huomini, infamia, della qual'appena doppo molti anni s'è purgato». [7] Il racconto di quella vicenda incresciosa e di tutti gli episodi spiacevoli, comprese le maldicenze e le accuse, che si erano con essa intrecciati proseguiva per altre 20 pagine alla fine delle quali Condivi ribadiva il suo intento iniziale: «m'è parso necessario per istirpare quella sinistra e falsa openione che era nelle menti delli huomini radicata, ch'egli havesse ricevuti sedici mila scudi, et non volesse fare quel che era obligato di fare. Ne l'uno ne l'altro fu vero […] et questo è quel di che Michelangelo si duole, che in luogo di gratia, che se gli veniva, n'habbia riportato odio & acquistata infamia». [8] Dopo tanti giri di parole l'autore stesso rinunciava a dissimulare l'obiettivo apologetico della Vita: essa mirava esplicitamente a ristabilire la verità e a restaurare l'onore ferito del grande maestro.

 

3. La Vita di Giovan Vincenzo Pinelli di Paolo Gualdo

Al contrario di quella di Michelangelo, la vita esemplare dell'erudito e bibliofilo Giovanni Vincenzo Pinelli non sembra contenere nulla che suggerisca la necessità di un intervento riabilitativo. Eppure all'inizio del XVII secolo era del tutto insolito che un letterato ricevesse una simile attenzione. Leggendo il testo però ci si accorge che, più che di ricomporre la già compostissima immagine del suo biografato, l'autore sembrava preoccupato di stabilire la verità sulla sorte della bellissima e famosissima biblioteca che questi aveva raccolto nell'arco di cinquant'anni e che era stata smembrata e in gran parte dispersa dopo la sua morte. [9] Almeno un terzo delle circa 140 pagine di questa piccola opera erano infatti dedicate da un lato a spiegare gli elaborati ed efficientissimi criteri di classificazione dei libri e di ordinamento dell'intera raccolta, dall'altro a raccontare le vicissitudini cui era andata incontro dopo la morte di Pinelli. Dal momento che durante la sua vita questi aveva avuto libero accesso agli archivi della Serenissima, una parte dei suoi manoscritti era stata infatti immediatamente sequestrata dal Senato veneziano, geloso dei segreti di Stato che potevano contenere. [10] Il resto era stato riposto in circa 130 casse librarie ed era partito alla volta di Napoli, destinato ai suoi eredi. Una delle navi sui cui erano state caricate le casse era stata però assalita dai pirati che, delusi di non trovare alcunché di valore, ne avevano disperso il carico. I resti di questo erano fortunosamente approdati sulle spiagge di Fermo dove erano stati riconosciuti e messi in salvo. Ma delle 33 casse partite da Venezia se ne erano recuperate solo 22. [11] Né le perdite si fermavano qui. Altre 18 casse, che anni prima Pinelli aveva inviato a Roma presso un suo parente, erano state messe sotto sequestro dalla Camera Apostolica, creditrice di colui presso il quale si trovavano. [12] Quello che era sopravvissuto a tutte queste peripezie era stato bloccato dai contrasti che ben presto si erano aperti tra i vari eredi ed era rimasto quindi ad ammuffire nelle casse. Tutti i bibliofili d'Italia si erano nel frattempo messi in allarme cercando di capire se i libri superstiti fossero stati messi in vendita, primo tra tutti il card. Federico Borromeo. Nel momento in cui Gualdo scriveva, le loro sorti erano ancora del tutto incerte ma in seguito essi sarebbero stati acquistati da Antonio Olgiati, prefetto della biblioteca Ambrosiana di Milano. La storia del travagliato destino della biblioteca Pinelli era comunque diventata di dominio pubblico e la sua fama si era evidentemente diffusa anche all'estero se nel 1644 Louis Jacob de Saint Charles aveva ritenuto di doverla inserire nel suo trattato sulle più belle biblioteche del mondo. [13]

Naturalmente, però, la Vita offriva anche l'occasione per celebrare l'eccellenza di Pinelli e Gualdo lo faceva ricorrendo a due topoi di sicura presa sui lettori: la stima di cui egli godeva universalmente presso i dotti e la sua liberalità. Come abbiamo visto, ambedue gli argomenti ricorrevano di frequente in Vasari, e ancor più si ritrovavano nelle Vite individuali, dove citare gli elogi del biografato e le sue manifestazioni di generosità diventavano quasi passaggi obbligati. «A casa di Gian Vincenzo - scriveva dunque Gualdo - tutti i giorni si riunivano tutti coloro che a Padova si fregiavano della nobiltà conferita dalle lettere liberali e non solo loro, ma anche altri di diversa provenienza, che ritenevano desse loro prestigio il frequentarlo». [14], e a riprova riportava i tanti attestati di stima tributatigli da altri studiosi ed eruditi, a cominciare da Giusto Lipsio. [15] Poi aggiungeva: «Anche la generosità, grande dote in un nobile, brillò non poco in Pinelli, che ricambiava abbondantemente anche il minimo favore e cercava con impegno coloro ai quali poteva essere utile, se ne fossero stati degni». [16] Qui Gualdo riprendeva quasi alla lettera le argomentazioni di Pontano quando raccomandava di usare la liberalità con discernimento, in modo da scegliere i tempi e i modi più giusti. [17] Seguivano tre pagine di esempi che dimostravano ampiamente le parole del biografo, il quale concludeva richiamando ancora una volta l'azione di Pinelli a favore di altri letterati, meno fortunati di lui: «Non lasciava mai nulla di intentato per soccorrere persone oneste o amanti delle lettere e tuttavia prive di sostanze, quando ne aveva l'occasione. Questa è la vera generosità, quella cioè che non ha di mira un tornaconto, ma è tuttavia esercizio di una nobile forma di virtù, un amore disinteressato per il bene». [18]

Un'immagine di grande compostezza, come si vede, che si confà perfettamente alla figura dell'erudito tutto preso dai suoi studi e dalla sua biblioteca, in una delle città più aperte e liberali dell'epoca. Eppure lo stesso Pinelli poteva aver avuto delle noie con la censura e non è da escludersi che la sua biografia avesse anche intenti apologetici. Una prima spia in questo senso si trova in una lettera di Girolamo Mercuriale. Rispondendo a Paolo Gualdo, che si era rivolto a lui per avere informazioni di prima mano sulla vita del suo biografato, l'illustre medico commentava: «Non posso se non lodare lo spirito di V. Sign. in perpetuare la memoria di quel grand'uomo del sig. Gio. Pinello; ma mi duol bene, che per quanto ho inteso, non abbia occasione di celebrare anco la sua cristiana morte», [19] e vedremo nel caso di Marino quale valenza riabilitativa avessero queste sottolineature di una buona morte. Lo stesso Mercuriale ricordava poi che il fratello di Giovan Vincenzo avrebbe voluto comprargli un chiericato di Camera [20], ma che non se n'era mai fatto nulla, secondo lui perché Pinelli non aveva «talento da Corti». [21] Forse invece il progetto non era andato in porto per l'opposizione di qualcuno. Giovan Vincenzo era in effetti stimato e benvoluto da molti, ma aveva anche intrattenuto relazioni pericolose, per esempio non interrompendo mai la corrispondenza con umanisti eretici o seguendo con interesse le vicende dell'accidentata vita di Giordano Bruno, che aveva forse anche accolto in casa sua e ammesso a frequentare la sua biblioteca in quei mesi del 1591 che il nolano aveva trascorso a Padova. [22] Amico e corrispondente di Jacopo Corbinelli, che si era da tempo stabilito a Parigi, alla corte dei Valois [23], egli aveva inoltre manifestato simpatie e vicinanza al partito dei politiques e dei filo-navarrini francesi e italiani. E il suo interesse per le vicende francesi era tale che il suo corrispondente gli aveva promesso di inviargli il Brutum fulmen papae Sixti V aduersus Henricum sereniss. regem Nauarrae, il pamphlet con il quale François Hotman reagiva violentemente alla scomunica di Enrico di Navarra e che circolava, in forma ovviamente clandestina, nella Parigi del 1585. [24] Senonché, sia per le sue posizioni a favore di un riavvicinamento tra la corona e il partito ugonotto, sia per la sua corrispondenza con altri rifugiati italiani, Corbinelli era da alcuni anni sorvegliato dalle spie del nunzio a Parigi, che «si affretta a metterlo in cattiva luce a Roma» [25], e non è del tutto da escludersi che anche Pinelli venisse coinvolto in questa rete di sospetti. Forse fu anche per questo che i suoi eredi e amici non riuscirono mai a erigergli quel monumento funebre che avrebbero voluto dedicargli. [26]

 

4. Da Baiacca a Loredano: le tante Vite di Giambattista Marino

Se con le sue Vite Vasari aveva istituito un modello di biografia artistica che sarebbe stato più volte ripreso nel corso del XVII secolo, come ho appena detto le biografie letterarie erano invece più rare. [27] Eppure nell'autunno del 1625, a pochi mesi dalla morte di Giambattista Marino, usciva a Venezia un libretto in 12° intitolato Vita del Cavalier Marino ad opera di Giovan Battista Baiacca. [28] L'autore, che si guadagnava da vivere facendo il segretario del cardinale Scaglia, non era nuovo alle imprese biografiche, perché pochi anni prima aveva pubblicato la vita di un martire cattolico, ucciso dagli eretici valtellinesi nel 1618. [29] Ma, se la biografia di un martire era un genere letterario diffusissimo, quella di un poeta appena morto era invece un esercizio ancora relativamente raro e la struttura stessa dell'opera era abbastanza insolita. [30] La Vita vera e propria era infatti preceduta e seguita da una serie di lettere e di composizioni poetiche in cui si celebrava la grandezza del defunto Marino nell'intento dichiarato di difenderlo dall'invidiosa malevolenza dei suoi rivali. L'iniziativa nasceva da una convergenza di interessi disparati: quelli dell'autore dell'epistola dedicatoria al cardinale Scaglia, con la quale il libro si apriva, tale Gasparo Bonifacio, avvocato per professione e autore di liriche pastorali per passione, che in questa maniera poteva accostare il proprio nome a quello del poeta; quelli dell'editore Giacomo Sarzina, che aveva anche stampato l'edizione veneziana dell'Adone e sperava di veder attenuare le censure ecclesiastiche che avevano colpito il poema; quelli di Domenico Scaglia, che aveva finanziato l'edizione Sarzina e che negli ultimi anni di vita di Marino lo aveva attivamente sostenuto; e infine quelli dell'Accademia degli Umoristi di Roma di cui Marino era stato principe e al cui interno era molto probabilmente nata l'idea di dare alle stampe una sua biografia. La Vita si presentava quindi come un'opera collettiva, che schierava a difesa del defunto alcuni dei letterati più illustri dell'epoca. A Roma si sapeva infatti che i nemici del poeta si stavano adoperando per ottenere la condanna definitiva dell'Adone e si trattava di mobilitarsi per impedirlo. Per questo l'Accademia stava prendendo una serie di iniziative che andavano dall'organizzazione di una solenne celebrazione funebre [31], fino alla proposta, avanzata alla Congregazione dell'Indice, di provvedere alla «espurgazione» dell'Adone. [32]

Il fine comune della Vita e dei vari testi accessori, compresa la copia della lettera con la quale Girolamo Preti annunciava a Claudio Achillini la morte del poeta e la risposta di quest'ultimo, era dunque di offrire di Marino un'immagine ricomposta, che lo riabilitasse sul piano morale. Esso veniva perseguito non solo attraverso la cronaca della cristianissima morte del poeta [33], ma anche sottolineando l'immacolata reputazione del suo biografo Baiacca e la protezione di un principe della Chiesa nonché membro del Sant'Ufficio quale il cardinale Scaglia. Oltre a vedersi censurare quasi tutte le opere, Marino aveva infatti subìto una condanna per alcuni suoi sonetti sodomiti che avevano cominciato a circolare anche al difuori della cerchia più immediata dei suoi amici. [34] Per questo era dovuto rimanere qualche tempo agli arresti domiciliari e aveva dovuto fare ammenda, indossando l'«abitino» dei penitenti dell'Inquisizione. [35] Ma qualche ombra sulla sua reputazione era pur rimasta.

L'aspetto che qui più ci interessa, tuttavia, non è tanto quello della riabilitazione morale di Marino quanto quello che riguarda la sua posizione sociale. Sebbene le due questioni fossero strettamente intrecciate tra loro e il raggiungimento di uno status sociale di rilievo, legato all'eccellenza poetica, dovesse necessariamente passare per il silenzio sui sospetti di sodomia, ridotti a imprecisate macchinazioni di emuli invidiosi, esse non coincidevano pienamente e pertanto richiedevano linee di argomentazione diverse. Ecco quindi che Baiacca si soffermava a descrivere i numerosi episodi in cui grandi nobili o ecclesiastici di primo piano avevano trattato Marino come un loro pari, innalzandolo di fatto al loro rango, e metteva in debito rilievo il riconoscimento supremo rappresentato dal cavalierato conferitogli dal duca di Savoia: «della croce de' suoi cavalieri de' SS. Maurizio e Lazzaro, da lui a persone nobili per nascita e per azioni egregie riguardevoli solita concedersi, l'onorò». [36] Poi proseguiva spiegando che a Parigi il poeta aveva ricevuto dalla «reina Maria e dal re Luigi suo figliolo […] doni segnalati e grosse pensioni, cose da poeti ne' trapassati tempi rade volte ottenute». Tanta ricchezza non era stata usata per inseguire frivoli lussi cortigiani ma per raccogliere «una copiosa, e scelta libreria, ornata di eccellenti pitture, e di rari disegni, co' ritratti degl'uomini più famosi del suo secolo, a' quali egli le proprie effigie istantemente richiedeva per degnamente collocarle nel suo Museo». [37] L'Adone che proprio in Francia aveva avuto «l'onore d'essere per mezzo della stampa a tutti gli uomini comunicato […] - proseguiva Baiacca - era in tanto pregio salito che a rigorosissimo prezzo si comperava». [38]

La reputazione raggiunta dal poeta e gli onori che gli venivano quotidianamente tributati erano tali che il seguito della biografia non poteva che essere in ulteriore crescendo. Non c'era spazio - nella Vita di Baiacca - per eventuali rovesci di fortuna o cadute in disgrazia o freddezze di sovrani e altri potenti. Su tutto questo il biografo preferiva stendere un velo di silenzio, anche a costo di operare bruschi salti narrativi. [39] Il racconto proseguiva quindi con il rientro a Roma, le molte «carezze» dei signori della corte, l'elezione a principe dell'Accademia degli Umoristi e, glissando sulle ragioni che avevano spinto il poeta prima a ritirarsi in casa di Crescenzi, e poi a lasciare Roma per Napoli, si soffermava sulla descrizione delle accoglienze trionfali che la sua città natale gli aveva riservato. Dopodiché le trattative per un ritorno a Roma venivano presentate come la cortese adesione al pressante invito rivoltogli da quella corte, che si «contristava» troppo per la sua assenza. [40] La successiva descrizione della «meravigliosa pompa funebre» del poeta era il degno coronamento dell'opera: «era seguita la bara da più di cento titolati, principi, baroni e altri signori principali della città e del Regno, e da moltitudine di popolo innumerabile. Quelli a quattro a quattro con gran doppieri accesi in mano e con gli occhi pregni di lacrime, e questa con pianti e con sospiri, gittate le corone di alloro sopra gli arnesi che sopra la coltrice stavano, gli prestarono gl'ultimi ossequi: onore colà allo scettro de' regi e alla penna d'oro del cavalier Marini solamente dovuto». [41]

Il fine di Baiacca non era tuttavia puramente celebrativo e, se molti nemici implicavano per antonomasia molto onore, il biografo non esitava a intervenire esplicitamente sulle maldicenze di cui il poeta era stato tanto spesso vittima: era «natural cosa - scriveva - che la umana virtù quanto è più eminente, tanto sia maggiormente esposta ai fulmini dell'invidia, da' quali però ella non riceve punto di nocumento, riuscendo le loro punture e percosse a guisa di colpi di eccellente scultore che formano più riguardevole il colosso della sua fama; o pur diremo che la lingua de' maldicenti sia come industre pennello di diligente pittore, che con esso servendosi del mordente, viene ad esser cagione che l'oro della gloriosa fama degli uomini preclari più stabile riluca ed appaia più splendente». [42] Il libretto tuttavia non si chiudeva qui perché, come si è detto, le ultime pagine erano dedicate alla descrizione delle solenni esequie celebrate a Roma dagli Accademici Umoristi che, con questo atto, lo rivendicavano solennemente a sé, adottando quel modello di rispecchiamento e legittimazione reciproca tra singolo e corpo di appartenenza che abbiamo visto essere all'origine della biografia come genere letterario. [43]

La Vita di Baiacca era solo la prima di una abbastanza nutrita serie di biografie secentesche di Marino. Nel 1633, per esempio, in appendice alla Strage degl'innocenti pubblicata da Giovanni Manelfi usciva un Breve racconto della Vita del Sig. Cavalier Marino, scritto dal romano Giacomo Camola, definito dallo stampatore «uno dei più stimati ingegni dell'Illustrissima Accademia degli Humoristi», il cui scopo era stabilire «la Verità». [44] A distanza di otto anni, e quando ormai l'Adone era stato messo definitivamente all'Indice, le urgenze apologetiche avevano cambiato di tono e l'opera mirava soprattutto a concentrarsi sugli aspetti encomiastici. L'autore spiegava dunque come, fin da bambino, il poeta fosse vissuto nobilmente, dal momento che il padre, «esercitandosi con molta lode nelle civili contese del foro di Napoli» era diventato ricco e non solo aveva potuto mantenere se stesso e la sua famiglia «in grado honorato», ma spesso «splendidamente preparava […] piacevoli trattenimenti di comedie, e d'altri passatempi, non meno liberale, che dotto». [45] Poi continuava facendo notare che, in ricompensa del Ritratto e Panegirico di Carlo Emanuele di Savoia, Marino aveva avuto «in premio l'honore di quella Croce, la quale il medesimo Duca si pregiava di portare nel petto: il quale Duca gli diede oltra di ciò luogo nobile nella sua Corte, sembrandogli così degna la penna d lui». [46] Quanto alle accuse di lascivia, era stato il poeta stesso a chiedere di purgare le sue opere di modo che «coloro, che hora si studiano di purgare le opere di lui d'ogni si fatta riprensione, non maggiormente illustrano, e limpidissima fanno quella gloria […] ma ancora con pia benignità il di lui supplichevole desiderio, aperto nell'ultime preghiere, mandano ad esecutione». [47]

Ma ciò che più premeva a Camola era la sottolineatura del rapporto di legittimazione reciproca che era intercorso tra il poeta e l'Accademia degli Umoristi: da un lato, eleggendolo suo principe «hebbe l'Accademia quegli aumenti di gloria, che da lui si prometteva». [48], dall'altro «dopo haver passato il doloroso ufficio dell'estreme lagrime, con grande apparato di pompe funebri […] e con l'intervento de' Cardinali e de Principi [essa] celebrò l'esequie […] Il qual costume di celebrar l'esequie agli Accademici viene osservato dall'Accademia solo in morte di persone per valore insigni, e per merito eminenti». [49] In questo quadro i referenti del poeta non erano tanto i grandi della corte quanto i letterati suoi simili e le diverse «celebratissime Accademie» che li riunivano [50]: il merito dell'uno si riverberava sugli altri che lo avevano saputo riconoscere e viceversa.

Ancora più esplicita nel rivendicare la centralità di coloro che avevano raggiunto la fama grazie a dottrina ed ingegno era la Vita del cavalier Marino di Giovan Francesco Loredano, uscita a Venezia negli stessi giorni in cui usciva a Roma quella di Camola. [51] La premessa serviva a spiegare le ragioni dell'opera, che risiedevano non tanto nel desiderio di ristabilire la verità, quanto in quello di fornire un esempio luminoso ai contemporanei: «Le vite de gli huomini illustri sono le scorte della prosperità [sic]. Sono scudi d'Ubaldo, che risvegliano alla virtù anco quegli spiriti, che riposano solitamente nel vitio […] scriverle è un sagrificare alla verità, un pagare un debito all'honore, e un non invidiare la gloria a quelle ceneri, che formano il rogo all'immortalità». [52] Il racconto proseguiva sottolineando come la «Fortuna» avesse fatto nascere il poeta in una famiglia modesta «volendo forse che solamente dalle sue virtù, riconoscesse i suoi splendori» [53], e continuava mettendo in luce i numerosi casi in cui aveva dato prova della propria nobile grandezza d'animo. Sotto la penna di Loredano la carriera di Marino si misurava soprattutto sui riconoscimenti e gli onori tributatigli dai «più isquisiti ingegni», sul fatto che i suoi libri venissero tradotti in varie lingue, sull'attenzione che gli dedicavano le «Accademie più mentovate». Il vero metro dell'eccellenza dell'artista non poteva risiedere che nel giudizio dei pari, ancora una volta in un processo di legittimazione reciproca.

La più compiuta assimilazione di Marino a un principe, non solo per l'eccellenza artistica ma anche per la condotta di vita, si trova però in una terza biografia uscita in quello stesso 1633, ad opera di Francesco Ferrari [54], dove a riprova della sua liberalità principesca si citavano da un lato i magnifici trattamenti fatti da Marini a Manso, che lo visitava a Parigi - «splendidamente l'alloggiò, regiamente l'accompagnò e magnificamente cavalli e altri nobili arredi donar gli volle» [55] - dall'altro il «nobilissimo studio di libri scelti» e la galleria di «pitture e disegni de' i più famosi artefici» [56] che il poeta aveva raccolto nel corso della sua vita e che lui stesso giudicava degni di un sovrano. Lo stile di vita del poeta, che altri biografi avevano descritto come assai sobrio, se non al limite della stravaganza anti-cortigiana, veniva qui invece invocato a materializzazione della nobiltà del suo animo.

 

5. La Vita di Galileo di Vincenzo Viviani

Né artista né poeta bensì matematico e filosofo Galileo Galilei si prestava certamente meno ad essere rappresentato come un cigno, al pari di Marino, o un dio, come il divino Michelangelo. Ma anche per lui valevano le ragioni che avevano spinto l'Accademia degli umoristi ad avviare l'impresa Baiacca: da un lato difendere l'eccellenza di un proprio membro dall'altro celebrare la grandezza dell'intero suo corpo di appartenenza. Subito dopo la sua morte il suo affezionato discepolo Vincenzo Viviani aveva cominciato a raccogliere i suoi scritti inediti, in vista di un'edizione integrale delle sue opere. E quando nel 1654 il cardinale Leopoldo de Medici aveva chiesto a lui e a Niccolò Gherardini [57] di scrivere la vita dello scienziato si era messo subito all'opera. Il suo Racconto istorico della vita di Galileo rimase tuttavia inedito fino al 1717 quando fu inserito in una raccolta di biografie dei Consoli dell'Accademia fiorentina [58], della quale sia Galilei che Viviani erano stati membri. Anche dietro questa iniziativa c'era dunque un'Accademia e anche in questo caso il modello era costituito dal corpus di biografie che si era andato raccogliendo in Italia e in particolare dalle Vite di Vasari. Viviani conosceva bene l'opera vasariana, tanto da adottarne alcuni topoi a partire da quello della precocità del suo eroe: la frase con la quale spiegava il primo manifestarsi degli interessi scientifici nel giovanissimo Galileo - «cominciò questi ne' primi anni della sua fanciullezza a dar saggio della vivacità del suo ingegno» [59] - riprendeva quasi alla lettera quello che Vasari aveva scritto a proposito di Giotto - «mostrando in tutti gl'atti ancora fanciulleschi una vivacità e prontezza di ingegno straordinario». [60] Viviani inoltre conosceva Filippo Baldinucci, che stava anche lui raccogliendo materiali per una sua edizione di Vite di artisti e come lui era membro dell'Accademia della Crusca. [61] E proprio a Baldinucci si era rivolto per chiedergli «notizia dell'anno, mese, giorno, ora e luogo della morte del divino Michelangelo Buonarroti» [62], con l'intento di mettere in relazione la nascita del primo con la morte del secondo; nel suo manoscritto infatti Galilei veniva fatto nascere il 19 febbraio del 1564, cioè il giorno successivo al trapasso di Michelangelo. [63] Questa attenzione per il momento esatto della nascita, in modo da poter calcolare la relativa posizione dei pianeti e tracciare l'oroscopo, non era casuale. Di Galileo abbiamo infatti almeno cinque diversi oroscopi e tutti naturalmente individuano nel tema natale i segni del genio che sarebbe poi diventato. [64]

Come tante Vite scritte e pubblicate prima e dopo Vasari, anche il Racconto istorico riprendeva dunque i punti topici della tradizione classica miranti a far emergere l'eccezionalità del biografato. Non altrettanto comuni erano invece gli aspetti apologetici che, non sorprendentemente, caratterizzavano l'opera di Viviani. Se nel caso di Marino, per neutralizzare gli episodi più scabrosi i biografi si erano soprattutto serviti del silenzio, complice anche la relativa riservatezza con la quale erano stati trattati dalle stesse autorità, nel caso di Galilei questo non era certo possibile e chi si era assunto il compito di restaurarne l'immagine doveva adottare altri strumenti retorici. E quindi Viviani non mancava di sottolineare, accanto alla genialità dello scienziato, anche la liberalità dell'uomo naturalmente nobile. Il tema compariva a più riprese: a proposito delle tante opere che il Maestro non si era curato di firmare, «come fatiche delle quali ei non faceva gran conto, essendo di esse tanto liberale donatore quanto fecondo compositore» [65], ma anche della condivisione delle sue scoperte, per cui si era risolto «con la solita prodigalità nel comunicare le sue invenzioni, di far libero dono di questa ancora [il cannocchiale] al Ser.mo Principe o Doge Leonardo Donati et insieme a tutto 'l Senato Veneto». [66] D'altra parte, da uomo magnanimo qual era, egli aveva «assai più in odio l'avarizia che la prodigalità. Non risparmiò a spesa alcuna in far varie prove et osservazioni per conseguir notizie di nuove et ammirabili conseguenze. Spese liberalmente in sollevar i depressi, in ricevere et onorare forestieri, in somministrar le comodità necessarie a poveri, eccellenti in qualch'arte o professione, mantenendogli in casa propria finché gli provvedesse di convenevol trattenimento». [67] E in questo Galileo era accostato a Leonardo e a Raffaello dei quali, come si è visto, Vasari aveva scritto cose del tutto analoghe. Per raggiungere i suoi obiettivi, un eroe era pronto al sacrificio, ed egli infatti non aveva badato «né a fatiche né a spese», al punto da compromettere la propria salute nelle lunghe veglie al telescopio: «Fu esposto a molti mali accidenti et affetti ipocondriaci e più volte assalito da gravi e pericolose malattie, cagionate in gran parte da' continui disagi e vigilie nell'osservazioni celesti, per le quali bene spesso impiegava le notti intere». [68]

Ma, come ho già detto, per un uomo del XVII secolo non esisteva grandezza senza riconoscimento sociale. Lungo tutto il filo del Racconto Viviani tornava e ritornava sui riconoscimenti universali, gli onori tributati da principi e governati, la gloria acquisita all'interno della cerchia dei dotti, e non dimenticava di menzionarne i risvolti finanziari. Quando nel 1599 la Repubblica di Venezia aveva confermato al Maestro «la lettura delle matematiche in Padova», lo aveva fatto «con augumento di provvisione». [69] E dopo che Galileo aveva fatto al Doge «libero dono» dell'invenzione del cannocchiale, «fu immediatamente, con generosa dimostrazione della Ser.ma Republica, ne' 25 d'Agosto del 1609 ricondotto il Sig.r Galileo a vita sua alla medesima lettura, con più che triplicato stipendio del maggiore che fusse solito assegnarsi a' lettori di matematica». [70] Il Granduca di Toscana aveva però rilanciato, richiamandolo «con propria lettera de' 10 Luglio 1610 […] di Padova al suo servizio con titolo di Primario e Sopraordinario Matematico dello Studio di Pisa, senz'obligo di leggervi o risedervi, e di Primario Filosofo e Matematico della sua Ser.ma Altezza, assegnandogli a vita amplissimo stipendio, proporzionato alla somma generosità di un tanto Principe». [71] E quando nel 1636 il Maestro, ormai isolato in Italia [72], si era risolto «di far libera offerta alli Ill.mi et Potentissimi Stati Generali delle Provincie Unite d'Olanda del suo ammirabil trovato per l'uso delle longitudini, col patrocinio del Sig.r Ugon Grozio, ambasciador residente in Parigi per la Maestà della Regina di Svezia, e con l'ardentissimo impiego del suddetto Sig.r Elia Deodati, per le cui mani passò poi tutto il negoziato. Fu dalli Stati avidamente abbracciata sì generosa offerta, e nel progresso del trattato fu gradita con lor umanissima lettera, accompagnata con superba collana d'oro» [73]: Galileo era ormai così grande che non si poteva più retribuirlo in denaro, ma le sue «libere offerte» si potevano ricambiare solo con altrettanto generosi controdoni. [74]

Naturalmente, però, non tutti gli onori si risolvevano in una monetizzazione. A volte le «carezze» dei grandi, il fatto che accorressero alle sue lezioni, lo visitassero a casa sua, chiedessero di incontrarlo erano di per sé servizi di identificazione meritevoli di essere menzionati. [75] Viviani raccontava quindi come «Licenziatosi adunque il Sig.r Galileo dal servizio della Ser.ma Republica, verso la fine d'Agosto se ne venne a Firenze, dove da quelle Ser.me Altezze, da' litterati e dalla nobiltà fiorentina, fu accolto et abbracciato con affetti di ammirazione». [76] D'altra parte Cosimo e Ferdinando non erano stati i soli sovrani a tributargli omaggi: nel 1618, per esempio, il «Ser.mo Leopoldo Arciduca d'Austria, […] trovandosi allora in Firenze volle onorarlo con la propria persona visitandolo sino al letto». [77] Verso la fine dell'opera il biografo ricordava inoltre di «aver inteso ch'il gran Gustavo re di Svezia, che fu poi fulmine della guerra, nel viaggio che da giovane fece incognito per l'Italia, giunto a Padova vi si fermò con la sua comitiva per molti mesi, trattenutovi principalmente dalle nuove e peregrine speculazioni e curiosissimi problemi che giornalmente venivano promossi e risoluti dal Sig.r Galileo nelle pubbliche lezzioni e ne' particolari congressi, con ammirazione de' circostanti; e volle nell'istessa casa di lui (con l'interesse d'esercitarsi insieme nelle vaghezze della lingua toscana) sentire l'esplicazione della sfera, le fortificazioni, la prospettiva e l'uso di alcuni strumenti geometrici e militari, con applicazione et assiduità di vero discepolo, discoprendogli in fine con amplissimi doni quella regia maestà ch'egli s'era proposto di occultare». [78] Come si è già visto nelle biografie di Marino, l'eccellenza dell'eroe ribaltava le gerarchie sociali: di fronte a lui i principi si facevano piccoli e non erano loro che ricevevano le sue visite o si degnavano benignamente di conversare con lui, bensì il contrario.

Tutto il resto, le disavventure, la censura, l'arresto, la condanna non erano stati altro che macchinazioni di emuli. La loro invidia aveva cominciato a manifestarsi fin dagli anni di Pisa, quando «molti filosofastri suoi emuli, fomentati da invidia, se gli eccitarono contro». [79] La crescente fama del Maestro aveva naturalmente aggravato la situazione e «nel 1607 trovandosi il Galileo fieramente offeso e provocato da un certo Baldassar Capra milanese, che si era allora temerariamente appropriata l'invenzione del suddetto compasso col tradurlo in latino e stamparlo nell'istessa città di Padova in faccia del medesimo autore, con titolo di Usus et fabrica circini cuiusdam proportionis, fu questi necessitato a publicare una sua Difesa in volgare, per evidente dimostrazione di furto così detestabile e vergognoso; difendendosi insieme dalle calunnie et imposture del medesimo Capra, il quale in una sua Considerazione astronomica circa la stella nuova del 1604, stampata già più di due anni avanti, l'aveva acerbamente lacerato, mosso da invidia per l'universale applauso che avevano ricevuto le tre suddette lezzioni del Galileo, fatte sopra la nuova stella». [80] L'inimicizia più acerrima era tuttavia nata nel 1619, quando

«il Sig.r Mario Guiducci […] compilando intorno a ciò [l'apparizione delle le comete nel 1618] l'opinioni delli antichi filosofi e moderni astronomi e le probabili conietture che sovvennero al Sig.r Galileo, scrisse quel dottissimo Discorso delle Comete [… e] diede con esso occasione a tutte le controversie che nacquero in tal proposito, e di più a tutte le male sodisfazioni che il Sig.r Galileo da quell'ora sino alli ultimi giorni con eterna persecuzione ricevé in ogni sua azione e discorso. Poi che il suddetto Matematico, offendendosi fuor del dovere e contro l'obligo di filosofo che le sue proposizioni non fossero ammesse senz'altro esame per infallibili e vere, o pure anche invidiando alla novità de' concetti così dottamente spiegati nel sopradetto Discorso delle Comete che fu impresso in Firenze nel 1619, dove reprovando tra l'altre alcune opinioni del Matematico del Collegio Romano, indi a poco publicò una certa sua Libra astronomica e filosofica». [81]

Il racconto di Viviani raggiungeva però il suo culmine retorico quando egli affrontava la questione del Dialogo sopra i due massimi sistemi. Con sapiente argomentazione, egli riusciva infatti a trasformare delle prese di posizione condannate dal S. Ufficio nell'ennesima prova dell'eccellenza del Maestro: «Essendosi già il Sig.r Galileo - scriveva egli - per l'altre sue ammirabili speculazioni con immortal fama sin al cielo inalzato, e con tante novità acquistatosi tra gl'uomini del divino, permesse l'Eterna Providenza ch'ei dimostrasse l'umanità sua con l'errare, mentre nella discussione de' due sistemi si dimostrò più aderente all'ipotesi Copernicana, già dannata da S. Chiesa come repugnante alla Divina Scrittura». [82]

 

6. Da Filippo Baldinucci a Domenico Bernini: le Vite di Gianlorenzo Bernini

A quarant'anni dalla morte di Galileo e a quasi sessanta da quella di Marino, anche Gianlorenzo Bernini si venne a trovare nella scomoda posizione di dover restaurare la propria immagine agli occhi dei suoi concittadini. E, come nel loro caso, anche questo compito fu portato a termine grazie a un lavoro di équipe, che questa volta vide però coinvolta non la fratellanza simbolica di un'Accademia, ma una famiglia vera e propria, composta dallo stesso Bernini, dai suoi due figli e da uno stretto amico come Filippo Baldinucci. Già vari anni prima della morte del vecchio artista suo figlio Pier Filippo aveva cominciato a raccogliere materiali per la redazione di un catalogo completo delle sue opere e al tempo stesso aveva consultato Baldinucci discutendo con lui su come scriverne una Vita. Non è improbabile che all'origine del progetto ci fosse Gianlorenzo stesso. [83] Il materiale documentario era infatti costituito in parte preponderante dai suoi ricordi, sebbene Baldinucci cercasse di dare valore di verità e oggettività al proprio racconto inserendo nel testo la trascrizione di numerose lettere scritte a Bernini o aventi lui come oggetto e concludesse l'opera con la lunga relazione tecnica di Mattia de Rossi sulla stabilità della cupola di S. Pietro. [84]

Il libro sarebbe dovuto uscire mentre Gianlorenzo era ancora in vita, rifacendosi al precedente di Ascanio Condivi, in modo da ribadire, anche attraverso questo strumento, l'idea che Bernini era il «Michelangelo del suo secolo». [85] Ecco quindi che Baldinucci non si accontentava di citare la «profezia» di Annibale Carracci che aveva preconizzato la costruzione del baldacchino e della cattedra di S. Pietro, ma per darle maggior forza la metteva tra virgolette, usando il discorso alla prima persona. In presenza del giovanissimo Gianlorenzo il maestro bolognese aveva infatti dichiarato: «Credete a me, che egli ha pure da venire, quando che sia, un qualche prodigioso ingegno, che in quel mezzo [della basilica di S. Pietro] e in quel fondo ha da far due gran moli proporzionate alla vastità di questo Tempio», e tanto era bastato perché «il Bernino tutto ardesse per desiderio di condursi egli a tanto». [86] Le citazioni in prima persona delle massime autorità del tempo continuavano con un discorso di Urbano VIII che, appena eletto al Sacro Soglio, aveva fatto chiamare lo scultore e gli aveva detto: «E' gran fortuna la vostra, o Cavaliere, di veder Papa il Cardinal Maffeo Barberino; ma assai maggiore è la nostra, che il Cavalier Bernino viva nel nostro Pontificato». [87] Erano anni infatti che il futuro papa «aveva concepita in se stesso una virtuosa ambizione, che Roma nel suo Pontificato, e per sua industria giungesse a produrre un altro Michelangelo». [88] Un'analoga ricerca dell'effetto di oggettività si ritrovava nella glorificazione finale, messa in bocca a un illustre personaggio. Era infatti il card. Pallavicino, non Baldinucci, a dire «che il Cavalier Bernino non solo era il migliore Scultore, e Architetto del suo secolo, ma anche (semplicissimamente parlando) il maggior uomo; perché (diceva egli) quantunque più apprezzabile cosa fusse stata l'esser un gran Teologo, un gran Capitano, un grande Oratore, come che nel secolo presente tali professioni siano stimate o più nobili, o più necessarie, tuttavia non v'era nessun Teologo, Capitano, o Oratore, che al suo tempo si fusse tanto nella sua professione avanzato, quanto il Bernino nelle proprie». [89] La costruzione del mito si avvaleva inoltre di sapienti silenzi: sia Baldinucci sia Domenico Bernini erano ben attenti a ignorare qualsiasi traccia che avrebbe potuto «ricondurre alla 'cultura' di Bernini, alle sue letture, alle suggestioni derivate dai letterati intorno a lui operanti» per proclamare invece «l'assoluto primato dell''ingegno'». [90]

Nell'iniziativa dei due figli di Bernini e di Baldinucci le intenzioni apologetiche tuttavia non mancavano, ed anzi erano forse prevalenti. Con la fine dei pontificati che avevano fatto la sua fortuna e l'elezione al soglio pontificio di Clemente X e soprattutto di Innocenzo XI, infatti, l'egemonia di Gianlorenzo sulla scena artistica romana aveva cominciato a dare vistosi segni di cedimento. Bernini veniva inoltre visto come l'ispiratore di una serie di spese abnormi, del tutto fuori luogo in un principato di piccole dimensioni e risorse abbastanza limitate, e fin dalla metà degli anni '70 erano cominciati ad apparire una serie di avvisi e di libelli contenenti le accuse più varie contro di lui. [91] Le questioni più scabrose erano comunque quelle che riguardavano le crepe sulla facciata di S. Pietro e la stabilità della cupola, tanto che «un quarto dell'intera biografia … [era] riservato all'esplicita difesa di Bernini contro le accuse di essere un architetto incompetente». [92] La solita invidia degli emuli veniva quindi evocata fin dalle prime pagine del libro. Baldinucci spiegava infatti che quando Bernini aveva cominciato a lavorare alle grandi colonne del baldacchino di S. Pietro, «l'imperita, e stolta gente rinnovò in Roma contro di lui quei perniciosi sussurri, che pure dall'inetta plebe furono mossi in Firenze contro il gran Brunellesco, allora che per lo servizio della gran Cupola egli aveva fatto allestire tanti marmi, che parevano bastanti a fabricare […] una Città». [93] Il biografo continuava riferendo più o meno dettagliatamente altri episodi in cui «torbidi cervelli, pronti all'invidia dell'altrui gloria, e disposti a pensar d'ognuno sempre il peggiore» non avevano esitato a metter in giro volgari maldicenze contro l'artista e provava di trasformare questi attentati alla reputazione in altrettanti segni di grandezza. Per far questo di nuovo citava non se stesso, ma un aforisma più generale, mostrando al mondo «quanto sia vero, che anche agli Astri di prima grandezza il nembo dell'invidia giunge talora». [94] Il climax si raggiungeva quando Baldinucci doveva giustificare l'abbattimento del campanile di S. Pietro, per ordine di Innocenzo X. La vicenda era così introdotta: «Una sì gran virtù, accompagnata da una sì gran fermezza di fortuna goduta dal Bernino nel lungo Pontificato d'Urbano, l'una, e l'altra delle quali cose rade volte, o non mai in uno stesso soggetto vediamo congiungersi, non poterono non eccitare tanto in vita, che dopo morte di quel Pontefice ne i cuori degli uomini invidiosi contro di lui vive scintille di rancori, e di sdegni, le quali poi dilatandosi, e negli animi più accomodati, e disposti a danno di lui imprimendosi, esser non poté, che non si convertissero in un gran fuoco, atto a divorarsi non pure le passate fortune del Bernino, ma gran parte eziandio di quella gloria, ch'egli s'era con tante, e sì lodevoli fatiche in lungo tempo guadagnata, come noi ora siamo per raccontare». [95] Come l'originale, anche il Michelangelo del XVII secolo aveva dunque avuto bisogno di un biografo che lo difendesse, ristabilendo la verità. Quella Verità , che il tempo avrebbe svelato, il Bernini in disgrazia l'aveva d'altronde meravigliosamente scolpita e l'aveva poi lasciata in eredità ai suoi figli, vincolandola con un fedecommesso. [96] La storia di questo gruppo marmoreo era particolarmente significativa e si legava direttamente alla vita dello scultore, alla sua specifica esperienza: era stato innalzato ai vertici della fama e del prestigio e bruscamente ne era stato privato; era caduto in disgrazia, messo da parte senza ricevere più commissioni e su di lui e la sua famiglia incombeva lo spettro della povertà. Anche se poi si era ripreso, aveva comunque voluto mettere in guardia i suoi figli contro la precarietà dell'esistenza. Bernini era un artista e la Verità era un prodotto della sua arte, della sua specifica competenza. In più essa era veramente una materializzazione della sua esperienza. Quando aveva iniziato a scolpirla aveva proiettato l'evento nel futuro: la verità sarebbe stata svelata dal tempo. Nel momento in cui la lasciava ai suoi figli poteva invece contemplarla al passato: la verità era ormai stata svelata. La vera eredità di Bernini non era dunque costituita dal patrimonio di 400.000 scudi che aveva accumulato nel corso della sua fortunata carriera, ma da un'opera carica di un significato di cui il figlio biografo era perfettamente consapevole: «Volle il cavaliere in morte lasciare questa memoria a' suoi figlioli con fidecommesso perpetuo, quasi più godesse trasmettere ad essi la sua Verità, che le sue ricchezze». [97]

Non deve quindi stupire che, come Condivi, anche Baldinucci non avesse molto da dire sul piano storico-critico e, nonostante Gianlorenzo stesso avesse più volte insistito su questo, non cercasse di proporre una genealogia storico-artistica diversa da quella proposta per esempio da Bellori, una genealogia che avrebbe collegato direttamente Bernini a Michelangelo attraverso la mediazione di Annibale Carracci. [98] Era l'uomo Bernini che si trattava di esaltare, più che la sua arte. Per questo bisognava minutamente descrivere tutti i doni dei papi e del re Francia, tutte le visite, le lettere, gli onori ricevuti a Roma come a Parigi. E valeva anche la pena raccontare come nemmeno una regina come Cristina di Svezia avesse avuto un contro-dono di sufficiente valore per contraccambiare il Salvatore offertole da Gianlorenzo [99] e come egli glielo avesse allora nobilmente lasciato nel suo testamento. [100]

 

7. La Vita di Felice Contelori di Giovan Camillo Peresio

Le Vite dei famosissimi personaggi di cui ho parlato, con la straordinaria ricchezza di notizie aggiuntive che confermano o smentiscono o integrano quanto hanno scritto i loro quasi coevi biografi, possono costituire un parametro di confronto per capire meglio cosa si cela nell'ombra di Vite molto più oscure delle loro ed è proprio per questo che ho dedicato un po' di spazio ad analizzarle. I silenzi, i salti narrativi, gli accenni all'invidia e alle macchinazioni dei rivali sono, come abbiamo visto, artifici retorici ricorrenti e la loro sola presenza basta a mettere sull'avviso i ricercatori ormai avveduti e a spingerli a scavare oltre la superficie del racconto per portare alla luce i problemi sottostanti. D'altra parte, come Viviani conosceva Vasari, anche Giovanni Camillo Peresio, poeta romanesco e autore della Vita di un letterato non molto conosciuto come Felice Contelori, aveva molto probabilmente presente quel modello narrativo e, direttamente o indirettamente, era venuto a conoscenza di una Vita di Michelangelo o di Marino o di Bernini. [101]

Figlio di un giudice di Cesi trasferitosi a Roma all'inizio del XVII secolo, stando al suo biografo Contelori aveva iniziato la sua carriera come avvocato e in questa veste aveva conosciuto Maffeo Barberini. Una volta papa, questi lo aveva nominato custode della Biblioteca e dell'Archivio Vaticani, nella qual carica «si rendette informato a tal segno delle più recondite historie ecclesiastiche, e secolari, che fu reputato uno de' maggiori huomini de' suoi tempi». In questa veste aveva riordinato l'Archivio e scritto una Historia Cameralis seu de dominio et iurisdictione Sedis apostolicae Ecclesiaeque romanae in regna, provintias, civitates, castra, terras et alia loca sulle ragioni giurisdizionali della sede apostolica. [102] L'erudizione della quale aveva cominciato a dar prova con questa ed altre opere aveva fatto sì che ci si rivolgesse spesso a lui, in particolare quando si trattava di documentare i diritti giurisdizionali della Sede apostolica, per esempio sul ducato di Castro o su Ferrara e Comacchio. [103] Egli era «avido» della gloria della S. Sede - scriveva Peresio - per cui aveva fatto una «raccolta d'una quantità d'avverate notizie per isvelare la verità palliata, e reprimere le menzogne di Pietro Soave [Paolo Sarpi]», che era poi servita anche a Sforza Pallavicino per la sua storia del Concilio tridentino. Così facendo si era naturalmente scontrato con altri letterati, schierati sul fronte opposto, ed era a questo genere di inimicizie che probabilmente alludeva il suo biografo quando scriveva che uno dei «più supremi ministri» di Innocenzo X, che era di quelli «che con la rovina degli altri pensa di maggiormente fabricar se medesimo nel favore del principe», insinuò che avesse troppo potere, dal momento che non solo controllava i segreti dell'Archivio Apostolico, ma aveva addirittura fatto copiare i documenti più scottanti che «teneva riposti in più casse», quando era assolutamente disdicevole «che alle mani di un privato fossero tali scritture». Il papa si era lasciato convincere e glieli aveva fatti sequestrare. [104] Come si vede, il nuovo pontefice e i suoi ministri condividevano le preoccupazioni espresse dal Senato veneziano nei confronti dei documenti raccolti da Pinelli, e si mostravano anch'essi estremamente gelosi dei loro affari di stato.

Come Bernini anche Contelori era stato quindi vittima del cambiamento politico legato al passaggio di pontificato: finché il trono di S.Pietro era stato occupato da Urbano VIII, egli aveva goduto della sua piena fiducia e se solo quel papa fosse vissuto un po' più a lungo lo avrebbe sicuramente fatto cardinale, in riconoscimento della sua eccellenza. Il biografo non aveva dubbi, anche perché «la Fama del valore di Monsignor Contelori non solamente teneva fermo il piede nella corte di Roma, con dilatarne il grido fra letterati delle straniere provincie, ma have[va] anche posta la considerazione ne Monarchi». [105] Purtroppo però il papa era morto prima di poterlo fare. [106] e gli eredi di Contelori si dovuti accontentare di un'iscrizione sulla sua tomba con la quale lo definivano «Primariis dignitatibus proximo et idoneo». [107]

Una carriera curiale come tante altre, come si vede, non particolarmente brillante e comunque non coronata da un cappello cardinalizio. Per di più macchiata da quel sequestro delle carte d'archivio che non aveva certo smussato gli ostacoli. Tra i segni esteriori del favore dei principi il povero Peresio non poteva inoltre citare che i «domestici discorsi» con cui Urbano VIII spesso si intratteneva con lui e il permesso di trasferire al nipote la pensione ecclesiastica di cui beneficiava. Questo non era certo sufficiente a legittimare le aspirazioni all'eccellenza di Contelori e del suo biografo. Dall'esterno era però venuto l'autorevole aiuto di Giovan Pietro Bellori che, nella Nota delli musei, librerie, galerie et ornamenti di statue e pitture ne' palazzi, nelle case e ne' giardini di Roma, aveva incluso la biblioteca di monsig. Contilori «compita in ottomila et più volumi, di Iurisprudentia, di scienze et di letteratura sacra et profana, che si conserva tuttavia appresso il Sig. Abbate, oltre l'opere manoscritte di questo insigne et dottissimo Prelato, parte delle quali si trovano nella Vaticana: varie historie et trattati del Concilio di Trento, De Electione Regis Romanorum Imperatorem [sic], De numero Electorum, et altre opere della Giurisdittione della Sede Apostolica, nella quale era egli versatissimo, con repertori di grandissimo numero di Autori, nelle cui sole trascrittioni et copie spese profusamente la somma di sei mila scudi». [108] Questo importante riconoscimento permetteva a Peresio di concludere la Vita con l'elenco delle opere del suo biografato seguito da quello dei suoi estimatori: «Di quanta ponderazione siano i componimenti del Contelori - scriveva - si scorge dall'insigni autori, che l'hanno registrati con le loro pubbliche stampe», cioè Leone Allacci nelle Apes Urbanae [109] e nelle Animadversiones in Antiquitatum Etruscarum fragmentis [110]; Ludovico Giacomo di San Carlo [Louis Jacob de Saint Charles] carmelitano nella Bibliotheca Pontificia [111]; Ludovico Iacobilli nella Bibliotheca Umbriae. [112] Subito dopo aggiungeva: «Inesplicabile era la stima che faceva de' letterati e l'amore che loro portava, contribuendo una letteral communicativa di ciò, che era a sua cognizione, ed in particolare delle antiche, e recondite erudizioni, delle quali [era] abbondantissimo» e, a dimostrazione della veridicità delle sue parole, inseriva un altro elenco di dotti e delle loro opere nelle quali Contelori era citato. [113] In qualche misura questa strategia ricordava quella adottata da Marino in persona nella prima edizione della Sampogna, «nella quale gli idilli erano preceduti da ben cinque lettere, dedicate […] soprattutto a confermare con lodi altrui le altissime capacità poetiche del poeta». [114]

 

8. Da Fabiani a Leonio: Le Vite di Giovanni Giustino Ciampini

Un analogo stile tipografico sarebbe stato adottato dal biografo di Giovanni Giustino Ciampini, ufficiale della Curia romana nonché fondatore dell''Accademia dei Concili e di quella Fisico-matematica. Nel 1694, mentre il suo biografato era ancora in vita. [115], un certo Ferdinando Fabiani pubblicò un volumetto che portava il seguente titolo: Il merito applaudito e gli applausi premiati effetti riconosciuti dal dottor Ferdinando Fabiani nelle ponderazioni dell'illustrissimo e reverendissimo signore Monsig. Giovanni Ciampini romano, referendario dell'una e dell'altra Signatura. [116] Il libro, che si apriva con una celebrazione della «Tipografia» - superiore alla pittura, alla scultura e all'architettura - affidata da un lato all'immagine dell'antiporta, dall'altro al testo della prefazione, intendeva appunto «eternare le glorie» del prelato e lo faceva radunando citazioni di scritti su di lui ad opera di diverse «erudite penne». [117] Seguivano una citazione dal «Giornale de' letterati» del 1672, in cui si riferiva di «tre trombe per parlare lontano» fatte fare da Ciampini, una lettera del 1675 al Nunzio di Germania in cui si dava notizia della fondazione dell'Accademia di Historia Ecclesiastica [118], ad opera dello stesso, un ricordo di Marc'Antonio Celio inserito nel suo libro Il Fosforo, o' vero la pietra Bolognese preparata per rilucere fra l'ombre [119], un commento di Francesco Eschinardi incluso in una raccolta di suoi discorsi scientifici [120], un dispaccio spedito all'Ecc.mo sig. Antonio Loredano a Venezia nel 1681 e così via.

Qualche anno dopo questa prima impresa celebrativa, Fabiani tornava sull'argomento con un manoscritto dal titolo ancora più contorto: Lo specchio consigliero nell'imitazione maestra de maestri e scopo delle riflessioni encomiastiche, politiche e morali fatte al lume della lanterna di Diogene … nella vita dell'Ill.mo e Rev.mo signore Monsig. Giovanni Ciampini abbreviatore di Curia e referendario dell'una e l'altra Signatura. [121] Come la precedente, anche questa opera si apriva con un'antiporta illustrata, accompagnata da un motto: nell'immagine era raffigurato uno specchio riflettente la luce del sole, sul piedistallo del quale era inciso il motto «prendo luce m'illustro e rendo il lume». Nella pagina seguente se ne spiegava il significato, altrimenti un po' oscuro: «tanto opera chiunque si da ad imitare le eroiche azioni de grandi, con illuminare il proprio intelletto, con illustrarsi a i raggi di famose operazioni, e con renderne poscia ad altri il lume, ed aggevolare loro il sentiero». [122] Seguiva una vera e propria biografia di Ciampini, che costringeva Fabiani a giustificarsi avvertendo il lettore che, se di solito si celebrano i morti, «anco vivente deve essere lodato un uomo, allorché virtuosamente vive». [123] Alla luce dei molto più illustri esempi che ho appena citato, però, il fatto che il biografato fosse ancora in vita e questa dichiarazione giustificativa segnalano l'esistenza di un problema. La traccia di qualche difficoltà si ritrova nel testo stesso, là dove Fabiani ricorda che, nonostante «l'eruditissima scrittura» composta dal suo biografato a proposito della riapertura dell'antico acquedotto di Civitavecchia, «fu per allora prorogata la condotta dell'acqua, per la quale Giovanni aveva già rassegnato il suo ufficio di Maestro de Brevi di Grazia». [124] È poi una lettera indirizzata a Leibniz nel giugno 1694 a chiarire cosa fosse effettivamente successo: «Mgr Ciampini a abandonné l'entreprise de Civitavecchia. On prétend que les Génois, les Florentins, et même les Espagnols sont très contraires à cet établissement […] Il a été tant prié, sollicité et même menacé qu'enfin il a été obligé de quitter le pari». [125] La politica mercantilista degli altri sovrani rivieraschi avrebbe quindi generato una fortissima opposizione al possibile sviluppo del porto-franco pontificio e, di riflesso, una notevole ostilità nei confronti dell'autore del progetto di ripristino dell'acquedotto, la cui reputazione andava difesa. E quale maniera migliore di farlo se non descrivendolo come un eroe della cultura e della scienza, interessato solo al bene pubblico? [126] Non è da escludere, tuttavia, che le ragioni dell'opera siano anche da ricercarsi, molto banalmente, nella mancata nomina a cardinale nel corso del Concistoro del 1695, dal momento che Ciampini aveva ormai 62 anni e che il suo predecessore nella carica di Segretario dei brevi ne era uscito appunto grazie a quella promozione. [127]

Nella vita del prelato le tensioni non erano comunque mancate, come spiega un altro suo biografo molto più tardo. [128] Nel 1668 egli aveva partecipato, insieme a Francesco Nazari, matematico e lettore di filosofia alla Sapienza, e a un piccolo gruppo di altri amici, alla fondazione del «Giornale de' Letterati». [129] A favore dell'iniziativa si era molto speso il consultore del Sant'Ufficio Michelangelo Ricci - che era stato allievo di Benedetto Castello ed era in corrispondenza regolare con gli scienziati toscani e con lo stesso Leopoldo de' Medici [130] - con l'obiettivo di facilitare la comunicazione tra dotti ma anche e soprattutto di valorizzare e tutelare le «invenzioni» di scienziati ed eruditi italiani rispetto a possibili appropriazioni indebite da parte di colleghi di altri paesi. [131] Nel sostenere questa tesi, Ricci si riferiva molto probabilmente a uno spiacevole episodio avvenuto anni prima, quando alcuni scienziati francesi avevano ripetuto gli esperimenti di Torricelli e Viviani con il mercurio, senza tuttavia citarli. [132]

Il periodico romano riprendeva dunque il modello del parigino «Journal des sçavans», fondato nel 1665 su impulso di Colbert, condividendo l'intento di far conoscere «ce qui se passe de nouveau dans la République des lettres». [133] In effetti, il «Giornale» era stato fin dall'inizio in corrispondenza con il suo modello francese e con le «Philosophical Transactions» della Royal Society di Londra, e gran parte della sua attività editoriale era consistita nel rendere disponibile per il pubblico italiano le relazioni di esperienze naturali e le recensioni di libri pubblicate a Parigi o a Londra. Questo metteva i suoi redattori in contatto con il fior fiore dell'intellettualità europea dell'epoca, ampliando le loro reti di relazioni non solo culturali ma anche sociali. Tuttavia, nel 1675 Francesco Nazari aveva rotto con Tinassi, suo editore fin dall'inizio, per trasferire altrove l'impresa editoriale. Tinassi aveva però insistito con Ciampini perché una versione concorrente del «Giornale» continuasse a uscire presso di lui e questi si era lasciato facilmente convincere, «mosso non tanto dalla misericordia quanto dall'emulazione», come scriveva Fabroni. [134]

Questa rottura ha molto intrigato gli storici che se ne sono occupati, e in particolare gli storici della scienza che vi hanno visto il segno di un conflitto tra novatores e tradizionalisti. L'analisi parallela delle scelte editoriali compiute dai due periodici dopo la rottura del 1675 ha per esempio spinto J.-M. Gardair a sostenere che alla base del conflitto ci fossero ragioni epistemologiche profonde. Mentre infatti quello diretto da Nazari si mostrava particolarmente interessato alle questioni filosofiche ed epistemologiche, facendosi in qualche modo portavoce del tentativo di «sostituire l'atomismo all'aristotelismo come fondamento ufficiale della dottrina cattolica» [135], in materia di filosofia naturale quello di Ciampini si concentrava soprattutto sulle nude osservazioni astronomiche, evitando di esporsi sul rischioso piano dei più generali sistemi filosofico-naturali. [136] In realtà questo non era bastato a tenere a bada la censura, dal momento che due brevi passaggi contenuti rispettivamente nei Protocolli e nei Diari del S. Ufficio parlano di «sospensione per degni rispetti» e di «continuatio iustis de causis impedita». [137] Una recente rilettura dell'intera vicenda ha inoltre fatto emergere possibili ragioni meno scientifiche e più politico-diplomatiche, legate alle relazioni tra Roma e Parigi negli anni '70. In un momento di grave tensione tra il governo pontificio e gli ambasciatori stranieri a Roma, dovuta al diverso modo di intendere le immunità diplomatiche, i rapporti sempre più stretti tra Nazari e il cardinal d'Estrées, ministro in Roma di Luigi XIV, avevano infatti progressivamente allontanato il professore della Sapienza da Ciampini e da Ricci, decisi difensori dei diritti giurisdizionali della Santa Sede. [138] Ragioni strettamente bibliografiche ed editoriali non sono tuttavia da escludere: tutto il carico redazionale del primo «Giornale» era stato progressivamente assunto da Nazari [139], il quale però riusciva sempre meno a garantire che uscisse con periodicità regolare. I suoi lettori si lamentavano di non essere regolarmente informati di quello che di nuovo e interessante si andava pubblicando all'interno della Repubblica delle lettere [140], e il suo editore, che invece teneva molto a che il periodico assolvesse i compiti di informazione bibliografica che si era assunto, probabilmente se ne risentì fino a «disgustarsi» con lui. [141]

Su tutta questa vicenda Fabiani comunque taceva, perché anche solo l'accenno a un possibile conflitto avrebbe offuscato l'aura di incondizionato consenso e ammirazione che stava cercando di costruire intorno al suo biografato. Più distaccato, Vincenzo Leonio, autore della Vita inserita tra quelle degli Arcadi illustri, riferiva semplicemente che, essendosi Nazari «disgustato» con Tinassi, «continuò [l'opera] colle stampe del Mascardi, e d'altri a spese di Benedetto Carrara, come si dichiara al fine dell'ottavo giornale dell'anno suddetto 1675. Onde il Ciampino o che gli dispiacesse la mutazione dello stampatore, o che compatisse il danno, che ne risultava al Tinassi, fe una nuova unione di letterati amici […] tra i quali dividendo i libri secondo le materie più conformi al genio di ciascuno, procurò la continuazione colla stampa del suddetto Tinassi». [142] Molti anni dopo Fabroni aveva ripreso l'intera storia solo per aggiungervi che delle due edizioni post-1675, era stata quella di Ciampini ad avere più successo e ad essere giudicata superiore per «erudizione e dottrina». [143] Nonostante questo, le difficoltà non erano mancate, comprese quelle con la censura [144] che aveva colpito non solo il «Giornale», ma la stessa possibilità del suo direttore di dare le proprie opere alle stampe. [145] Per questa ragione nel 1681 Ciampini aveva ceduto la direzione del periodico a Francesco Maria Vettori finché nel 1683 le uscite erano cessate del tutto. [146]

Al «Giornale» di Ciampini Gardair rimprovera un eccesso di conformismo che lo avrebbe portato a non prendere posizione e a tralasciare volutamente di confrontarsi con le questioni filosofiche più scottanti per concentrarsi invece su argomenti più innocui come l'erudizione. Studi più recenti sul ruolo di Ricci quale eminenza grigia e ispiratore occulto di tutta l'iniziativa, dal 1668 al 1681 [147], di nuovo portano a rivedere questo giudizio. Più che una forma di autocensura, la prevalenza dell'informazione sul commento e le prese di posizione si doveva infatti a un preciso programma editoriale che lo stesso Ricci formulava nei termini seguenti: «Non si giudica bene mostrare parzialità, benché minima, ne' giornali». [148] E l'interesse per l'erudizione sacra e profana nasceva da quella stessa attenzione per l'osservazione diretta e il controllo delle proprie fonti, rispetto al «giogo dell'ipse dixit», che informava gli scienziati più innovatori. Ciampini era indubbiamente affascinato dalla meccanica, come scriveva Leonio: «Considerando inoltre quanto agevolmente con l'aiuto della meccanica possano rintracciarsi le materie più occulte, con le quali la natura suole operare la maggior parte dei suoi mirabili effetti, e quindi recarsi al pubblico notabili giovamenti, applicossi allo studio di essa, e fecevi in breve tal profitto» da costruire due trombe metalliche per amplificare il suono (funzionanti). [149] e progettare tutta una serie di carri semoventi (non funzionanti), costruendone ogni volta un modellino. [150] Ma la sua vera grande passione erano la storia ecclesiastica e l'antiquaria cristiana, come avrebbero dimostrato i suoi libri più importanti. E in queste ricerche egli metteva lo stesso spirito critico, la stessa attenzione per i particolari rivelatori verificati de visu che figurava nel programma dell'Accademia fisico-matematica. [151] Il suo maestro Giovanni Lucio - il dalmata Ivan Lučić - gli aveva insegnato a mettere a confronto ciò che era stato tramandato dagli storici con le immagini lasciate in eredità dagli antichi e non si era mai stancato di incoraggiare gli studiosi a perseguire questo genere di «esperimenti oculari». [152] E Ciampini stesso si faceva un vanto di non limitarsi a raccogliere tutto quello che era stato scritto su un determinato argomento, ma di mettere tutto il suo ingegno nel far parlare le cose. [153] Su questi aspetti i suoi biografi erano ricchi di particolari e di lodi. Fabiani per esempio scriveva:

«applicossi alla lettura degli scrittori Greci e Latini, si nelle materie sagre, che nelle profane; rivolgendosi alla profonda investigazione delle più singolari memorie, ed infrante reliquie degl'anni, tra le ruine de marmi, e de bronzi, recandosi presenti e familiari le scienze, l'opere e le costumanze di que' antichi maestri. Nelle interpretazioni delle cifre, geroglifici, simboli, imprese, e caratteri, e nella contemplazione de più corrosi, ed affumicati musaici, lasciò colle figure, descrizioni, e commentari i riscontri delle bellezze, potenza, vastità, valore, leggi e costumi di quella città che fu regina del mondo. Fattone accuratissimo indagatore, considerò le medaglie, l'impronte, i cammei, le statue, i bassi rilievi, e ciò che restò in avanzo della barbarie ostile, e dell'ingordigia del tempo, e ne apprese da sé la cognizione della moltitudine degli dei di que' gentili, la diversità delle cerimonie, sagrifici, ordini, sogli, magistrati, trionfi, feste, giuochi, funerali, arredi, ornamenti, e che che mai eglino usarono per legge, costume, religione. Fede ne fanno la sua Galleria, Museo, e tutto il palazzo, con ammucchiati marmi, e di ogni sorte di antiche curiosità». [154]

Leonio rincarava la dose:

«Interpretò i caratteri più difficili, l'iscrizioni più consumate dagli anni, le cifre più oscure, le medaglie, i cammei, i sigilli, le sculture, i musaici, le pitture, i bassi rilievi, e tutto ciò che ritrovò ancora esposto alla vista, o che di giorno in giorno s'andava cavando di sotterra». [155]

Toni altrettanto trionfalistici erano utilizzati per spiegare la fondazione dell'Accademia dei concili. Ne Il merito applaudito Fabiani scriveva:

«Monsig. Ciampini desideroso di virtuosi impieghi e di procurare il suo, e l'altrui profitto, fatto ancora consapevole, che il Sig. D. Tomaso Rospigliosi Nipote della felice memoria di Clemente Nono, haveva prima di morire dissegnato di mettere in piedi un'Accademia di Historia Ecclesiastica, giache altre ve n'erano per apprendere le belle lettere, e le arti nobili, si spinse con tutta l'applicazione nel 1671 di Quaresima a seguire tal traccia, animato maggiormente dal Sig. Cardinale Francesco Barberino, Mecenate de Virtuosi, e discorrendo con varij letterati, e studiosi […] nel dì finalmente de SS Apostoli Pietro e Paolo, cominciò con pochi a dar mano alla prova nel convento di S Nicola da Tolentino, abbozzandosi per così dire il disegno sin che poi si vide ridotto lo studio delle materie ecclesiastiche intorno a Concilij». [156]

Leonio ripeteva la storia quasi con le stesse parole e aggiungeva:

«Ma siccome trovò concorde ciascuno all'erezione dell'Accademia, sperimentolli altresì molto diversi nel modo, col quale intendevano di regolarla. Temendo perciò, che la varietà delle loro opinioni potesse essere d'impedimento […] unitosi con alcuni pochi al suo parere più conformi, il dì 30 Giugno 1671, nel Convento di San Niccola da Tolentino diè principio ad alcuni congressi, che servirono come di pruove; colle quali perfezionossi il premeditato disegno; talche accresciuto il numero da molti altri, che vi concorsero, finalmente fu stabilita nel Collegio detto de Propaganda Fide una nobilissima Accademia di Concilj, di Canoni, e di Teologia mistica, scolastica, e morale, la quale fin dalla sua rima origine è stata sempre una scelta Adunanza di Secolari, Religiosi, e Prelati più riguardevoli». [157]

Né l'uno né l'altro, come si vede, accennavano a rivalità, gelosie, problemi con la censura. Eppure lo stesso Ciampini, in un passaggio di Vetera Monimenta in cui nominava l'Accademia di «Storia ecclesiastica», sentiva il bisogno di sottolineare che era stata fondata da lui, anche se qualcuno aveva cercato di sottrargli la palma, attribuendola ad altri. [158]

Non tutto doveva dunque essere filato liscio come Fabiani e Leonio volevano far credere. Mentre le prime riunioni si erano tenute a San Nicola da Tolentino, già nel dicembre del 1671 il suo fondatore aveva preferito trasferire la sede dell'Accademia nel Collegio di Propaganda Fide, forse attirato dal fatto che il responsabile della Stamperia poliglotta fosse Francesco Nazari, suo socio nell'impresa del «Giornale de' letterati». [159] Su questo Fabiani taceva e Leonio glissava. A distanza di tempo e in tutt'altro clima politico-culturale, Fabroni avrebbe tuttavia sostenuto che era stato per metterla sotto la protezione di qualcuno di più potente. [160] Nell'ambiente dei letterati romani le rivalità erano, come abbiamo visto, all'ordine del giorno e alla base potevano esserci antagonismi personali oltre che divergenze di tipo culturale o di affiliazione politica. Secondo lo stesso Fabroni, infatti, la paternità dell'Accademia dei Concili era stata contestata a Ciampini dal benedettino Angelo Della Noce, vescovo di Rossano, che attribuiva a se stesso l'idea. Il fatto che Della Noce fosse stato consultore e teologo della Congregazione dell'Indice potrebbe far pensare che fosse paladino di un approccio più rispettoso della tradizione e meno filologico allo studio della storia ecclesiastica. Vicino a Ricci, Ciampini era inoltre sicuramente un rigorista - l'ambasciatore francese duca d'Estrées lo definiva addirittura «un véritable janseniste» [161] - ed è possibile che lo si sospettasse di voler utilizzare l'erudizione sacra per sostenere proposizioni sgradite a molti ambienti di Curia. [162] Tuttavia anche Della Noce faceva parte dell'entourage di Francesco Barberini e di quello della regina Cristina (fu anche ascritto all'Arcadia, che gli dedicò una Vita redatta dallo stesso Crescimbeni [163]) e pure lui era in amichevole contatto con Jean Mabillon. [164] Il personaggio era inoltre molto più complesso di quello che si potrebbe immaginare, tormentato da dubbi sulle verità della fede e incline a frequentare ambienti eterodossi. Il suo nome venne infatti evocato da Lancisi nel processo per «ateismo e propositioni empie, et eraticali», aperto contro di lui nel 1690. [165] Lo scandalo che sarebbe derivato dal coinvolgimento di un teologo della Congregazione dell'Indice in un processo per ateismo aveva suggerito «quod pro nunc supersedeat in expeditione huius causae». Col benestare del papa, il cardinale de Aguirre, appartenente al suo stesso ordine, aveva parlato con il benedettino illustrandogli la situazione e i capi d'accusa, e la sua morte, sopraggiunta pochi mesi dopo, aveva permesso di porre fine senza strepito all'intera vicenda. [166]

Dal canto suo Ciampini non era certo un emarginato e anzi nel 1690 sarebbe stato anche lui nominato consultore della congregazione concistoriale e di quella dell'Indice. [167] Lo stesso Della Noce non doveva poi essergli del tutto ostile. Leonio infatti racconta che la sua ricerca sull'uso del pane azimo nella chiesa latina era stata «ricevuta con molto applauso de' Letterati, e singolarmente di Monsignor Angelo della Noce Arcivescovo di Rossano, e del Padre Angelo Giuliani Domenicano nelle loro testimonianze per l'approvazione della stampa». [168] La congregazione dell'Indice degli ultimi anni del XVII secolo era certamente un organo meno monolitico di quanto si sia portati a credere [169], ma non è neanche da escludere che Leonio, dopo aver taciuto sul conflitto di attribuzione, volesse creare un ulteriore «effetto di concordia», sottolineando l'identità di vedute tra i due presunti rivali.

La successiva impresa di Ciampini, vale a dire la fondazione dell'Accademia fisico-matematica veniva trattata da Fabiani nei soliti termini trionfalistici e sbrigativi al tempo stesso: «Ebbe anch'egli altamente la mira d'internarsi nelle curiose, ed ardue speculazioni delle naturali operazioni, e per raccoglierle e manifestarle al mondo, fondò in propria casa un'Accademia di naturali esperienze col nome di fisico-matematica nell'anno 1676, in cui era prefisso l'oggetto di scrutinare le qualità, e proprietà di quanto la natura produce, e con sue notabili spese se ne sono sempre pratticate l'esperienze». [170]

Di nuovo non si menzionavano difficoltà o resistenze. Eppure molti anni più tardi Fabroni avrebbe commentato che non appena Ciampini si era mosso subito aveva incontrato oppositori, i quali erano andati dicendo che quel tipo di esperienze erano di per sé vane e comunque indegne di un uomo che si era dedicato alla Chiesa. Aveva quindi deciso di ritirarsi per un po' di tempo fino a che le chiacchiere non si fossero placate. [171] L'arcade Leonio era altrettanto reticente di Fabiani:

«Fondò ancora sotto la protezione della gloriosa regina di Svezia un Accademia di naturali sperimenti, e matematiche dimostrazioni, che perciò fu poi appellata Fisicomatematica. Dopo alcuni congressi tenuti sopra il modo col quale dovea regolarsi, il dì 6 Luglio 1677 fu stabilito, che si radunassero gli Accademici nella sala del suo palazzo, quando però le circostanze di qualche esperienza non avessero necessariamente richiesto altro luogo: che le materie intorno alla quali dovean raggirarsi i loro esercizj, fossero le Anatomiche, le Filosofiche, le Matematiche, e le Meccaniche». [172]

Nessun accenno a resistenze, mugugni, opposizioni. Ma Leonio andava oltre e per legittimare ulteriormente l'Accademia le attribuiva una serie di risultati che in realtà non le appartenevano o le appartenevano solo in parte. [173]:

«In essa furono fatte molte osservazioni, ch'erano già state, o furono poi pubblicate colle stampe da i loro autori ]in diversi trattati, e spezialmente da Gio. Alfonso Borelli De motu animalium [1680-81]; da Tommaso Petrucci in Spicilegio anatomico de structura, & usu capsularum renalium [1680]; da Lucantonio Porzio De Fontibus [1681]; da Raffello Fabbretti De Aquis et aquaeductibus veteribus Romae [1680]; da Paolo Manfredi De novis observationibus circa oculum & aurem [1674]; da Matteo Campani De novis experimentis physicomechanicis & c. [1666]; del medesimo De horologio solo naturae motu, atque ingenio dimetiente momenta temporis [1677]; da Francesco Brunacci e Francesco Maria Onorati sotto i finti nomi anagrammatici di Cursinus Francobacci e d'Africano Scirota Romano Ad Placidianam Doctrinam additamenta excerpta ex tertio libro astronomicarum rerum [1675]; dall'istesso Brunacci unitamente con Marcantonio Cellio nell'Osservazione dell'Ecclisse lunare del dì 25 Aprile 1679; dal padre Francesco Eschinardi negli atti di questa Accademia sotto il titolo di Ragguagli dati ad un amico in Parigi [1680], ch'era Gio. Domenico Casini; ne' Discorsi [1681] recitati in questa stessa Accademia, e dedicati a Francesco Redi; nel trattato De cursu physicomathematico [1689], e nell'altro De impetu [1684]; da Giuseppe Terzj De curiositatibus physicis [1686]; da Francesco d'Onofri De abortu bicorporeo [1691]; da Urbano Davisio [Urbano d'Aviso /Buonardo Savi] De Fontium, et fluminorum [fluviorum] origine [???]; dal predetto Marcantonio Cellio Del Fosforo, o pietra bolognese [1680]; dal medesimo Del nuovo modo di trasportare qual si sia figura disegnata in carta, mediante i raggi solari riflessi in altra carta anche da chi non sa di disegno [1686]; e parimenti dal medesimo Dell'osservazioni della Cometa degli anni 1681 e 1682; da Giuseppe Dionisio Ponthio […] De Cometicis observationibus habitis ad Academia physicomathematica annis 1680. 1681. Dal padre Vincenzo Maria Coronelli nel Globo celeste sotto le figure della libra, e della vergine; da Paolo Boccone nell'Osservazioni naturali [1684]; da Francesco Minniti nella Relazione d'osservazioni fatte, e da farsi nell'Accademia Fisicomatematica; da Cornelio Meyer ne' Nuovi ritrovamenti [1689]. Qui […] risolvettero importantissimi dubbj […] molti altri chiarissimi letterati, e massimamente Vitale Giordani, Giovanni Lucj, Girolamo Toschi, Francesco Serra, Filippo Buonarroti, Domenico Quarteroni, Bartolommeo Nappini, il padre Antonio Baldigiani gesuita, Agostino Fabri, Giuseppe Teutonico, Francesco Bianchini, ora cameriere d'onore del papa, Gio. Michele Milani, Antonio Oliva, Pietro Marcellino Luccj, Giorgio Baglivi, Adriano Azout, Godefrido Guglielmo Leibnizio […] Giuseppe Campani, Carlo Tortoni […] e l'Hombergh Indiano […] Pietro Celebrini, Paolo Antonisio, l'Anonimo Filarete, e il mentovato Giuseppe Campani, il quale arrivò a fabbricare cannochiali lunghi dugento cinque palmi romani che diedero occasione a Gio. Domenico Casini nel Regio Osservatorio di Parigi di fare nuovi scoprimenti in Cielo […] comunicavansi con lettere dall'istesso Casini, da Geminiano Montanari, dal Padre Poison, e da altri insigni letterati le loro nuove osservazioni». [174]

L'«appropriazione indebita» più clamorosa era quella che riguardava Gio Alfonso Borelli, che aveva partecipato solo a un paio di riunioni dell'Accademia, certo non abbastanza da poter ascrivere a quell'ambiente la pubblicazione del De motu animalium [1680-81]. [175] Ma anche diverse altre opere, come per esempio il trattato De novis observationibus circa oculum & aurem di Paolo Manfredi [176] o quello De novis experimentis physicomechanicis & c. di Matteo Campani [177], pubblicati prima che l'Accademia iniziasse i suoi lavori, non erano riconducibili all'iniziativa ciampiniana.

La più grande e certamente più incontestata opera di Ciampini era comunque stata la costituzione di un «museo» di reperti archeologici con annessa biblioteca di più di 7.000 volumi e centinaia di codici manoscritti anche molto antichi. A questo proposito Fabiani, nel solito stile enfatico e ampolloso, scriveva:

«eresse una famosa biblioteca, non solo di rarissime opere stampate, ma anche di manoscritti, in cui ogni studioso desiderio trovava il suo pabolo. Era questo il suo provedimento per condursi all'alte imprese, alle quali aspirava la nobiltà del suo ingegno; ne lo ritardava la considerazione de gravi dispendi nel provedersi de volumi delle più peregrine materie […]. Non si vedeva in sua casa la gran copia di libri per vana pompa, ne vi stavano per essere corrosi dalla polvere, mentre tutto giorno gli erano per le mani, e tra essi stabiliva le sue anticamere, e luogo di continuo trattenimento, giachè lo studio era la meta de suoi desideri». [178]

Un riconoscimento ben più importante gli fu tributato da Carlo Bartolomeo Piazza che ritenne di dover contribuire alla glorificazione dell'ancora vivente Ciampini, includendo le Accademie e la biblioteca da lui fondate nel trattato sulle Accademie, e Librerie celebri di Roma, pubblicato nel 1698 in appendice al suo trattato sulle opere pie di Roma. [179] Dopo aver lodato mons. Ciampini «per il suo zelo magnanimo di promuovere senza risparmio di vigilie, d'industrie, di stenti, di sudori, dispendij, e di benefica sollecitudine a benefizio pubblico, & ornamento di Roma, le scienze, & arti mecaniche, e liberali», Piazza continuava dicendo che tutto il suo palazzo era

«una intiera libreria eloquente» perché in esso parlavano «i marmi, e i sassi, e i tronchi, e i macigni, e le statue sfigurate dal tempo, e le iscrizioni mutilate da barbari, e le teste, piedi, braccia, busti, ancor preziosi nelle loro sciagure; e i piedistalli guasti, e i fusti delle colonne infrante, e i vasi, e tavole di marmo di cave peregrine; e i camei d'antico, & ingegnoso lavoro […] Alla curiosa libreria de' marmi […] s'aggiunge[va] una copiosa, e fornitissima biblioteca, alla quale da[va] un celebre ornamento lo stesso letteratissimo prelato […]. Prerogativa altresì singolare di quest'amena libreria egli [era] il copioso numero de' volumi manoscritti di curiose relazioni, & avvenimenti strani, e cronologici di molti anni, a quali come a materie geniali, e di fecondo, e grazioso intrattenimento delle oneste, e virtuose conversazioni, e congresso haveva applicato l'animo nel congregarle».

A questo nucleo originario si erano poi aggiunte le raccolte del card. Giovanni Slusio e i manoscritti del capitolo e seminario di Benevento, distrutto dal terremoto. Ma ciò che la rendeva «celebre al mondo» era «che sta[va] esposta con un continuo flusso, e riflusso de' letterati, co' quali egli [Ciampini] di continuo tratta[va], e conversa[va]». Tutte le sere tranne il mercoledì e il sabato vi si riuniva «una civile e letteraria conversazione di persone dotte». Inoltre Ciampini vi aveva aggiunto «il suo museo lapicidario, dovizioso di molte statue, e marmi […] imitando in ciò non solamente i spiriti magnanimi degli Augusti Gentili, ma de' sovrani vicari di Christo, e di molti illustri personaggi della Chiesa». [180] Con queste parole Piazza non faceva d'altronde che riprendere i «servizi di identificazione» tributati a Ciampini da diversi letterati suoi colleghi, a cominciare da Leibniz [181], tutti profondamente colpiti dalla liberalità con la quale egli ammetteva visitatori in casa propria. Qualche anno dopo anche Leonio sottolineava la ricchezza di queste collezioni:

«Raccolse in [casa sua] primieramente una Libreria assai riguardevole non solo per la copia di sceltissimi volumi d'antichi, e moderni Autori sopra il numero di settemila, e tra questi circa ottocento codici manuscritti: ma ancora per l'antichità e la rarità di molti di essi, essendo stati scritti alcuni intorno al decimo secolo, alcuni intorno all'ottavo, ed alcuni intorno al sesto. Oltre alla Libreria vi si accrebbe un sì prodigioso Museo d'ogni sorta d'antichità sagra, e profana […] che non bastando a capirlo le stanze tutte del suo Palazzo, fino gli anditi, le scale, e gli androni erano ripieni d'iscrizioni, di busti, di statue, e d'infiniti altri laceri avanzi della barbarie, e degli anni». [182]

Il tutto era naturalmente avvenuto «senza alcun risparmio né di spesa, né di fatica» [183], secondo la migliore tradizione di nobile liberalità e di splendore. Nella lapide apposta sulla sua tomba in S. Lorenzo in Damaso gli eredi potevano dunque scrivere:

Ioannes Iustinus Ciampinus Romanus / pluribus in romana curia praelaturis auctus / arduis pro rep. christiana consultationibus / adhibitus / bonis artibus promovendis natus / moribus placidis et liberalibus integrisque / in omnes officiosus et beneficentissimus / eruditione sacra et profana / per totum orbem celeberrimus / monumentis litterariis praeclarissimis / impensis maximis editis / academiarum plurimum institutor et sator / et cultor / munificentissimus incomparabilisque / promotor defensor et mecaenas perpetuus / eruditorum / quos futuros similes sibi / ex asse haeredes fecit.

 

9. L'Arcade Crescimbeni e la Vita di Giovanni Maria Lancisi Cameriere segreto e Medico del Papa Clemente XI

L'ipotesi che le biografie uscite immediatamente a ridosso della morte del biografato abbiano intenti apologetici oltre che celebrativi è rafforzata, ancora una volta, dai silenzi e dalle omissioni che caratterizzano Vita di Lancisi, pubblicata da Crescimbeni nel 1721, cioè solo un anno dopo la scomparsa dell'illustre medico. Pur essendo lontanissimo da Marino per epoca, formazione, interessi, questi aveva infatti vissuto un'esperienza simile a quella del poeta e identica a quella di Baiacca era la scelta comunicativa operata da Crescimbeni. Giovanni Maria Lancisi era nato a Roma nel 1654, quasi vent'anni dopo la morte del poeta, ed era morto circa un secolo dopo di lui. Inoltre era un medico e si interessava all'arte solo per quel tanto che era indispensabile al buon nome di una persona di successo che vivesse a Roma all'inizio del XVIII secolo. Anch'egli era però incorso nelle maglie dell'Inquisizione e anch'egli era riuscito a far mettere tutto a tacere. Né lui né i suoi giudici avevano infatti interesse a che l'inchiesta diventasse di dominio pubblico e la tennero segreta al punto che non una cronaca né una lettera ne parlarono. Scrivendo trent'anni dopo, subito dopo la sua morte, il suo biografo Crescimbeni poté quindi ignorare tranquillamente l'episodio e narrare di un semplice momentaneo rovescio di fortuna, dovuto al cambiamento di pontificato. E' ovviamente possibile che, a distanza di tanto tempo, il biografo ignorasse del tutto la vicenda, e tuttavia il salto narrativo è abbastanza brusco da suggerire piuttosto una reticenza voluta:

«Morto il Papa, e fatto ritorno allo stato privato il Lancisi trovossi in grande angustia di pensieri; imperciocché dall'un de' lati si vedeva messo in riposo col Canonicato conferitogli, il che parevagli cosa non pure affatto aliena dal suo fine, ma disconvenevole alla sua ancor fresca età; e siccome ben conosceva l'obbligo, che debbe avere un'Ecclesiastico [sic] di servire unicamente a Dio; così non sapeva accomodarsi allo stile comune di sostenere egualmente il peso della Chiesa, e quello delle secolari professioni. Dall'altro considerava, che Iddio non invano gli aveva dato il talento, e aveva permesso, che l'impiegasse nella professione di Medico […] Ben ponderate adunque l'une, e l'altre ragioni, e consigliatosi altresì coll'insigne, ed esemplarissimo Cardinale di Colleredo suo parzial Signore […] fatta rinunzia del Canonicato, ripigliò le fatiche della Medicina, pubblicamente, e indefessamente professandola». [184]

La Vita nascondeva dunque il fatto che a pochi mesi dalla morte di Innocenzo XI Lancisi era stato accusato di «ateismo e propositioni empie, et ereticali» [185] e lo faceva ricorrendo allo stesso artificio retorico usato da Baiacca, vale a dire chiamando in causa un «insigne, ed esemplarissimo Cardinale», la immacolata autorità del quale non poteva che riverberarsi sulla reputazione del suo protetto. Il medico se l'era comunque cavata con un semplice ammonimento, anche grazie al fatto che era riuscito a spostare l'attenzione sul benedettino Angelo Della Noce cioè, come si è visto, su un consultore dello congregazione dell'Indice. Lo scandalo che ne sarebbe derivato aveva suggerito di sospendere la causa e la morte di Dalla Noce le aveva posto definitivamente termine. [186] Tuttavia, la carriera di Lancisi ne aveva risentito.

Superato questo inciampo, Crescimbeni poteva reimmettere la vita del medico romano sui binari che, senza ulteriori scosse, lo avrebbero portato al successo. Il biografo spiegava quindi come, di nuovo chiamato ad assistere pontefici, Lancisi avesse coniugato il prestigio professionale presso le maggiori casate di Roma con il plauso universale della Repubblica delle lettere e come tutte le più rinomate società scientifiche d'Europa - dall'Accademia delle Scienze di Bologna alla Royal Society di Londra alla Società Leopoldina dei Curiosi della natura di Augusta - lo avessero voluto tra i propri membri. Per dare maggiore autorevolezza al proprio discorso Crescimbeni aggiungeva poi una lunga lista di illustri scienziati del tempo che lo citavano nelle proprie opere e riportava per intero lunghi brani di lettere elogiative indirizzate a Lancisi da personaggi nobilissimi per sangue o per ingegno e dottrina. Il climax dell'opera si raggiungeva tuttavia nel momento in cui si riportavano praticamente per intero l'atto di donazione della biblioteca lancisiana all'Ospedale di S. Spirito in Sassia e il testamento. Manifestando anche in questo la propria grandezza Lancisi aveva infatti dedicato «non piccola parte» delle ricchezze accumulate nel servizio dei papi «in mettere insieme una sceltissima e copiosissima Libreria, non pur di Opere attinenti alla Filosofia, e alla Medicina, scienze da lui principalmente professate, ma d'ogni altro genere, essendo egli in ogni scienza versatissimo […] però temendo che una sì bella raccolta di libri con tanta spesa, e fatica messa insieme, non sfosse un giorno parata male, siccome per lo più addiviene alle Librerie de' Letterati, che si veggono giornalmente per le panche de' pubblici Librai dissipate, e disperse, si avvisò di prendervi provvedimento mentre viveva». [187] Nel 1711 aveva dunque stipulato un atto formale di donazione della propria «insigne Libreria a favore del Venerabile Archiospedale di S. Spirito in Sassia di Roma» e poco dopo aveva ottenuto dal papa un breve con il quale si approvava la transazione e si comminava la scomunica a chiunque avesse osato sottrarre anche un solo libro alla biblioteca. [188] Come Ulisse Aldrovandi, del cui testamento era probabilmente a conoscenza [189], anche Lancisi aveva voluto personalmente curare l'allestimento fisico della biblioteca, che era stata alloggiata in due stanze, nobilmente adornate e minuziosamente descritte da Crescimbeni. Non ancora soddisfatto il medico aveva poi deciso di lasciare tutti i suoi beni allo stesso Ospedale perché costruisse una nuova ala da destinare alle donne, «secondo un pieno sistema da lui medesimo disteso, ed inserito nello stesso testamento». [190] Contro Lancisi circolava tuttavia un'altra voce infamante, che andava decisamente smentita. Questa non era maldicenza che si potesse fronteggiare passandola sotto silenzio, ma doveva invece essere aggredita di petto. «Alcuni - scriveva il biografo - poco informati delle rare qualità di Monsig. Lancisi anche nel morale, si avanzavano a crederlo troppo inclinato alla parsimonia, argomentandolo dalla frugalità del suo vitto, e del resto del suo trattamento, privo d'ogni soverchio e voluttuoso». [191] Si diceva infatti che fosse particolarmente avaro e questo semplice fatto, da solo, avrebbe messo in crisi l'immagine di nobiltà che il suo biografo gli stava cucendo addosso e che non poteva che essere fondata sulla liberalità. Crescimbeni si affrettava quindi a spiegare che: «non solo gratuitamente, e con singolar carità visitava qualunque povero infermo […] ma in aiuto, e sollievo de' bisognosi, e in in [sic] particolare de' professori di lettere di continuo s'adoperava appresso il Regnante Sommo Pontefice implorando loro clemenza, e vantaggio, quasi fosse egli stato il lor Generale Procuratore: anzi questo era il suo forte, il quale certamente sarebbe allignato in un'avaro [sic), pel timore di non pregiudicare a' proprj interessi col promuover gli altrui». [192] Lancisi non era dunque avaro e nemmeno tanto parsimonioso, come dimostravano i ricchissimi doni da lui offerti a diverse chiese di Roma e di Urbino. [193] 10. Un modello condiviso Al di là delle indubbie differenze di situazione e di contesto tutte queste Vite hanno dunque molti punti in comune: l'andamento agiografico, la rottura dell'equilibrio causata dalle macchinazioni degli emuli, il trionfo finale in cui tutto si risolve. Anche nel caso di un fallimento come è quello di Contelori, o di un semi-fallimento, quale quello di Ciampini, il biografo si sforza infatti di organizzare i suoi argomenti in modo da rispettare uno schema narrativo noto, che è poi quello dei romanzi di avventura o dei racconti di fate [194]: fin dalla nascita l'eroe mostra segni inequivocabili della sua eccezionalità, lungo il percorso deve affrontare gravi ostacoli, li supera e finalmente riceve la gloria e gli onori che merita. A differenza che nei romanzi, tuttavia, sugli ostacoli non si deve indugiare, ma anzi vanno possibilmente nascosti sotto un velo formato da silenzi, salti narrativi, semplici accenni, mezze parole. Solo nel caso in cui l'incidente sia talmente di dominio pubblico da non poterlo ignorare, si può affrontarlo apertamente, cercando di tramutarlo nell'ennesima prova che l'eroe supera trionfalmente prima di giungere alla meta.

È probabile che soprattutto i biografi più tardi fossero a conoscenza dei modelli più antichi e avessero chiari in mente i modelli cui riferirsi. Ma pure in assenza di una conoscenza diretta, il ricorso a uno schema narrativo consolidato e ben presente nella letteratura dell'epoca basta a spiegare la sua diffusione in ambienti diversi e la sua adozione da parte di autori che comunque condividevano una stessa formazione scolastica. E anche il semplice fatto di raccontare tante vite necessariamente singolari ricorrendo a un modello condiviso e da tutti riconoscibile contribuiva a creare quel senso di somiglianza di famiglia che univa tra loro le persone eccellenti.

 


Note

1. Giovanni Battista Manso, Vita di Torquato Tasso, Venezia, Deuchino, 1621.

2. Cfr. Philippe Lejeune, Le pacte autobiographique, Paris, Seuil, 1975; Id., Je est un autre: l'autobiographie de la littérature aux médias, Paris, Seuil, 1980; Carolyn Barros, Autobiography: Narrative of Transformation, Ann Arbor, University of Michigan Press,1998.

3. Roma, Blado. Sulla figura di Condivi cfr. Michael Hirst, Introduction, in Ascanio Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, a cura di Giovanni Nencioni, Firenze, S.P.E.S., 1998, pp. I-XX.

4. Condivi, Vita, cit., Ai lettori, c. n. n.

5. Hirst, Introduction, cit. pp. X-XI.

6. «Ma se il thesoro lasciatovi da Giulio acciò si collocassero le sue reliquie nel vaso dei vostri intagli non è stato bastante a far che gli osserviate la promessa, che posso però isperar io? Benché non l'ingratitudine, non l'avaritia di voi, pittor magno, ma la gratia et il merito del Pastor massimo è di ciò cagione […] In questo mezzo il mancar voi del debito vi si attribuisce per furto» [cfr. Paola Barocchi, Renzo Ristori (a cura di), Il carteggio di Michelangelo, vol. IV, Firenze, S.P.E.S., 1979, p. 217; Filippo Tuena, La passione dell'error mio: il carteggio di Michelangelo: lettere scelte, Roma, Fazi editore, 2002, p. 49].

7. Condivi, Vita, cit., c. 26r.

8. Ivi, cc. 36v-37r.

9. Paolo Gualdo, Vita Ioannis Vincentii Pinelli, patricii genuensis, Colonia, 1607. Su Pinelli, la sua biblioteca e il suo cenacolo erudito cfr. Massimo Bucciantini, Galileo e Keplero. Filosofia, cosmologia e teologia nell'Età della Controriforma, Bologna, Il Mulino, 2003, in particolare pp. 30-45. Sulla biblioteca Pinelli cfr. Angela Nuovo, Per una storia della biblioteca Pinelli, in Una mente colorata. Studi in onore di Attilio Mauro Caproni per i suoi 65 anni, a cura di C. Cavallaro, tomo III, Manziana, Vecchiarelli Editore, 2007, pp. 1175-1197; Ead., La struttura bibliografica della biblioteca di Gian Vincenzo Pinelli (1535-1601), in Le biblioteche private come paradigma bibliografico, a cura di Fiammetta Sabba, Bulzoni, Roma, 2008, pp. 57-78.

10. Gualdo, Vita, cit. pp. 109-110.

11. Ivi, pp.111-113.

12. Ivi, p. 113.

13. Traicté des plus belles bibliothèques publiques et particulieres qui ont esté, & qui sont à présent dans le monde, Paris, Rolet le Duc, 1644, pp. 167-175.

14. Gualdo, Vita, cit., 1607, p. 46: «Domi Ioh. Vincentius quotidie conveniebatur ab omnibus quotquot Patavij litterarum ingenuarum ornamento nobiles erant, neque ab his solum, sed et ad advenis, qui eo ventitare gloriosum sibi ducebant» (trad. di Barbara Carabotta).

15. Ivi, 1607, pp. 52-55.

16. Ivi, p. 91: «Liberalitas etiam, quae magna in viro nobile laus, in Pinello non minimum nituit, cum vel beneficia minima rependeret maximis, vel dignos conquireret studiose, in quos aliquid conferret» (trad. di Barbara Carabotta).

17. Giovanni Gioviano Pontano, Trattati delle virtù sociali: De Liberalitate, De Beneficentia, De Magnificentia, De Splendore, De Conviventia, a cura di Francesco Tateo, Roma, Ed. dell'Ateneo, 1965.

18. Gualdo, Vita, cit., p. 94: «Hinc fiebat ut in probos et litterarum amantes, inopes tamen, si quando incidisset, nihil relinqueret intentatum quo eis opitularetur. Heac demum germana vocanda est liberalitas, cui non maiora praemia proposita sunt, sed ingenua virtutis forma, sed candidus bonorum amor» (trad. di Barbara Carabotta).

19. Lettere d'uomini illustri, che fiorirono nel principio del secolo decimosettimo, Venezia, Baglioni, 1744, p. 468, lettera di Mercuriale a Gualdo del 4 mag. 1604.

20. Importante ufficio della Curia romana che all'epoca era venale.

21. Lettere d'uomini illustri, cit., p. 469, lettera cit.

22. Saverio Ricci, Giordano Bruno nell'Europa del Cinquecento, Roma, Salerno, 2000, passim, ma in particolare pp. 470-471.

23. Gino Benzoni, Jacopo Corbinelli, in «Dizionario biografico degli italiani», vol. 28, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1983.

24. Ricci, Giordano Bruno, cit., pp. 395-196.

25. Benzoni, Corbinelli, cit.

26. Bucciantini, Galileo e Keplero, cit., pp. 32-33.

27. Maurizio Slawinski, Agiografie Mariniane, in «Studi secenteschi», 29 (1988), pp. 19-79. Non è del tutto d'accordo Giulia Raboni, Geografie marinane. Note e discussioni sulle biografie seicentesche del Marino, in «Rivista di letteratura italiana», IX (1991), 1-2, pp. 295-311, che tuttavia riconosce la differenza rispetto al modello storico-artistico.

28. Slawinski, Agiografie Mariniane, cit., p. 19.

29. Nicolai Ruscae … vita et mors, Como, Turato, 1621; cfr. anche Slawinski, Agiografie Mariniane, cit., p. 19.

30. Ivi, p. 20; Clizia Carminati, Vita e morte del Cavalier Marino, Bologna, I libri di Emil, 2011. Cfr. anche Giulia Raboni, Geografie marinane, cit.; Eraldo Bellini, Umanisti e lincei: letteratura e scienza a Roma nell'età di Galileo, Padova, Antenore, 1997, pp. 97-113. A questi saggi sono debitrice per le argomentazioni che seguono.

31. La cui dettagliata descrizione, ad opera dello stesso Baiacca, era pubblicata in appendice alla Vita: cfr. Carminati, Vita e morte, cit., p. 39. Sullo stesso evento vene peraltro pubblicato un secondo resoconto a opera di Flavio Fieschi, seguito dall'orazione funebre pronunciata in quell'occasione da Girolamo Rocco (Relazione della pompa funerale fatta dall'Accademia degli Humoristi di Roma. Per la morte del cavalier Giovanni Battista Marino. Con l'orazione recitata in loda di lui, Venezia, Sarzina, 1626): cfr. Carminati, Vita e morte, cit., pp. 40-42.

32. Ivi, p. 11.

33. Che non solo si era spento circondato da padri teatini e santi libri, ma aveva anche insistito perché si bruciassero tutte le sue opere profane: Ivi, p. 22.

34. Clizia Carminati, Giovan Battista Marino tra Inquisizione e censura, Roma-Padova, Antenore, 2008, pp. 13-14.

35. Clizia Carminati, Giovan Battista Marino, cit., pp. 185-197 e Ead., Vita e morte, cit., p. 11-12.

36. Giovanni Battista Baiacca, Vita del cavalier Marino, in A. Solerti, Autobiografie e vite de' maggiori scrittori italiani fino al secolo decimottavo, Milano, Albrighi, Segati & C., 1903, pp. 451-480, p. 459.

37. Ivi, p. 461.

38. Ivi, p. 462.

39. Slawinski, Agiografie Mariniane, cit., p. 33.

40. Baiacca, Vita, cit., p. 464.

41. Ivi, p. 477.

42. Ivi, p. 480.

43. Raboni, Geografie marinane, cit.; Carminati, Vita e morte, cit.

44. Camola, Breve racconto della Vita del Sig. Cavalier Marino, Roma, Mascardi, 1633, pp. 3-4.

45. Ivi, p. 6.

46. Ivi, p. 11.

47. Ivi, p. 26.

48. Ivi, p. 18.

49. Ivi, p. 24.

50. Ivi, p. 25.

51. Venezia, Sarzina, 1633.

52. Slawinski, Agiografie Mariniane, cit., p. 52.

53. Ivi, p. 53.

54. Vita del Cavalier Marino, apparsa in appendice alla Strage degli Innocenti, Venezia, Scaglia, 1633.

55. Slawinski, Agiografie Mariniane, cit., p. 61.

56. Ibid.

57. La Vita del signor Galileo Galilei di N. Gherardini verrà pubblicata in Giovanni Targioni Tozzetti, Notizie degli aggradimenti delle scienze fisiche accaduti in Toscana nel corso di anni LX del secolo XVII, 3 voll., Firenze, 1780.

58. Salvino Salvini, Fasti consolari dell'Accademia fiorentina, Firenze, Tartini e Franchi, 1717, pp. 397-431 (ed. digitale a cura del Museo Galileo, http://bibdig.museogalileo.it/rd/bdv?/bdviewer/bid=0000000961906#) .

59. Vincenzo Viviani, Racconto istorico della vita di Galileo, in Salvini, Fasti consolari, cit., p. 398. Sulla somiglianza tra i due passi ha già attirato l'attenzione Michael Segre, Vite di scienziati, vite di artisti, in Firenze milleseicentoquaranta: arti, lettere, musica, scienza, a cura di Elena Fumagalli, Alessandro Nova, Massimiliano Rossi, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 37-45, p. 39.

60. Vasari, Vite, cit., vol. II, Giuntina, p. 96.

61. Notizie de professori del disegno da Cimabue in qua, Firenze, Franchi, 1681.

62. Michael Segre, Viviani's Life of Galileo, in «Isis», 80, n. 2 (1989), pp. 206-231, p. 219.

63. Pubblicando il Racconto istorico, Salvini avrebbe poi corretto la data, anticipandola a quella che è oggi comunemente accettata cioè il 15 febbraio 1564. Per l'importanza attribuita alla data di nascita e all'oroscopo nelle biografie rinascimentali cfr. Ernst Kris, Otto Kurz, Die Legende vom Künstler: Ein historischer Versuch, Vienna, Krystall Verlag, 1934, (tr. it. La leggenda dell'artista, Torino, Bollati Boringhieri, 1989).

64. Segre, Viviani's Life of Galileo, cit., pp. 221-222.

65. Viviani, Racconto istorico, cit., p. 607, 243-44.

66. Ivi, p. 609, 330-335.

67. Ivi, pp. 625-26, 855-860.

68. Ivi, p. 624, 808-10.

69. Ivi, p. 607, 261.

70. Ivi, p. 609, 336-39.

71. Ivi, p. 611, 395-401.

72. Dopo la condanna, il Granduca di Toscana continuò a manifestargli amicizia, ma solo in privato, evitando invece di compromettersi in pubblico: cfr. Maurizio Torrini, «Che il mio nome non si estingua». La morte di Galileo e le sorti della scienza, in Firenze milleseicentoquaranta, cit., pp. 15-36.

73. Viviani, Racconto istorico, cit., pp. 618-19, 622-29.

74. Ivi, p. 629, 944-55. Sull'inesattezza di questo e di altri ricordi cfr. Segre, Viviani's Life of Galileo, cit., p. 227.

75. Sul concetto di «servizio di identificazione» (marking service) cfr. Mary Douglas, Baron Isherwood, Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consumo, Bologna, Il Mulino, 1996.

76. Viviani, Racconto istorico, cit., pp. 611-12, 402-04.

77. Ivi, p. 615, 527-28.

78. Ivi, p. 629, 944-55.

79. Ivi, p. 606, 220-21.

80. Ivi, p. 608, 288-98.

81. Ivi, pp. 615-16, 529-42.

82. Ivi, p. 617, 577-82.

83. Tomaso Montanari, At the Margins of the Historiography of Art: The Vite of Bernini between Autobiography and Apologia, in M Delbeke, E. Levy, S.F. Ostrow (eds.), Bernini's Biographies. Critical Essays, University Park, Pennsylvania State University Press, 2006, pp. 73-109, pp. 74-77.

84. Sulla centralità di questa questione rispetto all'intera Vita cfr. Montanari, At the Margins, cit., p. 88.

85. Ivi, p. 81.

86. Filippo Baldinucci, Vita del cavaliere Gio. Lorenzo Bernino, scultore, architetto, e pittore, Firenze, Vangelisti, 1682, p. 6.

87. Ivi, p. 10.

88. Ivi, p. 11.

89. Ivi, p. 78.

90. Eraldo Bellini, Le biografie di Bernini e la cultura romana del Seicento, in Id., Stili di pensiero nel Seicento italiano: Galileo, i Lincei, i Barberini, Pisa, ETS, 2009, pp. 159-201, p. 164.

91. Montanari, At the Margins, cit., p. 85.

92. Ivi, p. 88.

93. Baldinucci, Vita, cit., p. 10.

94. Ivi, p. 14.

95. Ivi, pp. 23-24.

96. Mi riferisco alla Verità svelata dal tempo, ora alla Galleria Borghese.

97. Domenico Bernini, Vita del cavalier Gio Lorenzo Bernino, Todi, Ediart, 1999 (ristampa anast. dell'edizione di Roma, Bernabò, 1713), p. 81.

98. L'assenza di un simile disegno è giustamente sottolineata da Montanari, At the margins, cit. pp. 100-101.

99. Baldinucci, Vita, cit., p. 59.

100. Ivi, p. 63.

101. Ferdinando Fabiani, autore, come vedremo, di una Vita di Giovanni Ciampini, conosceva per esempio la Vita del cav. Marino di Giovan Francesco Loredano: cfr. BAV, Vat.Lat. 11739, Dottor Ferdinando Fabiani, Lo specchio consigliero nell'imitazione maestra de maestri e scopo delle riflessioni encomiastiche, politiche e morali fatte al lume della lanterna di Diogene … nella vita dell'Ill.mo e Rev.mo signore Mons Giovanni Ciampini abbreviatore di Curia e referendario dell'una e l'altra Signatura, s.d. (ma 1697), s. l., p. 113.

102. Gio Camillo Peresio, Vita di Monsig. Felice Contelori, Roma, de' Lazari, 1684, p. 9.

103. Ivi, p. 11.

104. Ivi, pp. 14-15.

105. Ivi, p. 13.

106. Ivi, p. 12.

107. Ivi, p. 21.

108. Roma, Deversin e Cesaretti, 1664, p. 20, 9-28.

109. Roma, Grignano, 1633.

110. Paris, Cramoisy, 1640.

111. Lyon, Boissat & Anisson,1643.

112. Foligno, Alterio, 1658; Peresio, Vita, cit., pp. 25-26.

113. Cesare Rasponi, De basilica et patriarchio lateranensi libri quattuor, Roma, de Lazaris, 1656; Ferdinando Ughelli, Italia sacra sive de episcopis italiae et insularum adiacentium, Roma, Deversin, 1659; Giacomo Coelli, Notitia Cardinalatus, Roma, de Lazaris, 1653; Carlo Cartari, Syllabum Advocatorum Sacri Consistori, Roma, Masotto, 1656; Id., La Rosa d'oro pontificia. Racconto istorico, Roma, Tip. Camerale, 1681; Giovanni Battista Coccino, Decisiones S. Rotae Romanae coram Reverendissimo Patre D. Ioanne Baptista Coccino Veneto... in unum recollectarum, ac argumentis, summariis, & locupletissimo indice, nec non aliquibus additionibus …, Roma, Tinassi, 1672; Agostino Barbosa, Collectanea doctorum tam veterum, quam recentiorum, in ius pontificium universum, Lugduni, Borde, Arnaud, & Rigaud, 1656-57.

114. Carminati, Vita e morte, cit., p. 17.

115. Ciampini sarebbe morto nel 1698.

116. Fermo, Gio Francesco Bolis e frelli, 1694. Su Fabiani non sono finora riuscita a trovare alcuna notizia. Benché dica di esser stato presente alla stesura del testamento ed effettivamente risulti tra i testimoni della consegna al notaio, dagli Stati delle anime non risulta appartenere alla familia di Campini, nel testamento non è ricordato e nemmeno è menzionato in uno degli elenchi di partecipanti alle riunioni accademiche o alle conversazioni. Di sicuro, quindi, non appartiene alla sua cerchia di amici. E' però autore di una commedia (Per le azioni il Cavaliere. Opera regicomica, Roma, Vannacci, 1697) destinata agli alunni del Collegio Clementino, erede testamentario di Ciampini, e potrebbe essere questo suo legame col Collegio la ragione della sua presenza nello studio del notaio.

117. Fabiani, Il merito applaudito, cit., p.5.

118. La lettera era estratta dal terzo volume delle Lettere memorabili, raccolte da Michele Giustiniani, e pubblicate a Roma da Nicolò Angelo Tinassi tra il 1667 e il 1675.

119. Vannacci, Roma 1680.

120. Raguagli del padre Francesco Eschinardi della Compagnia di Giesù dati ad un'amico in Parigi; sopra alcuni pensieri sperimentabili proposti nell'accademia fisicomatematica di Roma, Roma, Tinassi, 1680.

121. Biblioteca Apostolica Vaticana (BAV), Vat. Lat. 11739, senza data ma 1697.

122. Pag. non numerata.

123. Ibid.

124. Fabiani, Lo specchio, cit., p. 221. Nelle intenzioni del papa, il ripristino dell'acquedotto doveva servire a lanciare Civitavecchia come porto-franco (ivi, pp. 219-220).

125. Cit. in André Robinet, G. W. Leibniz, Iter Italicum (Mars 1689-Mars 1690): la dynamique de la République des lettres, Firenze, Olschki, 1988, p. 50.

126. «Eroe» è appunto il termine usato da Fabiani per qualificare il suo biografato: Lo specchio, cit., p. 227.

127. Ivi, pp. 222-223.

128. Angelo Fabroni, Vitae Italorum doctrina excellentium qui saeculi XVII et XVIII floruerunt, Pisa 1778-1805, vol. VI.

129. Componevano il gruppo, oltre a Ciampini e Nazari, Michelangelo Ricci, Giovanni Lucj, Salvatore e Francesco Serra, Tommaso de Giulj e Giovanni Patrizi: cfr. Jean-Michel Gardair, Le «Giornale de Letterati» de Rome (1668-1681), Olschki, Firenze 1984.

130. Francesco Bustaffa, Michelangelo Ricci (1619-1681). Biografia di un cardinale innocenziano, Tesi di dottorato, San Marino, 2011, pp. 258-261, https://www.academia.edu/7491564/Michelangelo_Ricci_1619-1681_._Biografia_di_un_cardinale_innocenziano.

131. Gardair, Le «Giornale de Letterati», cit., pp. 34-35.

132. Salvatore Rotta, L'accademia fisico-matematica ciampiniana: un'iniziativa di Cristina?, in Cristina di Svezia. Scienza ed alchimia nella Roma barocca, Bari, Dedalo, 1990, pp. 99-186, pp. 114-115.

133. « Le Journal des sçavans », Du lundy V. janvier M.DC.LXV, J. Cusson, Paris 1665.

134. Fabroni, Vitae, cit., p. 239.

135. Antonella Romano, A l'ombre de Galilée? Activité scientifique et pratique académique à Rome, in Naples, Rome, Florence. Une histoire comparée des milieux intellectuels italiens (XVIIe-XVIIIe siècles), sous la direction de J. Boutier, B. Marin, A. Romano, Rome, Ecole Française de Rome, 2005, pp.209-242, p. 236.

136. Ivi, p. 237.

137. Candida Carella, L'aetas galileiana in Sapienza, in Galileo e l'acqua, a cura di Lucio Ubertini - Piergiorgio Manciola - Arnaldo Pierleoni, Perugia, Grifo, 2010, pp. 47-81, p. 49.

138. Bustaffa, Michelangelo Ricci, cit., pp. 267 e 314; sulle simpatie francesi di Nazari cfr. anche Gardair, Le «Giornale de Letterati», cit., p. 331.

139. Vincenzo Leonio, Vita di Monsig. Gio. Giustino Ciampini romano detto Immone Oeio, in Le vite degli Arcadi illustri a cura di Giovan Maria Crescimbeni, Roma, de Rossi, 1710, pp.195-254, p. 207: «perché […] l'esperienza mostrò che dal Nazari con molta brevità, e chiarezza insieme si restringevano le materie, fu perciò tutto il peso addossato al medesimo».

140. Scrivendo a Leopoldo de' Medici, Ricci per esempio osservava: «sarà più grato ai curiosi, ch'egli [Nazari] non tardi tanto à dar notitia de' libri nuovi, restando indietro molti mesi il Giornale» (Gardair, Le «Giornale de Letterati», cit., p. 370).

141. Leonio, Vita, cit., p. 207; Gardair, Le «Giornale de Letterati», cit., pp. 263-264 e 369-370.

142. Leonio, Vita, cit., pp. 207-208.

143. Ibid.

144. Ivi, p. 240: «saepe atque injuste a librorum censoribus vexaretur»

145. Ibid: «ut ea, quae conscripserat, in vulgus ederet, minime impetrare potuit».

146. Così sosteneva Fabroni, ma Gardair anticipa la fine del «Giornale» alla primavera del 1682 (Le «Giornale de Letterati», cit., p. 29).

147. Bustaffa, Michelangelo Ricci, cit., pp. 265-266 e 314.

148. Lettera di Ricci ad Antonio Magliabechi del 14 luglio 1673, cit. in Gardair, Le «Giornale de Letterati», cit., p. 41.

149. Leonio, Vita, cit., pp. 209-210.

150. BAV, Vat. Lat., 11575 e Ottob. Lat. 3051, Verbali delle riunioni dell'Accademia fisico-matematica.

151. Questa duplice attenzione per l'antiquaria e le curiosità della natura gli veniva riconosciuta dallo stesso Leibniz che, nel dedicargli la sua opera sui rioni di Roma (Fragmenta veteris Romae, Unum de Regionibus Urbis et duo alia Historica ex fastibus quibusdam Consularibus … in dedicatione ad V. R.mum atque Ill.mum Joh. Ciampinum, cit. in Robinet, Iter Italicum, cit. p. 48 ), scriveva: «quod rarum est, antiquitatis sacris profanisque elegantiorum literarum notitiam insignem, cum curiosa naturae inquisitione coniugis» (Ibid.).

152. «Eo tempore diligenter perscrutatus Auctores illos, qui de hujusmodi rebus plura tradiderant, et aliorum scripta cum Imaginibus, quae ad hunc diem stetere, attente conferens, Exteri studium illius oculari experimento excitare curabat» (Giovanni Giustino Ciampini, Vetera Monimenta in quibus praecipuè musiva opera sacarum profanarumque aedium structura, ac nonnulli antiqui ritus, dissertationibus, iconibusque illustrantur, Roma, Komarek, 1690, Praefatio, p.n.n.).

153. «plura quandoque adnotavi ad Sacram eruditionem spectantia; plura interpretatus sum, quae Hyeroglyphicorum ambagibus continebantur; plures adduxi calculos Auctorum, sicubi aliquid probandum fuit; plures denique excitavi, si quando è re videbatur, & ad rem facere quaestiones» (Ibid.).

154. Fabiani, Lo specchio consigliero, cit., pp. 180-181.

155. Leonio, Vita, cit., p. 209.

156. Fabiani, Il merito applaudito, cit., p. 8. Cfr. anche Maria Pia Donato, Accademie romane. Una storia sociale (1671-1824), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000, pp. 13-26; Ead., Le due accademie dei Concili a Roma, in Naples, Rome, Florence. Une histoire intellectuelle des milieux intellectuels italiens (XViie-XVIIIe siècles), sous la dir. de Jean Boutier, Brigitte Marin et Antonella Romano, Rome, Ecole française de Rome, 2005, pp. 243-255.

157. Leonio, Vita, cit., pp. 210-211.

158. Nomina l'Accademia di Storia ecclesiastica da lui stesso istituita e aggiunge «dixi, a me instituta, quoniam palmam mihi arripere tentarunt, aliis tribuendo» (Komrek, 1690, p. 104)

159. Antonella Romano, A l'ombre de Galilée, cit., p. 232.

160. «ut auxilium a potentiore mutuaretur»: Fabroni, Vitae, cit., p. 241.

161. Bustaffa, Michelangelo Ricci, cit.

162. L'erudizione sacra sarebbe poi effettivamente servita a Ciampini per confutare alcune pretese del clero gallicano.

163. Vita d'Angelo della Noce arcivescovo di Rossano detto Ismenio Langiano, in Vite degli Arcadi illustri, a cura di Giovan Mario Crescimbeni, vol. I, Roma, de' Rossi, 1708, pp. 13-27.

164. Massimo Ceresa, Della Noce, Angelo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 36, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, 1988; Carella, Roma filosofica, cit., pp. 122-23.

165. Carella, L'aetas galileiana, cit.; Ead. Roma filosofica, cit.

166. Ivi, p. 66.

167. Fabiani, Lo specchio, cit., p. 204; Leonio, Vita, cit., p. 227; Silvia Grassi Fiorentino, Ciampini, Giovanni Giustino, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 25 Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1981, p. 1.

168. Leonio p. 224.

169. Bustaffa, Michelangelo Ricci, cit., p. 316; Donato, Le due accademie, cit.

170. Fabiani, Lo specchio consigliero, cit. p. 181.

171. Fabroni, Vitae, cit.

172. Leonio, Vita, cit., p. 215.

173. Gardair, Le «Giornale de' Letterati, cit., pp. 154-56. Dal 1680 i membri del gruppo cominciarono a pubblicare individualmente e questo per Ciampini fu motivo di grande disappunto e di tensione con alcuni autori come per esempio Eschinardi (Fabbroni, p. 248: Ciampini «aegre tulit Franciscum Eschinardium e Societate Jesu quaedam a se proposita in eadem Academia haud communia sibi cum ceteris collegis esse voluisse, cum illa sicuti propria in vulgus edidisset. Itaque graviter repehendit amicum, quod alienae laudis invidus, & propriae nimium appetens esse videretur»). Forse memore di queste controversie Leonio metteva invece insieme tutte le loro opere come se fossero il prodotto di un programma comune e coerente.

174. Leonio, Vita, cit., p. 216-17.

175. Cfr. Federica Favino, Beyond the 'Moderns'? The Accademia Fisico-matematica of Rome (1677-1698) and the vacuum, in Sven Dupré & Sachiko Kusukawa (eds.), The Circulation of News and Knowledge in Itersecting Networks, «History of Universities», vol. XXIII, 2 (2008), pp. 120-158, p.132; Gardair, Le «Giornale de Letterati», cit., p. 155.

176. Si tratta, con ogni probabilità delle Novae circa aurem observationes, e delle Novæ circa oculum observationes, Roma, de Lazaris, 1674.

177. Nova experimenta physico-mechanica pro demonstranda genuina causa elevationis aquae & mercurij supra solitam eorum libellam in vitreis fistulis Torricellianis à se nuper excogitata et mox in Accademia doctissimorum virorum exibenda & expendenda, Roma, de Lazaris, 1666. L'accademia del titolo è evidentemente un'altra.

178. Fabiani, Lo specchio, cit., pp. 185-186.

179. Pubblicato in appendice a Eusevologio romano overo delle opere pie di Roma accresciuto ed ampliato secondo lo stato presente, Cesaretti e Paribeni, Roma 1698, 2 voll.

180. Ivi, p. CXLVIII.

181. Nella già citata dedica del Fragmentum de regionibus Urbis Leibniz scriveva: «domus tua velut Academia quaedam habeatur, et ad te confluere videamus, quidquid pene eruditorum non alit tantum Romae, sed et hospitio accipit» (Robinet, Iter Italicum, cit., p. 48.). Cfr. anche Leonio, Vita, cit., pp. 219-220.

182. Leonio, Vita, pp. 214-215. Per una volta siamo in grado di confrontare le descrizioni dei contemporanei con altre fonti più dirette come gli inventari, e quella che sembrava un'iperbole barocca trova invece conferma: i reperti archeologici sono effettivamente disseminati per tutta la casa e la biblioteca contiene più di 7.000 titoli (Archivio di Stato di Roma (ASR), Trenta Notai Capitolini (TNC), uff. 1, vol. 849, notaio Floridi; trascrizione parziale in Interni Romani).

183. Leonio, Vita, cit., p. 215.

184. Giovanni Mario Crescimbeni, Vita di Giovanni Maria Lancisi Cameriere segreto e Medico del Papa Clemente XI, Roma, de Rossi, 1721, pp. 14-15.

185. Carella, L'aetas galileiana, cit., p. 50.

186. Ivi, p. 66.

187. Crescimbeni, Vita, cit., p. 49.

188. Ivi, p. 52. L'atto di donazione è riportato nella sua interezza alle pp. 70-104.

189. Cfr. infra, cap. V.

190. Crescimbeni, Vita, cit., p. 111. Copia del testamento alle pp. 120-149.

191. Ivi, p. 158.

192. Ivi, p. 159.

193. Ibid.

194. Il riferimento è naturalmente a Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1966. Cfr. anche Marco Fantuzzi, Meccanismi narrativi del romanzo barocco, Padova, Antenore, 1975.

 

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