L'invenzione del Barocco

Printer-friendly versionPrinter-friendly version
Author: 
Francesco Benigno

Nella prefazione alla seconda edizione (del 1972) della sua opera del 1957 Baroque et classique Victor Tapié racconta di come da studente, negli anni venti, fosse andato a Praga per la sua thèse su Enrico IV e i paesi cechi, una frequentazione con quelle terre da cui deriverà poi nel 1936 il libro su La politique étrangere francaise et le debut de la guerre de Trente ans:  «Era certamente un'occasione, negli anni Venti, andare a Praga, giovane e ignorante e immergersi senza preparazione alcuna nel meraviglioso scenario delle chiese e dei palazzi barocchi, in una società in cui il termine "barocco" carico di riprovazione in francese, assumeva un senso concreto, si applicava a un'arte e più ancora a una civiltà. Testimoniava d'una esperienza umana prolungata e spesso drammatica».

In realtà, come altrove ricorda lo stesso Tapié, nel corso del XIX secolo gli storici nazionalisti cechi avevano insegnato che dopo Weissen-Berg (1620) la nazione era stata privata dei suoi diritti politici, della sua lingua e della sua religione a profitto degli Asburgo, per cui i monumenti innalzati nel corso del Seicento erano considerati alla stregua di resti di un'impresa nemica. Solo nel 1915 Arne Novak inizierà una rivalutazione scrivendo Praga barocca, un testo cui farà eco nel 1918 la Roma barocca di Antonio Muñoz.

Da quella esperienza lo storico francese, essenzialmente storico politico, ma nipote di Celestine Bouglé e come tutti nella Francia tra le due guerre,  attratto dalla possibilità di ancorare la storia politica e intellettuale alle dinamiche sociali ed economiche, aveva elaborato l'idea di una connessione tra l'affermazione del sistema seigneurial e l'espansione dell'arte della controriforma. Questa idea, di fare del barocco la temperie culturale di un'epoca era venuta a Tapié in opposizione a una tradizione per lo più tedesca che tendeva a fare del barocco lo stile della controriforma militante (ma che era stata ripresa a suo modo in Francia da Marcel Raymond) e ad una tutta francese che tendeva ad espungerlo dal Grand Siècle, un secolo vocato e votato al classicismo: «All'inizio del nostro secolo, di barocco, di arte barocca e ancor più di barocchismo, in Francia quasi non si parlava». Si trattava poi anche di rifiutare la tendenza a naturalizzare il barocco considerandolo un universale, alla Eugenio d'Ors, una tendenza riscontrabile in molte epoche e in molti paesi, una categoria dello spirito, un'esuberanza non importa di quale stile o di quale tempo.

Per Tapié il barocco va posto sullo stesso piano del classicismo e anzi esso ne costituisce come l'opposizione, l'altra metà, contemporanea e non derivata: essi costituiscono e illustrano due tipi di società e due modi di vita, sorti dallo stesso fondo comune rinascimentale. Da una parte una società borghese, urbana, razionalista ai cui gusti ben si confà il classicismo, dall'altra una società aristocratica e contadina, che ama l'immaginazione, la fantasia, la gratuità della decorazione e un'arte più affettiva che razionale: «Ainsi le baroque, avec son alliance avec le monde rural, n'a point été l'expression d'une survivance, ni seulement l'instrument d'une propagande autoritarie» ma è invece la testimonianza di una società viva ed originale. Il tentativo di Tapié è quello di trarre dalla riflessione degli storici che andava iniziando sul siglo sombre elementi per analizzare senza restarne abbagliati la grandezza del Grand Siècle:       «Senza dubbio le qualità tradizionali dello spirito francese, il bisogno di chiarezza e logica mal si conciliavano con l'irrazionalità e l'eccesso del barocco; tuttavia la Francia del XVII secolo, nello splendore delle sue feste di corte l'aveva accolto e a questo titolo essa offriva un doppio volto classico e  barocco».

Se per Tapié il problema era quello di connettere la storia intellettuale con la storia sociale e di ritrovare per questa via una più realistica descrizione del seicento francese per Benedetto Croce si trattava di fermare la tendenza alla rivalutazione del barocco, iniziata tra gli studiosi tedeschi degli anni venti che, nella temperie della repubblica di Weimar, apparivano attratti dalla cultura barocca: in particolare nella Postilla alla Storia dell'età barocca Croce riassumeva così la sua ferma intenzione: «In questo libro il concetto di barocco è ricondotto dal significato positivo che è venuto prendendo negli ultimi decenni al significato negativo che ebbe in origine e ritenne per quasi due secoli». Sono pagine famose queste, quelle del peggior Croce che scrive con quella sferzante ironia e apparente ferrea logica: le età della storia spirituale sono contrassegnate dagli ideali che propongono o coltivano; e in che mai sarebbe consistito l'ideale barocco dell'età barocca? La risposta, si sa, è che il barocco è una sorta di brutto artistico, e come tale, «non è niente di artistico, ma anzi al contrario, qualcosa di diverso dall'arte, di cui ha mentito l'aspetto e il nome e nel cui luogo si è introdotto o si è sostituito […] il barocco, come ogni forma di brutto artistico, ha il suo fondamento in un bisogno pratico […] la richiesta e godimento di cosa che diletta. […] Essa consiste nel sostituire la verità poetica, e l'incanto che da essa si diffonde, con l'effetto dell'inaspettato e dello stupefacente, che eccita, incuriosisce, sbalordisce e diletta». E ancora: «Non è necessario […] sfondare l'uscio aperto e dimostrare che il barocco è questo giuoco e questa corsa allo stupore. Per tale sua natura (diversamente da altre forme di brutto che talvolta scuotono, eccitano e turbano) riesce in ultimo freddo non ostante il suo valore e la sua agitazione superficiale e lascia un senso di vuoto, nonostante la folla delle immagini e della combinazioni di immagini che mette in opera». Come nella vita degli individui si fanno egli errori «cattive tendenze che solo attuandosi liberano veramente di sé l'animo e rimangono perciò ricordevoli e ammonitrici; cosi nella vita dei popoli e del genere umano». In breve «si dica pure arte barocca ma non si perda mai la coscienza che a rigor di termini quel che è veramente arte non è mai barocco e quel che è barocco non è arte».

Se in Italia all'indomani della seconda guerra mondiale Giuliano Briganti (su «Paragone», la rivista di Longhi, nel 1950) finiva per rifiutare l'uso del termine barocco come indeterminato («strana parola, così piacevole a pronunciarsi, così misteriosamente allusiva, così apparentemente definitoria […] Quando in un testo di storia dell'arte si legge il termine 'barocco' non si sa ormai a cosa precisamente si voglia alludere; e dalla confusione s'ingenerano equivoci a non finire», il problema posto da Croce non trovava, non poteva trovare risposta. Perché Croce aveva connesso a suo modo il barocco al tema della decadenza, decadenza come mancanza di entusiasmo morale di un'Italia stanca che si riposava, non proprio morta, questo no, ma malata: «quella decadenza fu decadenza di entusiasmo morale e dei congiunti ardimenti e ricerche e contrasti e ansie e gioie e dolori e indefessa operosità». Bisognerà attendere quindi che la storiografia riveda la nozione di decadenza e il suo ruolo nella storia italiana (il che non avverrà presto se si pensa al ruolo che quel concetto riveste ancora nella «Storia d'Italia Einaudi») ed è interessante che il principale stimolo in questa direzione venga da uno storico spagnolo, lo storico di un paese per cui il seicento è l'epoca della incombente declinación. Mi riferisco naturalmente al Maravall della Cultura del barocco, uscito da Ariel a Barcellona nel 1975 e tradotto in italiano da Il Mulino con introduzione di Andrea Battistini solo nel 1985. Scritto nella fase finale dell'epoca franchista esso appare come il tentativo di restituire alla cultura spagnola del siglo de oro una dimensione schiettamente europea. Fare insomma del periodo in cui la Spagna ha esercitato la maggiore influenza sulla vita europea una pari dignità rispetto ai fratelli maggiori, il Rinascimento e l'Illuminismo. Maravall per compiere questo percorso fa tesoro della riflessione degli storici degli anni '50 e '60 sulla Crisi del seicento proponendo una visione generale della cultura barocca come cultura della crisi. Contrapponendosi a una tradizione spagnola che cerca nel barocco la quintessenza della nazione spagnola (una tradizione che risale alla generazione del 98 e ad Ortega y Gasset) Maravall sostiene che il barocco come epoca di interessanti contrasti e forse spesso di cattivo gusto (individualismo e tradizionalismo, autorità inquisitoria e moti di libertà, mistica e sensualismo, teologia e superstizione, guerra e traffici, geometria e capriccio) non è il risultato di influenze plurisecolari che configurano il carattere di un paese ma non è nemmeno il risultato delle influenze che da un paese, ipoteticamente dotato di tali caratteristiche, si diffondono agli altri con i quali aveva stretti rapporti. La cultura barocca sorge non per ragioni di influenza e di carattere  ma da una situazione storica: vale a dire quella segnata da «una spettacolare e complessa frattura di una società all'interno della quale si svilupparono forze che spinsero al cambiamento e si trovarono in contrasto con altre più potenti il cui obiettivo era la propria conservazione […] la crisi sociale e ( con alcuni intervalli di ripresa) la crisi economica contribuirono a creare il clima psicologico da cui sorse il barocco e del quale si alimentò per poi svilupparsi nei più svariati campi della cultura». Rispetto a quella che considera una versione amena, l'idea di Tapié che «il Barocco si diffuse nelle campagne perché al contadino impoverito e forse affamato si offriva la magnificenza dei palazzi e delle chiese», Maravall pensa al barocco come a una cultura urbana volta a intervenire sulla nuova dimensione di massa della vita pubblica. Egli intende il barocco come la cultura caratteristica dei regimi autoritari del Seicento una cultura legata perciò essenzialmente agli interessi dello stato e del principe. In un clima psicologico dominato dalla crisi economica e da pericolose alterazioni sociali il barocco gli appare come uno strumento operativo; «in sintesi l'insieme di mezzi culturali, di natura assai varia, uniti e articolati per operare convenientemente sugli uomini, intesi singolarmente e in gruppi, nell'epoca in cui si sono fissati i limiti, al fine di guidarli e  di tenerli integrati al sistema sociale». In breve, il barocco è la cultura di un processo di modernizzazione costruito contraddittoriamente col fine di preservare le strutture ereditate.

Sulla stessa linea di Maravall si muove in Italia Rosario Villari che nell'introduzione alla silloge dedicata all'uomo barocco sottolinea come ormai, a partire dagli anni '60, il termine si sia distaccato dalla originaria connotazione artistico-letteraria e abbia finito per connotare una cultura e perfino aree come la storia politica (cita il testo di Henry Méchoulan, Lo stato barocco): malgrado la sua indeterminatezza, o forse proprio per questo, malgrado le «iniziali condizioni proibitive ed equivoche» il termine barocco si è affermato come il più adatto per indicare un'epoca di conflittualità, segnata da «lo scontro ideale, politico e religioso, la continuità e ampiezza della guerra, la crescita dell'antagonismo sociale, la rivoluzione, le puntigliose questioni di precedenza […] la frequenza del duello». Conflittualità alimentata dalle contraddizioni di un'età in cui convivono e si oppongono conservatorismo e ricerca del nuovo; tradizionalismo e ribellione; amore per la verità e culto della dissimulazione; saggezza e follia; sensualità e misticismo; superstizione e razionalità; austerità e  consumismo; affermazione del diritto naturale ed esaltazione del potere assoluto. Per Villari «a lungo la cultura storica di fronte alla difficoltà di penetrare il mistero di questa contraddizione strutturale e interiore e suggestionata dalla potenza dell'immagine negativa che l'età barocca ha trasmesso di se stessa, delle sue tensioni e dei suoi mali, ha dato per scontato, per quel periodo, una sorta di offuscamento della capacità di contribuire con ampi movimenti di idee e con un impegno collettivo al progresso della civiltà. Contraddizione e conflittualità sono state a lungo considerate il segno dell'ingorgo e della stasi delle forze propulsive». E ancora: «E' tipica, per esempio, ed è stata dominante, l'idea di uno stato che progredisce per esclusiva volontà del sovrano di fronte ad una società che protesta e morde il freno senza riuscire né ad adeguarsi al dinamismo centralizzatore della monarchia né a scuotersi dalle spalle il giogo dell'oppressione. Sullo sfondo alcune personalità eccezionali sono state considerate piuttosto come anticipatrici che come autentiche espressioni del loro tempo: Bruno, Galilei, Bodin, Cartesio, Harvey, Sarpi, Spinoza…».

In questa operazione, tuttavia, Villari ha come ripreso solo una parte dell'intuizione di Maravall tralasciando il tentativo da questi condotto di abbozzare, come si poteva fare trent'anni fa, le linee di una lettura del barocco come prima manifestazione di una cultura che si pone il problema del controllo dei comportamenti di massa, una lettura del barocco come cultura propagandistica e manipolativa ad uso del controllo sociale. Come ha ricordato Battistini nella introduzione «si rintracciano nel Seicento i segni della modernità, dal kitsch ai mass media, dalle tecniche di persuasione occulta, all'alienazione dalla vita cittadina dall'emergere di una civiltà delle immagini ad una prima esplorazione di una psicologia delle folle, quest'ultima con l'introspezione neostoica dei grandi moralisti».

Oggi però il problema è quello di riempire di contenuti questa intuizione di Battistini: scoprire come e perché il barocco, o se si vuole il classicismo barocco, parli al nostro tempo più e meglio del classicismo classico. Come e perché esso incarni l'inquietudine della modernità.