1. Le descrizioni dei biografi
Apologetiche o celebrative, tranne qualche eccezione le Vite sono normalmente postume e quindi affidate alle cure e all'iniziativa di altri. Per quanto efficace, una biografia lusinghiera non è tuttavia l'unico strumento a disposizione delle «persone eccellenti». Al contrario si può dire che la costruzione dell'eccellenza inizi molto prima, ad opera dell'interessato in persona, e che la successiva biografia non sia altro che il coronamento di un progetto avviato dallo stesso biografato nel corso della propria vita. Questo processo può assumere varie forme e far leva su diversi elementi. Uno degli atout sui quali si punta più di frequente è costituito dallo stile di vita e la cosa non può stupire. Tutti sanno, infatti, che vivere more nobilium è un'indubbia prova di nobiltà, accettata persino da un severo custode delle barriere sociali come l'ordine di Malta, e quindi bisogna uniformarsi. Negli scritti dei biografi, tuttavia, lo stile di vita svolge un ruolo spesso ambivalente. Se in alcuni casi l'autore insiste sullo splendore del biografato, in altri, al contrario, ne sottolinea la sobrietà, la «civile honestà» aliena dal lusso ingiustificato.
Sono soprattutto le biografie collettive di artisti a soffermarsi su questi argomenti: da Vasari a Pascoli, l'interesse per questi aspetti della vita dei propri biografati va in crescendo e assume coloriture via via più sfaccettate. Se negli scritti più antichi prevale infatti la sottolineatura delle grandi ricchezze accumulate e degli onori in questo modo trasmessi anche alla discendenza, in quelli di Baldinucci e di Pascoli, che pubblicano le loro opere tra il 1682 e il 1730, si presta attenzione anche ad aspetti della vita sociale quali l'amore della «conversazione» che invece erano del tutto assenti nelle Vite di Vasari. I casi in cui quest'ultimo si sofferma a descrivere il tenore di vita dell'artista biografato sono oltre tutto relativamente pochi. È tuttavia significativa e interessante la scelta degli indicatori del lusso: vesti di broccato, cavalli, servitori. Ecco quindi che si racconta di come a Dello Fiorentino fosse venuto «capriccio […] di tornare a Firenze per far vedere agl'amici come da estrema povertà fosse a gran richezze salito» [1] e per far questo fosse tornato «a casa a cavallo con le bandiere, vestito di brocato et onorato dalla Signoria». [2] Il possesso e l'uso di uno o più cavalli sono dunque un segno immediato di successo e vita nobile e la loro presenza è menzionata anche a proposito di Leonardo da Vinci e Rosso Fiorentino. Del primo si sottolinea come, pur non essendo ricco, «del continuo tenne servitori e cavalli, de' quali si dilettò molto». [3] Del secondo si dice che «con buon numero di servidori e di cavalli viveva da signore e facea banchetti e cortesie straordinarie a tutti i conoscenti e amici, e massimamente ai forestieri italiani che in quelle parti [Parigi] capitavano». [4] A contrario Vasari adduce poi l'esempio di Cristoforo Gherardo detto il Doceno il quale «non volle mai, se non forzato, andare a cavallo, ancorché fusse nato nella sua patria nobilmente e fusse assai ricco». [5] Ma è la Vita di Michelangelo che gli permette di esaltare quella che considera la sintesi perfetta tra la nobiltà del sangue e quella del genio, resa appunto manifesta da un tenore di vita «conveniente»: «egli non ha mancato a sé medesimo et ha giovato grandemente, con lo affaticarsi, a tutti gli artefici; e di onorati vestimenti ha sempre la sua virtù ornato, dilettatosi di bellissimi cavalli, perché, essendo egli nato di nobilissimi cittadini, ha mantenuto il grado e mostro il sapere di maraviglioso artefice». [6]
Negli anni Trenta del Seicento, le pur sintetiche Vite di Giovanni Baglione non mancano di accennare al «decoro» con cui molti artisti si sono trattati. [7] Il modello cui aspirare è naturalmente Rubens, talmente salito nella stima dei principi da essere addirittura investito di una signoria e concludere la vita nel più splendido dei modi. [8] Ma è a proposito di Domenico Passignano che Baglione introduce un'osservazione inedita. Questo artista non si era infatti limitato a godere «molti anni […] il premio delle sue fatiche» circondandosi di servitori e cavalli e offrendo sontuosi banchetti ai suoi ospiti, ma aveva spinto i suoi consumi a un livello superiore di raffinatezza. Egli prendeva infatti «diletto nello studio delle medaglie antiche, & in simili trattenimenti; diporto veramente da Principe, e da huomini virtuosi». [9]
Scrivendo negli anni Sessanta, Bellori sviluppa ulteriormente questo genere di commenti. Nelle sue Vite si fa per esempio strada un'inedita attenzione al «vestire» e alle tante sfumature che lo contraddistinguono. Così, se Annibale Carracci «vestiva e si trattava civilmente e con pulitezza» [10] e Poussin nell'abito «non era splendido, ma grave e onorato» [11], Guido Reni «vestiva nobilmente come i gentiluomini del suo tempo, ma però modesto e senza vanità alcuna» [12], Van Dyck aveva «maniere signorili più tosto che di huomo privato, e risplendeva in ricco portamento di habito, e […] oltre li drappi, si adornava il capo con penne e cintigli, portava collane d'oro attraversate al petto, con seguito di servitori» [13], e Rubens era «maestoso insieme ed umano, e nobile di maniere e d'abiti, solito portare collana d'oro al collo e cavalcare per la città come gli altri cavalieri e persone di titolo, e con questo decoro il Rubens manteneva in Fiandra il nobilissimo nome di pittore». [14]
L'attenzione per lo splendore degli artisti più affermati non si ferma agli abiti ma si estende ad altri aspetti della loro vita materiale. Il biografo si sofferma quindi a descrivere come Van Dyck trattenesse a pranzo i nobili signori e le dame di cui stava facendo il ritratto e come questi vi andassero «volentieri come a solazzo, tirati dalla varietà de' trattenimenti». [15] Più avanti racconta quali delizie racchiudesse il casino che Lanfranco si era fatto costruire in una sua vigna a Porta S. Pancrazio e come lo avesse adornato di pitture e fontane, tanto da suscitare l'invidia di Cassiano dal Pozzo. [16] In questa «lautezza del [loro] vivere piu tosto da princip[i] che da pittor[i]» [17] ambedue gli artisti avevano consumato tutti i loro guadagni. Altri, invece, si erano meno lasciati sedurre dall'ostentazione del mondo cortigiano e avevano dimostrato la loro eccellenza proprio prendendone le distanze. Guido Reni, per esempio, era
«con l'animo lontano da ogni ostentazione ed apparenza d'esser più di quello che apparteneva al suo stato. Le sue stanze e la sua casa erano solamente proviste di supellettili convenienti ad un uomo civile ed alle necessità, senza addobbi e senza ornamenti per non fare ostentazione della virtù, la quale più gode di se stessa, che di quei beni che sono comuni della fortuna, anzi proprii d'essa. Contro sua voglia fece fare un parato di camera con sedie di velluto, ma tanto lo differì di tempo in tempo, che non lo mise mai in opera, compiacendosi più d'ornare la stanza di tele da dipingere, che di drappi d'oro li più preziosi. Così ancora avendo messo la carrozza per commodo della madre, serviva poi ai suoi scolari per sollazzarsi in villa tutto il giorno. Avendola dismessa ed essendoli stato detto da uno di loro che il Rubens la teneva a sei cavalli, rispose che gl'uomini dovevansi imitare nella virtù, non nella pompa». [18]
Non ancora soddisfatto, Bellori insiste: «Era egli [Guido] di mente elevata, e professava di mantenere la dignità, ed onore della sua professione […] Portava […] con dignità e decoro la nobiltà della sua arte e, visitato da signori e gente forestiera, non altrimenti si lasciò veder dipingere che col mantello indosso, togliendo ogn'atto meccanico, anzi accrescendo dignità alla mano ed alla persona». [19]
Proprio questo commento alla Vita di Guido Reni, il pittore più quotato della sua epoca e probabilmente anche il più ricco, se non fosse stato per il vizio del gioco [20], mostra bene quale fosse la posizione di Bellori in materia di gerarchie sociali. Gli artisti dovevano adottare uno stile di vita decoroso, che sottolineasse la loro distanza dalla necessità e dal mondo di chi si guadagnava da vivere con il suo lavoro. Le «persone eccellenti» non miravano tuttavia a confondersi con la nobiltà di corte. Attraverso uno stile di vita dignitoso e al tempo stesso moderato puntavano piuttosto a ribadire l'elevatezza della loro statura morale e a rivendicare un posto a parte nella gerarchia sociale: né popolo né cortigianeria, ma solo eccellenza. Perciò le sue simpatie vanno piuttosto ad Annibale che ad Agostino Carracci. Racconta infatti Bellori che, tutto preso dalla sua arte, Annibale
«non badava più che tanto alla barba ed al collare, ed alle volte togliendosi stanco dal lavoro se ne usciva tardi nel modo che egli si trovava, a ricrearsi ed a respirare all'aria, vergognandosi poi d'incontrare il fratello in palazzo, overo in piazza fra gentiluomini in portamento elevato. Laonde un giorno nel salire dalla Galeria al suo appartamento non ben rassettato dalle occupazioni del dipingere, abbattendosi nel fratello, sdegnossi al vederlo passeggiare in compagnia di alcuni cavalieri; e quasi per affare importante avesse a favellar seco chiamollo da parte e gli disse pian piano all'orecchio: 'Ricordati Agostino che tu sei figliuolo d'un sarto'». [21]
L'episodio è una palese dimostrazione della superiorità morale del più austero fratello minore rispetto alla frivolezza del maggiore ed è chiaro che il cuore di Bellori batte per il primo. Agostino infatti «amava la pratica de' grandi e della corte e si confaceva co' cortigiani; nel che discordava dal fratello, come si è detto nella sua vita. Onde Agostino per elevarsi dalla sua fortuna umile, nobilitò il cognome de' Carracci con l'impresa del carro celeste, che sono le sette stelle dell'Orsa, facendolo impresa ed arme della sua famiglia». [22]
Nonostante queste ripetute prese di posizione a favore della semplice «politezza» e contro ogni forma di ostentazione, il collezionista Bellori non può però nascondere la propria ammirazione di fronte al comportamento di Rubens:
«Aveva egli adunato marmi e statue che portò e fece condursi di Roma con ogni sorte di antichità, medaglie, camei, intagli, gemme e metalli; e fabbricò nella sua casa in Anversa una stanza rotonda con un solo occhio in cima a similitudine della Rotonda di Roma per la perfezzione del lume uguale, ed in questa collocò il suo prezioso museo, con altre diverse curiosità peregrine. Raccolse ancora molti libri, ed adornò le camere parte di quadri suoi originali e parte di copie di sua mano fatte in Venezia ed in Madrid da Tiziano, da Paolo Veronese e da altri pittori eccellenti. Era perciò egli visitato e da gli uomini di lettere ed eruditi, e da gli amatori della pittura; non passando forestiere alcuno in Anversa che non vedesse il suo gabinetto, e molto più lui, che l'animava colmo di virtù e di fama». [23]
La contrapposizione tra onesta sobrietà da una parte e sfarzo cortigiano dall'altra, su cui tanto insiste Bellori, non viene evocata con altrettanta frequenza dai quasi contemporanei Malvasia, Passeri e Baldinucci. Commentando lo stile di vita di Guido Reni il primo, per esempio, esordisce ricordando che: «Mai si sentì dal suo corpo uscire cattivo odore, benché per vivere (massime in ultimo mancatagli la cara Madre) senza il servizio di donne, non fosse servito con una forbita polizia propria di quelle. Si dilettò nondimeno di una sufficiente lindura, che mirabilmente per ogni poco in lui spiccava. Era il suo vestire il più nobile, e insieme moderato, che a que' tempi si usasse». [24]
A questo punto tuttavia non può trattenersi dall'aggiungere che usava «Seta la Istate, Velluto e panno di Spagna l'Inverno; e trovo nel libro delle sue spese giornali, cinquanta e sessanta scudi per ogni abito suo». [25] Più che sulla moderazione di Guido è dunque sull'alto valore dei suoi abiti che si richiama l'attenzione del lettore. E il comportamento del pittore morente che, entrando nella stanza da letto allestita per lui, chiede che «fossero tosto staccati i corami d'oro e fuori che qualche sedia e un tavolino, fosse lasciata nuda di mobili» [26], viene ascritto a una forma di ascesi in preparazione della buona morte piuttosto che a una specifica filosofia di consumo.
I commenti alle Vite di altri artisti ignorano anch'essi la distinzione tra politezza e sfarzo, a tutto vantaggio di quest'ultimo: Leonello Spada passeggiava per Bologna «tutto altero e sfarzoso, con vestito nobile, cappotto foderato di velluto, cintiglio e pennacchi nel cappello, spada in cintura e collana al collo». [27] Alessandro Tiarini «era nato, come confessavan tutti, più per fare il gentiluomo che il pittore; stando appunto come tale, e più anche, bene ammobigliato in casa, tenendo serve e servitori, facendo tavola abbondante e squisita, e ricca di buoni vini. Vestiva nobilmente, e di seta se stesso, la moglie ed i figli. Liberale splendido nelle occasioni, regalava spesso e da principe il Dottor Galli, che insegnava a suo figlio di Leggi, ed il Giacobbi che avvantaggiò nella musica Francesco». [28]
Agostino Metelli «era troppo liberale e troppo splendido, non facendo stima alcuna del denaro, solito dire esser quello fatto per spendersi, e cavarsi i capricci […]; e perciò godendo sprecarseli in compagnia di buoni amici, in conversazioni e piaceri» [29]; e il suo allievo Gio. Giacomo Monti «era tutto ingegnoso, tutto franco, e disinvolto; officioso, splendidissimo, uomo insomma da Principe». [30] E infine Domenichino «lasciò l'unica figlia erede di un valore di ventimila scudi in tanti luoghi di monte, oltre molte pitture sbozzate per la più parte, arredi e mobili sufficienti, e da par suo; che però per la sua ricchezza fu combattuta da molti pretendenti, non esclusone uno di titolo di Eccellenza». [31]
Anche chi si sottrae a questo modello, come il Borromini di Giovanni Battista Passeri, non fa in realtà che confermarlo per contrasto: «Fu Francesco di buona presenza - scrive il suo biografo - ma si rese sempre una figura da esser particolarmente osservata, perché volle del continuo comparire col medesimo portamento, e abito antico senza voler seguire le usanze, come si pratica giornalmente. Usò la randiglia alla spagnuola e le rose tonde alle scarpe, e nella medesima foggia le legaccie alle gambe». [32]
Quella di Borromini è la noncuranza del genio un po' folle più che la sobrietà della «persona eccellente». Altrettanto noncurante era l'immagine di sé coltivata da Caravaggio. Secondo Baldinucci, infatti, egli non solo non si cambiava mai d'abito ma era «negligentissimo» anche per quel che riguardava il «tener netto il proprio corpo». [33]
Tra tutti è però Salvator Rosa ad aderire con maggior precisione al modello dell'artista, che usa il proprio ingegno per elevarsi al di sopra della posizione di partenza, caro a Passeri e Baldinucci, e a Pascoli dopo di loro. Racconta Baldinucci che Salvatore, dopo essere stato qualche tempo a Firenze decise di tornare a Roma «ed avendo avanzata una certa quantità di denari, vi giunse pomposo di abiti con servitore appresso colla guardia d'argento, e tutto pieno di sfarzo». [34] Ma questo non è tutto perché «vedendosi lontano dalla necessità, che è la tiranna degli spiriti nobili e sollevati, si mise in positura di prezzo delle cose sue, e sosteneva il posto di una onorata condizione». [35] Il commento di Baldinucci allo stesso episodio sembra inizialmente prendere le distanze dalla boria dell'artista finalmente giunto al successo: «Era allora graziosa cosa il vedere il pittore passeggiar le strade di Roma in posto di gravità, con un ben addobbato servitore per accompagnatura di sua persona: ed esso con ispada al fianco con guardia di sodo argento, e con altre siffatte boriose dimostranze, che tutt'altro facevanlo parere da quel ch'egli eravi stato conosciuto per avanti». [36]
E tuttavia secondo il biografo quell'alta considerazione di sé non era ingiustificata: «Seppe però egli tanto avanzarsi sopra ogni altro nel suo bel genio di operare, che [nonostante le maldicenze dei suoi rivali] erano le sue battaglie, i suoi paesi, marine, capricci, e anche altre sue cose in grande, ricercate da persone di ogni più alto affare, e a qualsifosse gran prezzo pagate». [37]
E più avanti: «egli [era] per natura amicissimo d'ingegni sublimi, e di persone di gran lettere, con le quali volle sempre usare ogni sua più stretta consuetudine: e quali trovò moltissimi in quel tempo, i quali innamoratisi dell'opere de' suoi pennelli, e della nuova vaghissima maniera di far paesi, e marine, non più per certo vedutasi fino allora per l'Italia: dello spiritoso modo del suo conversare, della vivacità, e dolcezza insieme de' suoi ragionamenti […] se gli affollavano intorno». Avvenne così che
«in sul bel principio del suo conversare in Firenze, si facesse tanta apertura fra gli uomini letterati, e di primo ingegno, che la casa, che egli aveva presa a pigione […] era in brevi giorni divenuta un Accademia delle più belle facultadi, l'abitazione della giocondità, e 'l mercato dell'allegrezza. Quivi radunavansi per ordinario a virtuose conferenze di materie amenissime, il Dottore Evangelista Torricelli insigne Mattematico: il letteratissimo Carlo Dati, Giovambattista Ricciardi: Valerio Chimentelli, professore celebre di Umanità nello Studio di Pisa: il molto erudito Andrea Cavalcanti: il Dottor Berni: Paolo Vendramini […]; Gio Filippo Apolloni Aretino insigne Poeta drammatico per musica […] e altri molti […]; tanto che in breve tempo radicatasi in quel luogo la bella conversazione, fu deliberato di darle forma di Accademia, sotto nome de' Percossi. Avvenne poi, che desiderando gli Accademici di far godere anche al pubblico qualche reflesso de' loro privati trattenimenti, deliberarono di fare in certi mesi dell'anno alcune bellissime, e bizzarrissime Commedie all'improvviso». [38]
«Reggevasi l'Accademia colle contribuzioni degli Accademici stessi, colle quali pure, co' larghissimi disborsi del Rosa medesimo, facevansi assai frequentemente numerosi simposj, ne' quali fra l'esquisitezze delle vivande, non solamente vedeasi trionfare l'allegrezza, ma eziandio risplendere la virtù, mentre in un tempo stesso, ascoltavasi quanto di bello, e di apprezzabile possa contribuire ad un bel coltivato intelletto un adunanza di tanti elevatissimi ingegni […] Nel tempo dell'Inverno faceansi le conversazioni nelle stanze di sopra bene abbigliate, e profumate: e nelle più calde stagioni, nelle stanze terrene, le quali vedeansi in ogni parte pittorescamente vestite di dverse verzure, e fino alla terra stessa; talmentechè, a chi entrava, pareva entrare in una vera, e non finta boscaglia […] le lautissime cene, che facevansi dagli Accademici, insieme con altri della più fiorita nobiltà, eran fatte alle comuni spese de' medesimi Accademici, e coll'abbondante danaro, che del suo proprio somministrava Salvatore». [39]
«Di pochi, o di niuno de' pittori, che furono avanti, e dopo di lui, o ne' suoi tempi, io ritrovo che possa dirsi, che avessero tenuta in credito l'arte, quanto egli fece, particolarmente, dopo che egli ebbe sentito il grido, che correva de' suoi pennelli, che fu ben presto. E primieramente non volle mai pigliar caparra d'alcuna sorta per sue opere: e questo non pure, per serbarsi la libertà di disporre de' suoi quadri, a misura del trattamento, ch'ei ne fosse per ricavare più o meno onorevole, ma eziandio per non rendere schiava la sua volontà e virtù nel dar fine prima ad uno, che ad un altro suo bel pensiero, col timore di non mancare a' suoi doveri. Niuno fu mai, che potesse con esso accordarne prezzo determinato prima che fatti fossero: e dava di ciò una molto ingegnosa ragione: cioè di non potere egli comandare al suo pennello, che facesse opere, che non valessero se non tanto; che però quando le avesse fatte, avrebbe dato loro quella stima, che elle si meritassero: e poi avrebbe rimesso all'arbitrio dell'amico il pigliarle, o lasciarle». [40]
Tanta fierezza merita un commento scanzonato: «Egli però in ciò fare giocava sicuro», conclude Baldinucci, perché se un quadro gli rimaneva invenduto interveniva a comprarglielo il suo carissimo amico Carlo de' Rossi. [41]
Pascoli, che aveva evidentemente tratto profitto dalla lettura dei suoi predecessori, aggiungeva:
«fatto acquisto di molti libri, co' quali piucchè co' pennelli, passando allora il suo tempo tirò per mezzo di sue rime, e della soave, e dolce sua conversazione, alcuni giovani coetanei a un'intima amicizia, e si rendè talmente padrone degli animi loro, che ne faceva ciò che voleva. Si mascheravano insieme il carnevale, ed inventavano cose graziosissime da far ridere chiunque in loro s'abbatteva. Facevano commedie allo 'mprovviso, ed eran piene di vezzi e di sali. Andavan la state cantando, e improvisando ora in una conversazione, ora in un'altra, che era intendente ancor di musica, e non poco si dilettava di suono, maravigliosamente il liuto sonava». [42]
Al salottiero Pascoli premeva inoltre sottolineare la socievolezza dei suoi biografati. [43] ed egli quindi continuava così:
«teneva egli a pigione una buona, ed assai comoda casa, l'aveva assai ben fornita di suppellettili, e vi faceva sovente cene lautissime, e ricchi pranzi di rare, e squisite vivande. E come la tavola unisce più strettamente gli animi de' convitati, ed altri ne invita a' conviti, crebbe così fattamente la conversazione, che si convertì in accademia, e si chiamarono i Percossi gli aggregati. Si adunavano spessissimo, e si leggevano pellegrini, e spiritosi componimenti in versi non meno che in prosa; poiché entrata la gara fra quegli insigni letterati, ognun procurava di superare i compagni, e negli uni, e nell'altra. Introdussero poi l'uso delle commedie all'improviso; e se ne fecero delle graziosissime con applauso universale di tutti coloro, che aver vi potevano ingresso». [44]
Al di fuori del campo artistico, uno dei pochi a riprendere il modello vasariano di biografia è Bernardino Baldi a proposito di Federico Commandino, del quale scrive che «Nel mangiare fu sobrio, nel vestire pulito, e condecente al suo grado, e tale apunto, quale si conveniva ad uomo di lettere, giudizioso, e conversato in Corte». [45] D'altra parte è molto probabile che, da letterato e uomo di corte nonché da studioso di architettura qual era, egli conoscesse Vasari.
I biografi di letterati o di avvocati o di altre professioni sono invece molto meno sensibili al problema del «trattamento», che non rientra nella retorica tipica del genere, e da un lato viene in qualche misura dato per scontato, dall'altro è considerato ininfluente rispetto alla reputazione del soggetto biografato. Alcune raccolte - come il Teatro d'huomini letterati di Girolamo Ghilini [46], Gli scrittori liguri di Michele Giustiniani [47], le Apes Urbanae di Leone Allacci [48], o infine L'istoria deli scrittori fiorentini di Giulio Negri [49] - contengono Vite a dire il vero troppo brevi perché ci sia spazio anche per questo tipo di considerazioni. Lo stesso vale per le altre biografie contenute nella Cronica de matematici di Bernardino Baldi [50] o per l'Advocatorum Sacri Consistori Syllabum di Carlo Cartari. [51] Ma anche pubblicazioni accademiche come le Glorie degl'Incogniti. [52] o i Ritratti dei signori accademici Gelati. [53] sono singolarmente carenti di informazioni sullo stile di vita dei loro biografati. Qui l'interesse va esclusivamente alle opere e nessuno di questi scrittori segue lo schema vasariano dedicando un po' di attenzione agli uomini oltre che agli autori. Un silenzio così diffuso non è tuttavia causato dalla ristrettezza dello spazio a disposizione. Anche raccolte molto più dettagliate come i Fasti consolari dell'Accademia fiorentina a cura di Salvino Salvini . [54] o le Vite di Arcadi illustri curate da Giovanni Mario Crescimbeni [55], ciascuna delle quali dedica diverse pagine al racconto di ogni Vita, dicono poco o niente sul modo di vivere più o meno austero o più o meno splendido dei personaggi di cui trattano. Questo tipo di informazione non è evidentemente considerato rilevante, forse per la maggiore omogeneità sociale dei letterati, più probabilmente per una più forte influenza del modello classico di biografia. Solo la Pinacotheca Imaginum, Illustrium, doctrinae vel ingenii laude, Virorum, qui, auctore superstite, diem suum obierunt di Gian Vittorio Rossi fa parzialmente eccezione. [56] Qui qualche attenzione allo splendore o, al contrario, alla parsimonia, viene infatti prestata, anche se, nella maggior parte dei casi si tratta di osservazioni del tutto occasionali. Di Zoilo Ardelio (pseudonimo di Ferdinando Carli [57]), familiare dei cardinali Scipione e Pier Maria Borghese nonché proprietario di una quadreria piena, secondo lui, di opere di Michelangelo, Raffaello, Correggio e Tiziano, Rossi per esempio scrive: «era liberale, splendido, ospitale; & nei pranzi e nelle cene (che non poco spesso dava agli amici) nessuno era più generoso o più copioso: e infatti non era avaro di nulla, tranne che di lodi». [58] Di Girolamo Boccaferri, scrittore bolognese, ricorda che lasciò tre figli e che vissero tutti e tre con «splendore e buoni uffici». [59] Del poeta genovese Ansaldo Cebà che era tanto ricco quanto generoso. [60] Ma è a proposito del medico Alessio de Alessi che Rossi si sofferma sull'importanza del «trattarsi». Alessi era infatti
«uso ad un genere di vita splendido ed elegante. Infatti non risparmiò nulla di quello che guadagnava con la sua industria, ma spendeva largamente tutto nel trattarsi con nitore e spirito; contro il costume volgare e abituale dei medici che, negando quasi tutto alla natura e alla necessità, fuorché ciò che tollera la loro dignità e condizione, si danno alla parsimonia in modo da lasciare un più ampio patrimonio ai propri eredi, i quali con animo ben diverso, ottenuto il proprio, nutrono e appagano il proprio lusso». [61]
Gli autori di Vite individuali sono meno reticenti. Manso, ad esempio, dedica almeno mezza pagina alla descrizione degli abiti e della biancheria di Tasso:
«Fu egli in ogni suo atto singolarmente modesto, ed in ispezieltà negli abiti, perciocché sempre gli piacque, ancor nell'età puerile, il vestire di color nero e di semplici drappi, senza lavoro o fregio alcuno, e con assai minor pompa di quello che alla sua nobiltà e alla fortuna altresì convenuto sarebbe. Né delle vesti volse giammai aver più di quell'una sola che continuamente adoperava, la quale dovendo, o per lo mutamento delle stagioni, o perché fosse logorata lasciare, incontanente donava a' poveri e prendeva l'altra. I panni lini parimenti usava semplici e senza ornamento di trapunti, né di merletti, quantunque amasse di tenerne molti e bianchissimi, perciocchè tutt'i suoi vestimenti, come che pomposi non gli volesse, si compiaceva nondimeno che fossero puliti e bene assettati, nel che solamente cortigiano egli si dimostrava». [62]
Subito prima e subito dopo questo brano, Manso ha descritto e descrive la «singolare modestia» e la temperanza di Tasso in tutti i suoi comportamenti. L'abito è dunque solo la manifestazione esteriore di un carattere morale ed è qui che si rivela la persona eccellente, che non è pomposa e tuttavia tiene a essere pulita e ben assettata.
Agli imperativi del decoro si era d'altronde assoggettati anche personaggi inizialmente «noncuranti», come Marino o il Guercino. Baiacca narrava, infatti, che per gran parte della sua vita «egli [Marino], come intento agli studi, poco d'ogni lautezza curandosi, in povero albergo, non senza qualche licenza di costumi, filosoficamente si ricovrava. E quanto accurato nello scrivere, tanto trascurato nel vivere, tutto ad abbellir le sue composizioni impiegandosi, nulla all'ornato del corpo pensando, o alla cortigiana pulizia e delicatezza». [63]
Col passar del tempo tuttavia anch'egli si era adeguato ai canoni della vita di mondo e «contro il suo costume, negli ultimi anni dopo il ritorno di Francia [era] fattosi egualmente cólto ed elegante così nel vestire, come nello scrivere». [64] Lo stesso si poteva dire di Gian Vincenzo Pinelli «nel cui comportamento e modo di vestire si poteva notare una certa eleganza e splendore, benché non al di là del conveniente per un privato. Non indossò mai vestiti di seta; usava vestiti di lana ma di splendida fattura, evitando il lusso ostentato in tutti i modi […]. L'abitazione, nella parte che dava verso l'interno, l'aveva arredata e adornata con grandi mappe geografiche e con ritratti di uomini illustri». [65]
Quanto a Guercino, secondo Passeri:
«Quando egli disloggiò da Cento, e si stabilì in Bologna era di costumi rozzissimo, indiscreto, ed incivile più atto a commettere mancamenti, che atti di civiltà; ma col praticare l'usanza cittadina guadagnò un modo piuttosto disinvolto, e cortese, e si rendeva meno abominevole, ed odioso nel praticarlo. E' ben vero che i suoi congiunti di casa, non poterono mai lasciare quel costume nativo del villaggio, e davano colla loro rustichezza poca sodisfazzione a quei, che praticavano la sua casa, sicché molti si astenevano di frequentarla […] Nel discorso era inameno, ed insipido, ne si curava di praticar molto, ne che alcuno andasse a trovarlo per conoscerlo, rendendosi poco obbligante a chi ci andava, e non voleva intorno se non alcuni suoi discepoli. Poco di casa usciva, non avendo altro diletto che dipingere, e stare nella sua solitudine». [66]
Malvasia però corregge il tiro, spiegando: «Guadagnò il Guercino con le sue onorate fatiche gran somma di denari, come si rileva dal libro scritto di mano di Paolo Antonio suo fratello, ma spese ancora con generosità, godendo di aver casa ben mobigliata, e provista di adobbi, pitture ed argenterie, onde facea decorosa comparsa». [67]
L'autoritratto del pittore, che indossa una casacca di sontuoso damasco nero, conferma la sua trasformazione da rustico paesano in gentiluomo elegante.
Come gli storici dell'arte, i biografi di Tasso, Marino e Pinelli sentono dunque il bisogno di dire qualcosa anche a proposito del loro modo di «trattarsi». E anche Viviani sottolinea la socievolezza di Galileo dicendo che
«quantunque gli piacesse la quiete e la solitudine della villa, amò però sempre di avere il commercio di virtuosi ed amici, da' quali era giornalmente visitato, e con delizie e con regali sempre onorato. Con questi piacevagli trovarsi spesso a conviti, e con tutto fosse parchissimo e moderato, volentieri si rallegrava, e particolarmente premeva nella esquisitezza e varietà de' vini d'ogni paese, de' quali era tenuto continovamente provvisto dall'istessa cantina del serenissimo granduca e d'altrove: e tale era il diletto ch'egli aveva nella delicatezza de' vini e dell'uve, e del modo di custodire le viti, ch'egli stesso di propria mano le potava e legava negli orti delle sue ville, con osservazione, diligenza e industria più che ordinaria».
La persona eccellente si rivela anche in questi gesti fuori dell'ordinario e nella raffinatezza più che nella sovrabbondanza della sua mensa.
2. I ritratti
I ritratti e le «pinacoteche» di uomini illustri sono spesso puramente letterari; ciò non toglie, tuttavia, che alcuni di loro si siano fatti fare un vero ritratto - o un autoritratto, quando si tratta di pittori -. Ancor più delle Vite i ritratti di artisti sono un prodotto del Rinascimento e la palma dell'invenzione va ancora una volta a Giotto. Secondi Vasari, infatti, quando questi intorno al 1330 aveva decorato di ritratti di uomini illustri il Castello Nuovo di Roberto d'Angiò aveva incluso nel ciclo anche la propria immagine. [68] E come nel caso delle Vite anche in questo il centro propulsore era stato Firenze. Nel corso del '500, il percorso parallelo delle biografie da un lato e delle rappresentazioni pittoriche dall'altro aveva trovato punti di convergenza in operazioni come gli Elogia veris clarorum virorum imaginibus apposita, quae in musaeo ioviano Comi spectantur di Paolo Giovio [69] o la «piccola galleria di ritratti di pittori - tra cui Andrea del Sarto e l'idolatrato Michelangelo - dipinta da Vasari dopo il 1542 nella sua casa di Arezzo». [70] A partire da qui si era diffusa la pratica di raccogliere serie di ritratti di artisti e in questa operazione si era non a caso distinta l'Accademia di San Luca, su impulso di Federico Zuccari, suo «principe» nel 1593-94. Altrettanto significativo appare il fatto che la collezione della Galleria degli Uffizi si faccia risalire all'iniziativa di un grande mecenate come Leopoldo de' Medici. [71]
L'idea di Zuccari di ornare le sale di quello che era l'organismo preposto alla promozione delle arti figurative con le immagini dei loro più grandi rappresentanti dimostra come le serie di ritratti e autoritratti partecipassero dello spirito di autocelebrazione che era alla base delle raccolte di biografie. E naturalmente ritratti e autoritratti avevano anch'essi qualcosa da dire a proposito dello stile di vita e del «trattamento» degli artisti, oltre che su cose più profonde come l'individualità del soggetto e la capacità dello sguardo del pittore di vedere al di là della superficie delle cose. I tanti bellissimi ritratti che presento nel prossimo capitolo sono esempi eloquenti di tutto questo. Il linguaggio non è però solo quello degli abiti e della loro maggiore o minore ricchezza. Il senso di sé della persona ritratta e l'importanza che il pittore assegna alla propria capacità di trasmetterlo traspaiono infatti dallo sguardo, dalla mimica facciale, dalla postura della testa e del busto. Ciò non toglie che gli abiti svolgano la loro parte, mettendo in evidenza quell'antitesi tra lusso e politezza di cui ho parlato. Il «pomposo» Van Dyck si autorappresenta, per esempio, vestito di seta o di velluto, con le «collane d'oro attraversate al petto» sempre bene in vista. Non contento di questo, attraverso il gesto delle mani, nel secondo autoritratto stabilisce un'equiparazione tra se stesso e il girasole, simbolo al tempo stesso della sua devozione al re Carlo I d'Inghilterra e della capacità del pittore di vedere oltre la realtà sensibile. [72] E il Rubens ormai insignito di una signoria si dipinge avvolto in un mantello di raso e di velluto, una mano appoggiata sull'elsa della spada, l'altra avvolta in un lungo guanto, e un cappello piumato in testa. Anche l'autoritratto di Tiziano da vecchio metteva in luce lo status nobiliare ormai raggiunto: l'artista vi sfoggiava infatti le insegne da cavaliere dello Speron d'oro e conte palatino che gli erano state conferite dall'imperatore Carlo V e una sopravveste di pelliccia. Una catena da cavaliere ornava anche il petto di Giorgio Vasari, con il rosso dell'insegna che risaltava sul fondo nero dell'abito. E infine l'autoritratto di Giovanni Battista Passeri, vestito di un sontuoso abito di damasco nero e seduto a un tavolo coperto dei suoi libri, con in mano la penna con la quale li sta scrivendo, metteva in scena la figura dell'artista-storiografo e ne celebrava tutto lo splendore. Passeri infatti non si limitava ad affidare la sua eccellenza a un abito di lusso e a un'evocazione della scrittura, ma vi aggiungeva, sullo sfondo, un tendaggio di seta rossa simile a quelli che si possono ammirare in tanti ritratti nobiliari e lo scorcio di un portico con colonne corinzie e statue di marmo. [73] Attraverso il riferimento all'antico la grandezza del gentiluomo che si offre al nostro sguardo, già sancita dall'evocazione della ricchezza, della raffinatezza e della cultura, ne emerge ulteriormente rafforzata.
A conferma delle loro preferenze per un'apparenza più misurata, altri pittori si rappresentano invece in abiti di sicuro decoro ma privi di pompa: Guido Reni è correttamente vestito di un sobrio abito nero e, a dimostrazione della propria «pulizia», al collo sfoggia un collare immacolato. Nicolas Poussin è invece interamente avvolto in un mantello di raso nero che gli conferisce un'aria dignitosamente severa. E Francesco Albani adotta anche lui la mise «borghese» del tempo - il «modo privato» di cui parla Paolo Gualdo a proposito di Pinelli -, costituita da abito di lana nero e collare piatto di lino inamidato. Al contrario, a conferma di quella noncuranza di cui riferisce Bellori, il collare di Annibale Carracci appare assai bisognoso delle cure di una stiratrice. Quanto a Salvator Rosa, la sua sobrietà si ammanta volentieri di valenze filosofiche e classicheggianti. [74] In un autoritratto del 1645, in cui si rappresenta vestito da campagna ma al tempo stesso avvolto in una sorta di laticlavio bruno che la mano tiene a posto con un gesto da senatore romano, egli stringe in mano un cartello su cui campeggia la scritta «Aut tacere aut loquere meliora silentio». Adeguandosi all'austerità del motto, il viso è debitamente corrucciato. E in un altro di poco successivo, se l'abito risulta decisamente più moderno e ricercato e il capo è coronato di alloro, l'atteggiamento continua ad essere di filosofico distacco. Sopra un libro di Seneca posa infatti un teschio, sul quale il pittore è intento a scrivere una frase in Greco: «ἠνί ποῖ ποτέ», ecco dove [finiremo] un bel giorno. [75] Non solo filosofo dunque, ma anche padrone della cultura classica.
Sgualcitura a parte, e in qualche caso persino compresa, non sono certo gli abiti a distinguere questi artisti dai letterati loro contemporanei: Gian Vincenzo Pinelli, Galileo, Vincenzo Viviani e Giovan Pietro Bellori si offrono allo sguardo dei loro ritrattisti vestiti in modi in cui l'unica cosa che cambia sono le dimensioni del collare, che dopo la metà del secolo si allunga a coprire il petto, e l'acconciatura dei capelli, non più corti ma lunghi e riccioluti. Non tutti i letterati sono tuttavia così sobri: Giovan Battista Marino sfoggia un abito dagli inequivocabili riflessi serici, ornato di un sontuoso collare a lattughe. Anch'egli tiene inoltre bene in mostra le sue insegne da cavaliere. Altrettanto se non più pomposi appaiono i medici e naturalisti Girolamo Mercuriale, Michele Mercati e Girolamo Fabrizi, i primi due coperti da zimarre foderate di martora, il terzo con al collo la doppia catena e l'insegna dell'ordine di S. Marco. Una ricca pelliccia, di leopardo in questo caso, copriva anche le vecchie membra del filosofo Giusto Lipsio, nel ritratto che ne aveva fatto il giovane Rubens, nonché quelle del giurista Giacomo Menocchio. E se Prospero Farinacci non indossa una pelliccia, si fa pur sempre ritrarre avvolto in un ampio mantello foderato di scarlatto, seduto a un tavolo coperto da un sontuoso tappeto orientale.
Un'immagine - e a maggior ragione un ritratto - non si limita tuttavia a documentare una realtà pre-esistente. Essa è in realtà dotata di ben altri poteri e ben altra capacità di esercitare influenza su chi la guarda. Ecco quindi che gli elementi che citavo prima - lo sguardo, la mimica facciale, la gestualità, la postura, la stessa ambientazione - assumono un ruolo di rilievo che va oltre quello degli abiti di seta o di lana, dei colli inamidati o sgualciti, dei mantelli e delle collane da cavaliere. Poussin è severo e assai poco sfarzoso, ma la dignità e l'eccellenza espressa dalla sua figura drappeggiata come un antico senatore [76], quantunque in nero anziché in bianco, è pari a quella evocata dal ritratto del feudatario Rubens, della sua mano guantata e della sua spada, o a quella che emana dalla nobile disinvoltura del Guido Reni maturo e soprattutto del vecchio Bernini e delle sue dita affusolate, il quale sembra ormai incarnare la quintessenza della sprezzatura cortigiana. Alle mani di Bernini, come a quelle di tanti altri artisti e persino di medici viene infatti affidato un ulteriore messaggio: anche se stringono un pennello o un compasso o un altro attrezzo, esse appaiono sempre bianche e delicate, col palmo morbido e privo di callosità e con le unghie impeccabilmente pulite. Il ritrattista le ha dunque volutamente liberate da «ogn'atto meccanico», come dice Bellori, con ciò «accrescendo dignità» non solo a quegli arti ma all'intera persona. [77]
Altrettanto nobile appare la gestualità del vecchio Marino, la cui eccellenza è dichiarata non solo dall'abito, ma dall'espressione del volto, dalla postura, dall'ambientazione. Nel ritratto di Frans Porbous egli è infatti seduto in una posa molto simile a quella dell'avvocato Farinacci e, come lui, tiene tra le mani un libro, l'insegna del suo valore più autentico. In effetti un libro tra le mani è un segno identificativo molto forte e non a caso anche Bellori è rappresentato così.
La capacità comunicativa dei ritratti si avvale dunque di una pluralità di elementi e, attraverso la pratica, gli artisti dovevano sicuramente aver acquisito una notevole abilità e consapevolezza nel maneggiarne le regole. Ma se il ruolo delle effigi degli uomini illustri era di eccitare all'emulazione virtuosa qual era il potere di queste immagini di artisti, letterati, studiosi, dottori? Appese negli spazi pubblici della casa ed esposte allo sguardo dei visitatori, esse avevano il potere di evocare l'invisibile - l'eccellenza dell'ingegno e della dottrina - e ad esse era affidato il compito di trasformare uomini di ceto mediocre in «persone eccellenti». In questo senso esse non facevano altro che ripetere, con un linguaggio diverso, le stesse cose che dicevano le Vite. Ed, esattamente come le Vite, non si limitavano a rappresentare qualcosa, ma agivano sugli spettatori. Dipinti o scolpiti, i ritratti godevano oltretutto di una risorsa in più: ben più delle parole le immagini sono in grado di suscitare empatia. [78] Le particolari facoltà comunicative di cui sono dotate si basano infatti sulla loro capacità di stimolare nell'osservatore forti processi di adesione e imitazione empatica. [79] Ciò conferiva un'inedita evidenza fisica alla rappresentazione figurata della «dignità», militando a sostegno delle rivendicazioni di chi si sentiva nobile per ingegno e dottrina. Inoltre, come le singole biografie acquistavano maggior forza nel momento in cui erano inserite all'interno di opere generali, tese a ricostruire non un caso singolo ma un percorso collettivo verso la perfezione, così i ritratti raccolti ed esposti tutti insieme alle pareti delle sale di un'Accademia, di un Collegio professionale o di un'altra istituzione analoga [80] agivano l'uno sull'altro come moltiplicatori della propria forza di impatto. Dotate di una fisicità di cui le biografie erano invece carenti, le raccolte di ritratti erano meglio in grado di trasformare dei generici spazi in «luoghi» cioè in «contesti [fisici] generati da tecniche di rafforzamento di relazioni intrinsecamente fragili» il cui scopo «è la produzione di soggetti che sappiano appartenere in modo competente a una specifica località». [81] E in questo senso rispondevano appieno a quelle che erano le intenzioni dei fondatori dell'istituzione: trasformare una semplice adunanza di persone in un generatore di eccellenza.
3. La parola agli inventari: gli abiti
Come ho detto nell'introduzione, la natura rapsodica della documentazione disponibile mi costringe a un gioco continuo di rimandi analogici. Per colmare la carenza di fonti in un campo devo infatti ricorrere a quanto ho di più vicino e più simile. [82] Così, volendo ora verificare attraverso gli inventari - cioè attraverso elenchi di oggetti effettivamente posseduti - se le «persone eccellenti» si vestissero veramente di seta e tenessero spade e se le loro case fossero realmente arredate in maniera raffinata e contenessero oggetti non ordinari, devo rivolgermi ai documenti disponibili, anche se solo in rari casi essi rimandano agli individui che ho menzionato fin qui, quelli la cui vita è stata considerata degna dell'attenzione di un biografo oppure che hanno posato per un ritratto. Spero infatti che le proprietà di altri artisti, altri avvocati, altri letterati possano avere qualche somiglianza con le loro, che solo qualche volta ci sono note, e possano quindi darci un'idea delle dimensioni del fenomeno descritto dai biografi.
La prima cosa che emerge da questo confronto è una conferma: quel che dicono le Vite e i ritratti dicono anche gli inventari. Dagli abiti e dagli arredi è infatti possibile individuare chi è più «pomposo», chi è «sobrio» e chi al contrario è «noncurante». In realtà la categoria dei «pomposi» nel vestire, che potremmo definire tali in base al possesso di abiti di seta o di velluto, si restringe a tre soli personaggi: il letterato Lelio Guidiccioni, l'architetto Francesco Peparelli e il pittore Francesco Raspantini.
Traduttore dell'Eneide, fondatore, insieme ad altri, dell'Accademia degli Umoristi e segretario prima del cardinale Scipione Borghese e poi di Antonio Barberini, che gli procura un canonicato di S. Maria Maggiore, il primo ha un guardaroba all'altezza del suo stato. Vi compaiono infatti zimarre di damasco e di velluto, gipponi di velluto e di raso, ma anche guanti e cappelli e un gran numero di camicie, calzette e fazzoletti. E per le sue cotte da prelato, non si accontenta di un tessuto qualsiasi ma sceglie la fine (e costosa) tela di Cambrai. [83]
Anche l'architetto Peparelli possiede un completo di velluto, operato, oltre a un elegantissimo insieme composto da «ferraiolo, calzoni e casacca di saia francese trinciata color muschio, guarnita da una bottoniera d'argento» e accompagnata da un gippone «di raso argentino». D'altra parte il merletto d'oro e d'argento si ritrova persino in alcuni suoi legacci per calzette. Completano il tutto collari e manichetti con merletti o a lattughe, e diverse paia di guanti.
Molto simile è il guardaroba del pittore Raspantini, composto da diversi abiti di velluto o di velluto e raso, oltre che da un completo di lana fine guarnito di «bottoni, stringhe e cordoni d'oro alla spagnola». Anche lui ovviamente possiede collari e manichetti di vari tipi e fogge - alla spagnola, di pizzo, con merletti, senza merletti - oltre a guanti e cappelli. Passeri che non lo ama di lui dice testualmente: «fece poca riuscita». Ciò non toglie che, se Francesco si fosse seduto accanto a lui, i suoi begli abiti non lo avrebbero certo fatto sfigurare.
Fatta eccezione per questi tre, la maggior parte dei personaggi che in un modo o nell'altro ambiscono a definirsi «persone eccellenti» e che hanno lasciato un inventario appartiene piuttosto alla categoria dei «sobri», vale a dire di coloro che perseguono un onesto decoro, senza strafare. Ne fanno parte gli eruditi Francesco Angeloni e Giovanni Giustino Ciampini, gli architetti Francesco Borromini e Charles Errard, gli avvocati Felice Amadori e Nicola Pari, il commediografo Giovanni Azzavedi, il pittore e autore di Vite Giovanni Baglione e lo scultore Ercole Ferrata.
Anche la sobrietà ha, tuttavia, le sue gerarchie, legate all'età della persona oltre che al suo successo professionale e al livello delle sue entrate. I 65 anni di Francesco Angeloni fanno, per esempio, sì che i suoi abiti siano quasi tutti piuttosto logori e che a lui si possano quasi applicare le osservazioni di Baldinucci a proposito di Caravaggio: «vestivasi di nobile drapperia, né mutavasela mai, sin tanto non se la vedeva cascare in terra a brano a brano». [84] Al momento della morte egli possedeva infatti due giupponi che in origine erano stati certamente «nobili». Il primo era «di corame ricamato di seta e d'argento», e il secondo «di velluto piano». Ambedue erano però ormai vecchi e uno era così malconcio da essere definito «gipponaccio», come vari altri pezzi del suo guardaroba, tutti meritevoli del suffisso peggiorativo. [85] La «dignità» di Angeloni, segretario del cardinal Aldobrandini, erudito, fine intenditore di anticaglie e proprietario di un museo degno di essere descritto in una guida di Roma, si traduce anche nel possesso di alcune «zimarre da dottore». Una di esse è come al solito così malconcia da diventare una «zimarraccia», ma le altre due sono solamente «vecchie», come il loro proprietario.
Non è da meno Francesco Borromini, a conferma di quello che di lui scriveva Passeri, che gli rimproverava la foggia antiquata delle sue mises. Nel suo inventario troviamo infatti menzionati solo due vestiti da campagna e quattro abiti neri, evidentemente da città, tre ferraioli, due cappelli vecchi, sei camicie, cinque paia di calzette, ventiquattro fazzoletti e un numero imprecisato di collari e manichetti. [86] Al contrario di quanto avviene per altri inventari e altri guardaroba, nessuno di questi indumenti attira l'attenzione del notaio, che non perde tempo a descriverli, a indizio del fatto che forse non avevano proprio nulla di notevole, ma erano effettivamente vecchi e fuori moda.
Altrettanto sobrio nel vestire è Giovanni Giustino Ciampini, per altri versi vicino a Guidiccioni, almeno per quel che riguarda la carriera e gli interessi. L'inventario dei suoi abiti non solo è piuttosto breve, ma anche del tutto privo di indumenti di seta. Il massimo lusso che egli si sia concesso è costituito dal fine panno d'Olanda. Eppure conosce il valore dei begli abiti: nell'inventario è menzionato uno splendido abito da donna «di broccato color d'aria o perla guarnito d'oro e argento» che molto probabilmente rappresenta un dono da lui fatto alla cognata al momento delle nozze. [87]
Anche l'architetto Errard non cerca le sete ma si accontenta di completi di panno fine. E tuttavia possiede due parrucche che certamente sono segno di ricercatezza e di attenzione all'apparire: la sua origine francese si rivela anche in questo. Gli abiti della moglie, come vedremo tra poco, confermano che non è certo insensibile alle leggi del lusso e della moda.
In tutt'altro ambito professionale i due avvocati Amadori e Pari, possiedono guardaroba che non si discostano dai modelli incontrati fin qui. Ambedue sono molto curati e i loro armadi abbondano di camicie, collari e manichetti, nuovi oltre che usati e vecchi. Tuttavia nessuno dei due fa sfoggio di qualcosa di più di un onesto decoro: la lana, quantunque di ottima qualità, prevale largamente sulla seta, confinata agli accessori o ad alcuni complementi dei completi come il giustacuore in un caso, le maniche in un altro.
Lo stesso si può dire per il commediografo Azzavedi. Se tra i suoi abiti di lana fine compare un po' di seta, è solo per qualche particolare: la fodera di un ferraiolo, una giubba, un gippone da portare sotto una casacca di tela di lana. Al vertice di questa gerarchia dell'apparire, al confine tra il sobrio e il pomposo, troviamo infine lo scultore Ferrata, proprietario un completo composto da calzoni, giuppone e ferraiolo di «telettone tutta seta» nero, e di un «ferraiolo con passamano d'oro alto» di cammellottino fino di Bruxelles.
Come Ciampini anche altri di questi personaggi sono proprietari di abiti da donna, che le leggi sulla separazione dei beni tra coniugi evidentemente assegnano a loro anche se vengono usati dalle loro mogli o figlie o altre parenti. Molti di quelli in possesso di Errard sono veramente belli, e anche costosi. I più preziosi sono un abito di «panno scarlatto» formato da «manto e sottanino guarnito d'oro, con suoi alamari simili, foderato di amuer d'oro», che vale ben 25 scudi; un «sottanino grande di damasco giallo guarnito di merletto d'argento et oro» che ne vale 20; e un «abito di manto e sottanino di broccato di color torchino e oro» che ne vale 15. Gli abiti di Amadori non sono accompagnati da una stima del loro valore, ma altrettanto prezioso appare il «busto di drappo d'oro turchino fiorato guarnito con trina d'oro» menzionato tra i suoi beni. E molto ricercati appaiono anche il completo di «zimarra, veste e busto» di teletta vellutata nera e quello di «zimarra, veste e busto di manto di Spagna leonato, foderato di taffetano paonazzo», oltre al «busto di teletta vellutata a fondo d'oro ranciato e nero», con le sue «maniche di lama d'oro ranciata», tutti appartenenti a Peparelli. Hanno dunque ragione quegli autori che sottolineano come i loro biografati non badassero solo al proprio apparire, ma «trattassero» bene anche le proprie mogli, vestendole di seta.
Com'è nel nostro immaginario e come appare dai ritratti, il colore dominante degli abiti da uomo è il nero, ma alcuni amano anche il colore. Guidiccioni e Peparelli, per esempio, quasi preferiscono il berrettino, mentre ad altri non dispiace il turchino e, per le zimarre da casa, il paonazzo. Non è quindi impossibile immaginare il cavalier Raspantini, con indosso il suo bel vestito di «ormesino cangiante fior di borraggine», rimirarsi allo specchio in una posa analoga a quella del pomposissimo Van Dyck, che nell'autoritratto del 1632 indossa appunto un abito di seta di colore pastello.
4. Gli arredi
L'aspetto degli interni domestici dei nostri personaggi è in relazione dialettica con quello dei loro abiti: a volte corrisponde, altre è in forte contrasto. L'Angeloni dal misero guardaroba, per esempio, ha una casa arredata in maniera certamente non pomposa e di sicuro logorata dal tempo: solo una stanza è tappezzata di corami, tra l'altro «vecchi assai», i mobili sono quasi sempre vecchi e spesso pure rotti, e il legno di cui sono fatti il più delle volte non è il noce ma il più dozzinale albuccio. Eppure non manca una certa ricercatezza: tavoli e tavolini sono ricoperti da tappeti o copertine di corame, un armadietto di noce è filettato d'oro, una credenza è dipinta a figure. E soprattutto tavoli, tavolini, buffetti e credenzini sono in gran numero, a testimonianza del fatto che il loro proprietario ha bisogno di parecchi contenitori per i suoi numerosi tesori. Le pareti delle stanze, prive come ho detto di parati di corame o di rasetto, sono tuttavia ricoperte di quadri secondo uno stile assai in voga nella Roma del tempo. [88]: almeno 34 nella sala, altrettanti nella stanza contigua dove viene esposto il corpo ormai senza vita di Francesco e quasi una cinquantina in quella che presumibilmente era la sua camera da letto e nella quale era morto. L'apparente meschinità della mobilia è inoltre riscattata dalla presenza di un «museo», così prezioso da meritare un inventario a parte, redatto dal proprietario in persona. [89] Un Dialogo intitolato Dello studio dell'opere più belle della Natura e dell'Arte, scritto nel 1630-31 e rimasto manoscritto, ne descriveva sia il contenuto che l'allestimento: nella prima sala erano esposte tre categorie di naturalia - marine, aeree e terrestri - seguite da antiquaria e curiosa, costituite da armi «Turchesche e Moresche, e Persiane, e Tartare e […] Indiane», «gran cochi o noci d'India, che servono hora per vasi, e que' pelli che paiono di velo fatti dalle lor foglie, delle quali lavorano li Portoghesi li cappelli leggerissimi». [90] Seguivano «canne d'India, et altri bastoni di verzino e di legni odorati e lavorati, et alcuni occhiali chiamati del Galilei, e certe gran carte piegate che fanno segno di fuori di esser piene di caratteri dell'India e della China; et altri portar dipinti de gli animali e delle piante, e forse de gli habiti di que' paesi, e diversi vasi di terra e di legno Indiani». [91] Le altre tre sale contenevano la quadreria, le collezioni di medaglie e monete, e soprattutto una raccolta di piccoli reperti archeologici che costituivano il pezzo forte dell'intero «museo». [92] Questi reperti contribuivano non poco alla reputazione del loro proprietario, il quale, «essendo dotato di gentilissimi, et humanissimi costumi, apriva a ciascuno liberalissimamente la sua casa, e le ricchezze del suo Museo, onde ne conseguiva l'amore de' nostri e di quelli che da lontane parti sogliono peregrinare a Roma». [93] E in effetti nell'arco di 30 anni, tra il 1620 e il 1650, esso era stato visitato da circa 600 artisti e studiosi, tra cui anche Charles Errard. [94]
Gli antichi manufatti raccolti nel «museo» costituivano inoltre la base documentaria dell'opera intitolata L'Historia Augusta da Giulio Cesare a Costantino il Magno, illustrata con la verità delle antiche medaglie da Francesco Angeloni. [95], redatta proprio grazie all'apporto originale e diretto della numismatica, capace di far giungere lo studioso a un «maraviglioso intendimento delle cose antiche, accoppiando col detto degl'Istorici il veridico testo delle Medaglie». [96] Dall'antiquaria alla filosofia naturale l'approccio non variava. Angeloni possedeva infatti anche un gran numero di
«istrumenti della cosmografia, o geografia, e dell'arte del navigare […] e dell'arte del distillare, […] dell'optica, o della prospettiva» e ne esaltava il ruolo dirompente sostenendo che da quando erano entrati in uso era «stato necessario di pensare a formare nuove propositioni, e nuovi insegnamenti della sfera, et una nuova astronomia e filosofia celeste; partendosi per dover seguitare piuttosto la verità che l'autorità delle dottrine, sin hora da Aristotele, e da Tolomeo, e da tutti i filosofi e matematici intorno ai corpi celesti insegnati. Parvi dunque una utilità di poco momento, che una sol'opera, e ben piccola e facile dell'arte, levando un velo da gli occhi del genere umano, et accrescendo ad essi una maniera di vedere sì grande, l'habbia tratto di tanti errori e cotanto insegnatoli?». [97]
Considerazioni non dissimili da quelle appena esposte a proposito della distribuzione degli ambienti e degli arredi di casa Angeloni si possono proporre per l'abitazione di Borromini. Anche l'appartamento del grande architetto è infatti pesantemente condizionato dalla presenza di un'infinità di oggetti, stipati in vari armadietti e credenzini o accatastati sui ripiani di tavolini e librerie, quando non lasciati semplicemente a terra. Le pareti, anche qui sempre libere da parati, sono ricoperte di quadri - più di trenta in camera da letto, circa cinquanta in sala, almeno venti in ognuna delle altre stanze -, a creare quell'effetto visivo di quadreria testimoniato dai coevi disegni e dalle stampe di «gallerie» che ci sono pervenuti. Più difficile è invece figurarsi come dovesse essere sistemata la miriade di altri oggetti - dalle statuine e ai vasi alle conchiglie e altro - che affollavano gli ambienti. Nella «stanza dove dormiva il cavalier Borromini», per esempio, ben 11 pezzi - «una statua di cera rappresentante un Cristo con una corona di spine in mano; un'altra di creta cotta rappresentante un fiume; un cavallino di metallo con sotto una base tonda; un Ercole di piombo con suo piedistallo; una fontana di metallo con due delfini, una sirena et una nicchia; una lumaca lavorata con un piedistallo in forma di piede d'aquila di metallo; cinque candelieri d'ottone» - hanno come unico possibile sostegno o contenitore «un tavolino di noce con due tiratori». Insieme a «una lettiera di ferro con suoi banchi tavole cielo dipinto con cornice indorata e pomi 4 d'ottone e quattro materazzi e un capezzale e doi coscini», tre sedie e tre sgabelli, una «seggietta da fare li servitij» e una «scantiola» da libri, quel tavolino oltretutto rappresenta l'unica mobilia della stanza. Nel corridoio la sovrabbondanza degli oggetti rispetto ai piani di appoggio è ancora maggiore: se i 16 quadri sono ovviamente appesi alle pareti e tre statuette, di cera rossa o di marmo, sono sistemate su altrettanti piedistalli, tutti i seguenti pezzi - «sette modelli uno rappresentante S. Andrea delle Fratte, l'altro S. Agnese in Navona, l'altro la Sapienza, l'altro la lumaca della Sapienza con la sua croce in cima, l'altro un modello con l'arme di Urbano, un altro la facciata della chiesa della duchessa di Latera [Santa Maria dei Sette Dolori], quattro de' quali sono di cera rossa l'altro di legno; due arme di creta, l'una con l'arme d'Innocentio, e l'altra d'Alessandro; diversi pezzi di cera rossa; sei pezzi di gesso di basso rilievo; due pezzi di calce dipinta; otto porticelle di cera rossa modellata sul legno; un pezzo di creta cotta con il battesimo di San Giovanni Battista» - sono semplicemente appoggiati su due «tavole di legno». La semplicità dell'allestimento non deve però trarre in inganno: quegli oggetti sono esposti, messi in bella vista a uso dei visitatori. Altri modelli e altre statuette, non adatti ad essere mostrati perché in cattive condizioni o decisamente rotti, sono infatti chiusi all'interno di un armadietto. La «Sala», che segue, condivide queste caratteristiche: i mobili veri e propri sono costituiti da sei sedie, un «cassabanco» e un tavolino. E qui è l'inventario stesso a chiarire la disposizione degli oggetti, spiegando che sopra al tavolino sono esposte «due teste di marmo col suo piedistallo; una guglia con la sua pietra sotto e piedistallo con una palla di mistura con la sua croce; una scopetta [spazzola] con il suo manico ricamato». Tutto il resto, cioè una cinquantina di quadri e una decina di pezzi di marmo o di mosaico, presumibilmente antichi, sono poggiati al suolo oppure appesi a una delle pareti.
Accanto alla sala, la stanza cui conduce il corridoio è anch'essa da mera esposizione: venti quadri alle pareti e, presumibilmente per terra, teste di gesso, marmo o metallo, statue di terracotta o di marmo - tra cui «un Christo di creta cotta fatta da mano di valenthuomo con il suo piedistallo tondo di marmo» -, medaglie di gesso o di bronzo, e oggetti decorativi vari come una colonnina, due palle di pietra, due conchiglie... Addossati al muro un tavolino di legno dipinto e uno «studiolo dipinto all'indiana», una «scanzia con sei tiratori» pieni di compassi, righelli e temperalapis, e infine un armadio a scomparti la cui descrizione ricorda le stampe dei musei di Ferrante Imparato o di Ludovico Settala: i diversi «spartimenti» contengono infatti medaglie antiche e moderne, pietre intarsiate d'argento, bronzetti antichi e così via. [98]
Il resto della casa non è da meno: quadri, marmi, iscrizioni antiche si ritrovano dappertutto, compreso il pianerottolo, i cui arredi sono così descritti nell'inventario: «sei pezzi di gesso; un leone, una testa; un mascherone; un bassorilievo; una medaglia del deposito di Michelangelo Bonarroti; una fontanella di stagno con diversi zampilli che fa gioco; sei pezzi di pietra a lapida scritti all'antica; una testa di marmo di un vecchio con un pieduccio sotto; un paese di pittura di due palmi da ogni lato con la sua cornice dorata; il ritratto di Papa Innocenzo in grande con la fabbrica di San Giovanni Laterano e suo disegno; un quadro che rappresenta la Madonna con il puttino di palmi tre e due con la sua cornice con filo d'oro; un quadro con tre faccie in una, con sua cornice filata d'oro; un gesso di leone grande del naturale». [99]
Come tutti gli artisti del suo tempo, Borromini è anche un grande raccoglitore di disegni e stampe: i suoi scaffali ne traboccano. Ma è anche un bibliofilo, proprietario di quasi 500 libri, alcuni dei quali quasi sicuramente costituiti da raccolte di stampe o incisioni di autori famosi, da Dürer a Tempesta. [100] E anche questo genere di manufatti può entrare a pieno titolo in un museo.
Nonostante la stravaganza di voler vestire all'antica, Borromini non è dunque minimamente ignaro della potenza suggestiva delle cose, della loro capacità di indurre impressioni durevoli in chi le osserva e di configurare un'immagine specifica del loro proprietario. Il suo è un vero e proprio «museo», allestito per essere ammirato e al tempo stesso pienamente in grado di contribuire all'eccellenza di chi lo ha messo insieme. Il grande artista potrebbe forse farne a meno, ma come tanti altri nelle sue condizioni, non disdegna di mettere in campo altri titoli di nobiltà, oltre la sua arte: la connoisseurship è un valido sostegno.
Se quello di Borromini è un museo di fatto, quello di Ciampini lo è anche di diritto e come tale figura nelle guide di Roma. [101] La sua Sala è in realtà una galleria, in cui il padrone di casa espone i pezzi migliori della sua collezione di marmi antichi. Qui le pareti non sono tanto ricoperte di quadri quanto di epigrafi (15), bassorilievi (19) e carte geografiche (4). Il resto dell'arredo è costituito da un centinaio di pezzi, tra teste (43), busti (25), piedi (10), vere e proprie statue e statuette (17) e altro, generalmente di marmo e presumibilmente antichi; alcuni sono disposti su «banconi da sala» o «sgabelloni», molti altri sono semplicemente appoggiati per terra. Un angolo della sala è dedicato alla geografia e, tra «una carta di Roma moderna tirata su tela lunga 18 palmi e larga 10,5», una seconda «carta tirata in tela con cornicetta rossa a filetti d'oro rappresentante un mappamondo lunga 11 palmi e alta 9, molto usata» e una terza «carta geografica in tela alta 2 palmi in quadro dello Stato dei tredici cantoni degli Svizzeri, vecchia», fanno bella mostra di sé due «planisferi turchini quadrati su tavola di 5,25 palmi l'uno, uno terminato, l'altro imperfetto» e «un mezzo mappamondo di carta pesta di diametro di 5,5 palmi, dorato dentro». Altri due mappamondi - celeste e terrestre - sono invece esposti nella stanza accanto.
La contigua «stanza dell'Accademia» dove, secondo i suoi biografi, Ciampini soleva radunare i suoi eruditi compagni, è leggermente più aperta agli umani: le pareti sono ricoperte di un parato di rasetto giallo e rosso, in coordinato con la portiera che ricopre la porta, l'unico tavolino, peraltro abbastanza grande, appare sgombro di oggetti e soprattutto sono presenti ben 11 «sedie d'appoggio» di vacchetta. Tutto intorno, montati su 12 sgabelloni, altrettanti busti di terracotta «rappresentanti uomini illustri» e 13 medaglioni, pure di terracotta, «rappresentanti re e imperatori con l'iscrizione del loro nome intorno»: sono gli accessori necessari alla celebrazione dei rituali accademici, descritti con precisione dal naturalista Paolo Boccone che racconta:
«Di mese in mese si suol fare l'adunanza in Casa di questo Prelato [Ciampini]. E secondo lo stile delle Accademie di Belle lettere, si fa l'Introduzzione all'Accademia di quel giorno con un discorso premeditato e ben tessuto […]. Indi il Segretario, overo Monsignore medesimo propone qualche dimostrazione, o fa vedere qualche sperienza, o Fisica, o Mecanica, ed allhora senza veruna soggezione gli astanti, con ordine, e con rispetto rispondono, obiettano, e pronunciano le loro difficoltà, e le loro opinioni, e se alcuno havesse qualche cosa di nuovo sopra altra materia ha tutta la libertà, che desiderar puote a communicarla. Dura questo congresso un paro d'ore, ne si vedono in esso, che persone le quali hanno particolar genio alla Virtù, Gentilhuomini, ed Abbati, o vogliam dire Togati. Nel fine dell'Accademia si propone, e si medita per la seguente conferenza quello che deve fare il discorso, o debba preparare, o terminare l'esperienze incominciate. Tutte le spese che abbisognano per l'esperienze, si fanno da questo generoso Prelato, nel quale va unita l'intelligenza delle Meccaniche, e della Fisica, ed inclinazione di promovere tutte le scienze». [102]
La sala dell'Accademia fisico-matematica in un'illustrazione coeva: il lato del tavolino. [103]
La sala dell'Accademia fisico-matematica in un'illustrazione coeva: il lato dei mappamondi. [104]
La stanza accanto, «dove era il letto di Monsignore», partecipa anch'essa di quell'allestimento a metà tra il museo e lo spazio destinato a ricevere che caratterizza quella dell'Accademia. Qui i parati sono di damasco cremisi, come la portiera e come le 14 sedie di appoggio e i tre sgabelli. Il letto c'è, ma è tutt'altro che monumentale. Il mobile dominante è senza dubbio uno «studiolo d'ebano con mostre di rame dorato» di dimensioni piuttosto grandi (6 palmi e un quarto, pari a poco più di 2 metri, per 3 palmi e mezzo, pari a poco meno di 90 cm). Nei suoi dieci cassettini esso racchiude non solo la collezione di medaglie di Ciampini, ricca di migliaia di pezzi, ma anche diversi strumenti scientifici tra cui «un quadrante per misurare l'altezza dei poli lungo 0,75 palmi, di ottone» e «un sestante per misurare l'altezza dei poli di 1,50 palmi, di ottone», una bussola, più varie altre tipologie di manufatti: pietre dure più o meno lavorate e piccoli vetri antichi nel secondo cassetto; figurine di bronzo nel terzo e nel quarto; tazze e vasetti di terracotta nel quinto; pietre, legni, avori, terrecotte, scolpiti o intagliati negli altri. In mezzo a tutto questo si trovano anche oggetti più difficilmente classificabili come «un pezzo di diaspro per stagnare il sangue» e «due funghi impietriti», uniche curiosità naturali dell'intera collezione.
L'aspetto delle stanze adiacenti è molto simile: qualche quadro alle pareti, qualche mobile e molte statue, statuine, frammenti di marmo, eventualmente lapidi e iscrizioni. In casa Ciampini c'è anche una vera e propria «Galleria», dove tutte le tipologie di oggetti descritti fin qui appaiono rappresentate alla grande: teste (26); statue grandi e piccole (41) tra le quali figura un Cristo giacente di Algardi; bassorilievi (16); qualche urna e altri frammenti di marmo; inoltre una civetta, un pesce, un coccodrillo e un uccello marino forse naturali forse scolpiti (e il coccodrillo non può non richiamare immediatamente alla mente l'immagine del museo di Ferrante Imparato) e tre specchi ustori. A differenza che negli altri ambienti, qui anche i quadri sono molto numerosi (220); accanto ad essi sono appesi frammenti di mosaico antico raffiguranti «una gallina africana» e un mascherone, e una decina di specchi o cristalli intagliati e, in alcuni casi, dipinti. [105] I mobili consistono in tre sgabelli lunghi, coperti di damasco, tre tavolini e due studioli piccoli d'ebano intarsiato d'avorio, tutti naturalmente ricoperti di manufatti vari che vanno dalle guglie e dalle palle di marmo o di alabastro alle tazze di porcellana e ai vasi e vasetti di rame. Tutti questi oggetti sono contraddistinti da un numero di inventario, a indizio del fatto che il loro proprietario li aveva registrati, probabilmente con l'animo di pubblicare un catalogo del suo museo. Dal momento che questa dovrebbe essere la stanza più pubblica della casa e anche quella più destinata a far colpo sui visitatori, vale la pena di soffermarsi sui soggetti dei quadri: ritratti e paesaggi sono largamente dominanti, anche perché ambedue le tipologie sono presenti non solo sotto forma di dipinti singoli ma anche in due serie di quadretti tutti uguali (38 nel primo caso, ben 71 nel secondo). Coerentemente con questa impostazione, i personaggi rappresentati nei quadri più grandi sono tutti di rilevanza pubblica e politica: quattro papi, due cardinali, il re e la regina di Polonia, il re dei Romani e l'imperatore, e infine Masaniello. Ciampini sembrerebbe decisamente filo-imperiale. Nulla sappiamo invece dei 38 ritrattini con cornicetta nera, ma la loro serialità formale suggerisce l'esistenza di una serialità di soggetto e possiamo quindi pensare che rappresentassero filosofi e altri sapienti oppure re e imperatori, e altre sequenze di personaggi di questo tipo.
Anche l'avvocato Amadori punta su una collezione di statue e frammenti di marmo: una cinquantina di pezzi, strategicamente disposti negli spazi più pubblici della casa: il cortile, dove un Bacco a figura intera sovrasta una fontana; il pianerottolo, nei muri del quale sono state create due nicchie che ospitano rispettivamente una figura intera di donna vestita e una testa di imperatore; l'ingresso della sala, con «cinque teste con busti di marmo dentro le nicchie»; la sala stessa, dove troneggiano cinque statue a figura intera accompagnate da otto teste montate su piedistallo e un bassorilievo con «tre figure piccole profane» e infine la stanza immediatamente adiacente, anch'essa ornata di teste di marmo e di statuine di alabastro di Volterra. Il notaio che redige l'inventario non è evidentemente in grado di dire se si tratti di pezzi antichi o moderni e tace quindi sull'argomento. Ma, fatta eccezione per le statuine di alabastro che appresentano le quattro virtù cardinali, i soggetti sono sempre rigorosamente pagani: un Apollo, diverse Veneri, un Mercurio, un filosofo, un fauno, un paio di consoli, alcuni imperatori… L'obiettivo dell'avvocato è certamente quello di mimare una collezione di marmi antichi. E a riprova di quanto ritenga preziosa la sua raccolta, la vincola con un fedecommesso perpetuo. Voglio - scrive egli nel suo testamento - «che non si possino mai vendere, imprestare, ne cavar fuori di casa le cinque statue, che sono nelle cinque nicchie nel corridoio avanti s'entri in sala, altre cinque statue grandi, e quattro teste con suoi busti, che sono in sala con suoi scabelloni, e cinque teste, che sono sopra il camino di detta sala, e quelle, che io ho ordinato che si faccino come sopra, ma che tutte, et singole debbino sempre stare sotto perpetuo fidecommesso». [106]
Come l'avvocato Amadori, anche l'architetto Peparelli possiede una collezione di statue e marmi, alcuni dei quali forse sono antichi mentre gli altri sono esplicitamente detti moderni. Anche in questo caso, i soggetti sono comunque in prevalenza pagani - dei, eroi, imperatori, consoli - di nuovo a suggerire l'idea di una collezione di antichità. L'esposizione è particolarmente curata: i marmi poggiano ciascuno sul suo piedistallo, che a volte è dipinto, altre volte è intagliato o decorato con le armi del proprietario. Statue e statuine sono inoltre accompagnate da una gran quantità di quadri (una sessantina nella «Galleriola», quasi altrettanti nelle stanze adiacenti), mentre i mobili non sembrano particolarmente memorabili, ad eccezione di due «forzierini» e uno studiolo «lavorati all'indiana».
Angeloni, Borromini, Ciampini, Amadori e, in certa misura, anche Peparelli puntano dunque a mettere in scena la propria eccellenza non tanto attraverso la sontuosità dei propri abiti o lo splendore dei propri arredi domestici quanto attraverso la ricchezza delle loro collezioni. Tutti erano d'altronde consapevoli del valore simbolico di una raccolta di oggetti d'arte o di libri. In un suo passo diventato celebre Galilei aveva preso spietatamente in giro queste aspirazioni velleitarie, descrivendo lo «studietto di qualche ometto curioso, che si sia dilettato di adornarlo di cose che abbiano, o per antichità o per rarità o per altro, del pellegrino, ma che però sieno in effetto coselline, avendovi, come saria a dire, un granchio petrificato, un camaleonte secco, una mosca e un ragno in gelatina in un pezo d'ambra, alcuni di quei fantoccini di terra che dicono trovarsi ne i sepolcri antichi di Egitto, e così, in materia di pittura, qualche schizetto di Baccio Bandinelli o del Parmigiano, e simili altre cosette» e paragonandolo a «una guardaroba, una tribuna, una galleria regia, ornata di cento statue antiche de' più celebri scultori, con infinite storie intere, e le migliori, di pittori illustri, con un numero grande di vasi, di cristalli, d'agate, di lapislazari e d'altre gioie, e finalmente ripiena di cose rare, preziose, maravigliose, e di tutta eccellenza». [107] Ma chi cominciava ad averne i mezzi, come Marino, non trovava affatto risibile impegnarsi per mettere insieme una quadreria o una biblioteca «degne di un principe». [108] D'altra parte la reputazione di queste raccolte dipendeva dai servizi di identificazione offerti dai visitatori e in particolare da coloro che per mestiere si occupavano di divulgare questo genere di informazioni. E costoro appartenevano in genere allo stesso ambiente cui apparteneva l'»ometto curioso» di turno: erano suoi amici, suoi sodali, come vedremo meglio più avanti.
Il modello che ho appena descritto non è, tuttavia, l'unico possibile e altri personaggi scelgono un tipo di allestimento domestico leggermente diverso. E' questo il caso di Raspantini, che possiede anche lui una collezione. Questa è però costituita solo da quadri che, un paio d'anni prima di morire, è lui stesso a inventariare. Diversamente dai soliti inesperti notai è così in grado di annotare l'autore di quasi tutti i dipinti e lo fa con grande cura, anche perché, in quanto allievo ed erede di Domenichino, è venuto in possesso di veri capolavori: ben quattordici opere del suo maestro, accompagnate da sei Carracci, due Giulio Romano, quattro Salvator Rosa, un Guido Reni, un Tintoretto e una dozzina di dipinti di altri autori famosi, più diverse copie «ben fatte» di Correggio, Raffaello, Domenichino stesso. Per esporre questi tesori non esita a sacrificare due stanze del suo non grande appartamento, che pomposamente definisce prima e seconda stanza dei quadri, imitando così le scelte di collezionisti ben più ricchi di lui, come Vincenzo Giustiniani. Sia l'una che l'altra sono del tutto prive di mobili e dunque destinate solo all'esposizione. Essendo lui stesso pittore, però, Raspantini non si limita a esibire le opere di altri, ma vi inframmezza le sue: una nella «Prima stanza dei quadri» (un «San Pietro piangente piccolo»), tre nella seconda, quattro nella «Sala». Quest'opera di sapiente mimetizzazione è ulteriormente accresciuta dal fatto che tre su otto di questi suoi quadri sono copie di Domenichino. Soprattutto nella prima stanza, inoltre, i quadri hanno tutti bellissime cornici, intagliate e dorate, che sicuramente contribuiscono alla loro nobilitazione. L'obiettivo di Francesco comincia a delinearsi abbastanza chiaramente: appendere le proprie opere in mezzo a tanti capolavori significa dar loro un lustro e un valore che da sole non avrebbero mai potuto raggiungere. L'eccellenza dei grandi maestri si riverbera su questo pittore di «poca riuscita», conferendogli una statura superiore non solo in quanto connoisseur in grado di scegliere al meglio i pezzi della sua collezione, ma anche in quanto autore. E' soprattutto su questo che sembra puntare Raspantini. Anche i mobili di casa, tuttavia, rivelano quanto il loro proprietario curi il setting della propria vita quotidiana: nelle due stanze meno aperte al pubblico e più riservate alla vita familiare, infatti, il pittore ha raccolto un cembalo, purtroppo ormai tutto rotto, una spinetta, «due tavolini d'ebano con suoi ferri un po' dorati assai belli», e una serie di raffinati studioli: il primo è di «noce intagliato con vari putti», il secondo «di ebano con intarsi d'avorio con facciata a fiori con colonnette», il terzo «di avorio e tartaruga», il quarto «di ebano lionato e tartaruga», appoggiato sopra un tavolino anch'esso di «ebano lionato» e infine il quinto addirittura «intagliato di gioie e altre pietre».
Il valore e la raffinatezza dei mobili stanno a cuore anche al commediografo Azzavedi, orgoglioso proprietario di «uno studiolo ricamato d'oro, et ucelletti con il suo piede di pero indorato» ripieno di «galanterie», altri «due studioli grandi di palmi sei lungo, e quattro alto ciascheduno, d'ebbano con venti tiratori per ciascheduno, e sua porticella in mezzo con pitture bellissime, e diverse con cavalli, figurine, et altre cose belle», un altro ancora «con il suo telaro, e tavolino intagliato, et adorato con quattro leoni per piedestallo al studiolo con la base, con il piede stallo d'ebbano con otto tiratori con la sua porticella in mezzo, con altri tiratori d'entro, con pitture bellissime, e diverse depinte di mano del Guglielmi con paesi, prospettive, lontananze et altro, e due statuette di metallo d'avanti le porticelle, e due angeletti simili» e infine un ultimo
«più grande fatto a guisa di tabernacolo d'ebbano con il suo telaro, tavolino, attaccaglia con mascaroncino in mezzo indorati con due lupe gettate e sostenute da piede stallo, e due altre simili dietro, e due mascaroncini con due attaccaglioni dalla parte laterale parimente di rame adorato con quattro colonne di lapislazzaro scandellate lunghe un palmo con le sue base adorate sopra e sotto, sopra le quale vi sono 4 vasetti gettati, et adorate intersiate con lapislazzaro sopra, et in mezzo con un bottoncino di lapislazzaro, e di sopra due statue di rame adorate in guisa d'Imperatore, e di sopra due vasi parimente di rame adorato guarniti con lapislazzaro, e di sopra tre statuette parimente di rame indorato con 18 cassettini tutti avanti dipinti con diverse prospettive, marine, lontananze, città, incendij, giardini, et altro di mano di Monsù Guglielmo fiammengo».
L'orgoglio del proprietario si manifesta chiaramente nelle annotazioni che seguono queste due ultime accurate descrizioni. Nel primo caso, infatti, il notaio aggiunge: «Quale studiolo il signor Giovanni lo soleva tenere in stima per scudi 700 in circa»; nel secondo: «Lo teneva in stima il signor Giovanni per scudi 1.500 in circa». [109]
L'architetto e decoratore Errard punta invece sull'impressione che l'eleganza d'insieme delle sue stanze può produrre sui visitatori, oltre che sull'alta qualità della sua collezione di quadri. [110] Egli è uno dei pochissimi a rivestire le pareti e approfitta di questo per curare l'intero allestimento della stanza. D'altra parte Errard non è una persona qualsiasi: dopo essere stato per qualche tempo pittore di corte di Luigi XIV, nel 1666 ottiene le risorse per fondare l'Accademia di Francia a Roma, della quale diviene poi «direttore e primario». Nel 1672 e di nuovo nel 1678 è principe dell'Accademia di S. Luca, ed è stimato e riverito in Italia come in Francia. [111] La sua casa deve essere quindi all'altezza della sua posizione. Tanto per cominciare tappezza quindi le pareti del suo ingresso con grandi teli dipinti «che figurano marmi» e in questo ambiente, del tutto insolito per Roma, espone 18 quadri, due bassorilievi di terracotta, i due busti, sempre di terracotta del padrone e della padrona di casa, 4 teste di marmo sui relativi piedistalli «color di pietra filettati d'oro», e infine un'urna da reliquie di legno bianco. Due tavolini di pero dai piedi torniti fanno probabilmente da supporto ad alcuni di questi oggetti. I teli dipinti «che figurano marmi» guarniscono anche due pareti della stanza adiacente, fornendo il setting per 21 quadri, sei bassorilievi di terracotta, tre figurine di marmo o terracotta su altrettanti piedistalli «tinti in marmo filettati d'oro», e quattro credenzoni da libri che contengono una serie di statuette e due sontuose trabacche «una di cambellotto d'Olanda scarlattato guarnito di merletto d'argento con suoi finimenti di tela d'argento, e l'altra d'amoerre fiorato color di muschio, con fiori naturali, con dicidotto coperte simili per sedie, guarnite di francia di seta colori simili con sue trine d'oro e d'argento alla francese», vale a dire i possibili arredi di un'altra sala. Nella terza stanza, dove i teli finto-marmo lasciano il posto a parati di mezzo damasco verde e oro, lo stesso tessuto viene utilizzato per ricoprire dieci sedie dalle gambe e dal fusto dorato, e tre portiere, per l'incredibile valore complessivo di 185 scudi. Alle pareti sono appesi 15 quadri, quattro specchi con le loro cornici e due bassorilievi. Completano l'arredamento un tavolo di marmo dalle gambe di legno dorato, due statuette di legno, anch'esse dorate, su due piedistalli con l'arme di Errard e una spinetta. Dagli arredi appare chiaro che si tratta di anticamere. E infatti la quarta stanza viene definita «sala d'audienza». [112] Qui il parato è di mezzo damasco cremisi a fiori dorati ed è accompagnato da sedie e sgabelli di «camelotto d'Olanda scarlattato […] guarniti di merletto d'argento e seta verde». Alle pareti sono appesi quattro specchi assai elaborati e di grande valore (100 scudi) e otto quadri, fra i quali finalmente ce n'è uno di un certo pregio - una Madonna di Giovanni Battista Salvi - al contrario di tutti quelli che abbiamo visto finora, che al massimo erano copie da grandi maestri. [113] E poi un tavolo simile a quello della stanza accanto, un inginocchiatoio e alcuni marmi disposti sui soliti piedistalli. Segue un gabinetto che sembra una piccola sala da musica, perché vi troneggia un cembalo a tre registri, attorniato da 12 sedie, pochi quadri e alcune statuette.
L'appartamento al primo piano si direbbe più modesto e più riservato alla vita familiare perché finalmente si menzionano letti, armadi e credenze, nonché attrezzature da cucina. Eppure i quadri sono decisamente più interessanti, sia ai nostri occhi che a quelli dei due periti che li hanno stimati, valutandoli tra i 10 e i 15 scudi l'uno, invece dei 10 - 20 baiocchi attribuiti agli altri. Nella prima stanza, dove c'è di nuovo un unico mobile - un buffetto di noce - e i parati sono sostituiti da una trentina di quadri e da alcuni dei soliti bassorilievi, sono presenti due dipinti di Herman van Swanevelt. Nell'ambiente che segue, che è anch'esso quasi privo di mobili se si eccettuano un «lettino», quattro sedie e quattro sgabelli, i quadri attribuiti a un autore preciso salgono a otto, dai ritratti dello stesso Errard e di sua moglie per mano di Carlo Maratta a tre piccoli paesaggi di Gaspard Dughet, due disegni di Pietro da Cortona e una marina di Salvator Rosa. Questa scelta espositiva, difficile da interpretare, non pare dettata da una qualche arditezza dei soggetti, che proprio non risulta, o da una loro minore «ufficialità», perché al contrario i due Swanevelt rappresentano due ufficialissime «istorie». [114] È probabile, quindi, che quelle prime due stanze fossero ancora aperte ai visitatori, come d'altra parte suggeriscono le tante sedie che circondano il lettino.
A ulteriore conferma che i personaggi di cui stiamo parlando non costituiscono un gruppo unitario che condivide un medesimo modello di consumo, le descrizioni delle abitazioni dello scultore Ercole Ferrata, del pittore Pier Francesco Mola e dell'avvocato Nicola Pari suggeriscono immagini molto diverse. Naturalmente i due artisti possiedono molti quadri, che però potremmo considerare strumenti del mestiere, più che accessori dell'apparire, così come i libri di legge dell'avvocato Pari non sono certo indicativi di una passione per la lettura. Per il resto gli ambienti appaiono molto spogli: niente parati, pochi mobili, pochissime decorazioni. Né la distribuzione temporale di questi inventari suggerisce un'evoluzione da una prima metà del secolo più severa a una fine Seicento più sensibile ai lussi domestici. Borromini, Raspantini, Azzavedi, Pari, muoiono tutti a metà degli anni Sessanta, a breve distanza l'uno dall'altro, così come Mola, Amadori, Guidiccioni, Baglione, Peparelli, Angeloni, i cui inventari sono stati redatti tra il 1639 e il 1652. Ferrata, Errard e Ciampini appartengono invece a una o due generazioni più giovani e muoiono tra il 1689 e il 1698. Spogli, sobri e sontuosi si distribuiscono abbastanza uniformemente nel tempo.
La lezione degli inventari è dunque abbastanza chiara. Non tutte le persone che mirano a definirisi «eccellenti» sono anche splendide. Al contrario ce ne sono alcune che vestono in maniera decisamente dimessa e abitano in case piuttosto spoglie. Nessuno di loro però rinuncia a distinguersi anche sul piano della cultura materiale e se non veste di seta o non tappezza di corami o di damasco le pareti della propria casa, concentra le proprie cure nell'allestimento di un piccolo museo, una collezione di oggetti pregiati.
5. Il potere degli ambienti
Grazie alle ricerche congiunte di storici dell'arte e neuroscienziati cominciamo ormai a sapere con ragionevole sicurezza quali sono i meccanismi neuronali cui le immagini devono il loro potere. [115] Ulteriori ricerche hanno dimostrato che tale capacità di suscitare empatia si estende anche alle immagini astratte, senza alcun rinvio immediato a una mimesi della figura umana, dei suoi possibili gesti e delle sue espressioni. [116] Cosa dire tuttavia dell'«azione» di un frammento di marmo o di una medaglia, la cui essenza non consiste certo nel rinvio al modello umano? E come interpretare la possibile influenza di mobile o di un tessuto o, a maggior ragione, quella di un intero ambiente? Dobbiamo limitarci a considerarli puri segni, strumenti o accessori della comunicazione tra esseri umani o possiamo azzardarci a pensare che agiscano sul nostro cervello con meccanismi simili a quelli dei neuroni specchio? E' difficile rinunciare a ipotizzare che le scelte illusionistiche di Errard, con quelle stanze accuratamente rivestite di tele dipinte a marmi e arredate con piedistalli elegantemente coordinati, sormontati da statue o frammenti marmorei, non fossero puramente decorative, non si limitassero a evocare un ambiente romano classico quale un ultramontano doveva figurarselo, ma volessero suscitare nel visitatore l'impressione di entrarci per davvero, così come in un'altra abitazione romana più o meno dello stesso periodo, un giovane nobile di buoni studi e la sua giovane moglie alla moda avevano allestito un illusionistico gabinetto di curiosità, chiudendo una porzione di stanza con grandi teli dipinti. [117] Ed è ancora più difficile se si pensa che l'illusionismo architettonico, di cui Borromini era maestro, era una caratteristica specifica del luogo e del tempo in cui Errard si trovava a vivere, nonché del suo mestiere. Le statue di Amadori, gli studioli di Azzavedi, la galleriola di Peparelli, le stanze dei quadri di Raspantini, gli stessi musei di Guidiccioni, Angeloni e Ciampini non sono solo «segni» di qualcos'altro, non devono solo evocare l'arte, l'ingegno, l'antico, rendendo visibili e concrete entità invisibili e astratte. Essi vogliono far sì che il visitatore reagisca emotivamente come sé si trovasse davvero davanti a una collezione di marmi antichi, a mobili principeschi, a una quadreria Giustiniani, a una galleria Colonna. In questo senso si può dire che i nostri personaggi competono con le più ricche famiglie nobili, ma lo fanno e lo possono fare perché sono dotati degli strumenti culturali che glielo permettono, perché possiedono competenze che li rendono non meri emulatori ma persone che si sentono eccellenti, proprio perché sono in grado di costruire per sé e per la propria famiglia un setting della vita quotidiana fondato sull'eleganza e la ricercatezza. Come scriveva più di un secolo prima Giovanni Pontano, non necessariamente sontuoso, ma particolarmente «polito».
6. La composizione dei nuclei familiari
Per capire appieno il valore di quegli allestimenti domestici, delle tante stanze dedicate unicamente all'esposizione e degli spazi ridotti cui è confinata la vita domestica, vale la pena, credo, mettere a confronto la descrizione degli ambienti con quella dei nuclei familiari in modo da appurare, attraverso gli Stati delle anime, se le «persone eccellenti» vivessero da sole o in famiglie numerose, si circondassero o meno di servi e famigli, ospitassero in casa allievi, praticanti, parenti, amici.
Alcuni letterati erano celibi, come è noto, e in questo si uniformavano all'antica tradizione umanistica che considerava le lettere incompatibili con le cure della vita domestica. Anche i celibi, tuttavia, a volte non disdegnavano l'»effetto famiglia» prodotto dalla presenza in casa di un altro letterato più giovane. Spesso questa convivenza era solo temporanea, ma in alcuni casi poteva protrarsi nel tempo: Paolo Gualdo per esempio racconta che Giovan Vincenzo Pinelli aveva per vari anni ospitato Paolo Aicardo, un giovane erudito di Albenga come lui amante degli studi e dei libri, con il quale aveva instaurato una relazione da padre a figlio. [118] Ma Pinelli era di nobile famiglia e di larghi mezzi e poteva quindi permettersi forme di liberalità che erano precluse ad altri.
Pure di Ciampini si diceva che fosse molto ospitale e che aprisse volentieri le porte della sua casa a studiosi forestieri. Ma l'unico di cui abbia trovato traccia negli stati delle anime è il trentacinquenne senese Agostino Maria Taia, che soggiornò in casa sua per alcuni mesi tra il 1686 e il 1687. [119] In ogni caso la convivenza non doveva essere stata del tutto armoniosa, perché in una lettera spedita da Roma a Parigi il 17 giugno 1687 si legge la notizia che «M. l'abbé Taya l'a quitté», seguita da un sibillino commento: «Non conterantur!», non siano criticati. [120] Negli anni successivi, anche senza altri letterati conviventi, la composizione del nucleo familiare di Ciampini resta in ogni caso degna di interesse. Fin da quando aveva messo su casa per conto proprio, l'erudito si era assicurato i servigi di un maestro di casa, che si sarebbe rivelato fedelissimo, restando con lui per più di vent'anni. Tutti gli altri servitori conviventi - dal cocchiere in giù - sarebbero invece stati molti più precari e non sarebbero rimasti al suo servizio per più di due o tre anni di seguito. La familia comunque non era piccola, dal momento che era composta abitualmente da sette uomini, cui spesso si aggiungevano una o due donne, mogli di altrettanti di loro. In certi anni, inoltre, Ciampini sembra ospitare in casa propria un ulteriore gruppo familiare, composto da una donna e dai suoi numerosi bambini, alcuni dei quali sono poco più che neonati. Con un lascito caritatevole di 12 scudi l'anno, il testamento conferma l'ipotesi che il prelato avesse ceduto in uso una o due stanze alla vedova del campanaro di S. Agnese e ai suoi orfani, mentre il confronto tra lo Stato delle anime della primavera del 1698, i legati testamentari istituiti nel luglio dello stesso anno e l'inventario post-mortem redatto pochi mesi dopo, fa emergere altri tipi di presenze/assenze. Con lui per esempio non coabitavano i collaboratori professionali - il sostituto e il copista - ma neanche un certo «Carlo mio servitore che mi si è portato per spatio di molto tempo molto puntuale, e fedele nel servizio». Al contrario, con lui sembra vivere un tale abate Sabatini «che mi ha favorito per tanti mesi», il quale non è menzionato dallo Stato delle anime, forse redatto prima della sua entrata in servizio. Questi è non solo destinatario di un lascito, ma anche titolare di una stanza censita nell'inventario. Nel palazzetto di 25 vani (comprese la rimessa e la cucina) abitavano dunque più di dieci persone, senza contare la vedova con i suoi bambini. Alcuni - Monsignore, il maestro di casa don Paolo, l'abate Sabatini, il cocchiere, il servitore - erano titolari di una camera specifica, a loro intitolata. Tutti gli altri si affollavano negli ambienti restanti, pesantemente condizionati dal fatto che almeno dieci stanze erano destinate a un uso pubblico e dunque generalmente precluse a quelli domestici. La socievolezza del prelato imponeva un certo sacrificio di spazio agli abitanti della casa.
Ciampini era tuttavia abbastanza ricco e la sua abitazione era di gran lunga la più spaziosa. Gli altri erano costretti a equilibrismi molto maggiori. L'elegantissimo appartamento di Errard nascondeva ad esempio un sacrificio degli spazi privati molto più marcato. Il nucleo familiare era infatti composto da 9-10 persone: l'ottantenne Errad, la giovanissima moglie, il cocchiere con moglie e figli piccoli, e altri due uomini e una donna che assicuravano il servizio. Nell'ultimo anno di vita di Errard la coppia era stata inoltre raggiunta dal fratello trentenne della padrona di casa. La vita domestica di tutte queste persone si doveva restringere in sole cinque stanze, perché degli 11 vani (comprese, come al solito, cucina e rimessa) che componevano l'abitazione ben sei erano praticamente privi di mobili e dunque presumibilmente destinati solo all'esibizione di quadri, marmi e altri oggetti d'arte. Non dissimile era la situazione in casa Raspantini: il nucleo familiare era formato da quattro adulti e uno o due bambini - il pittore, sua moglie, uno o due figli piccolissimi, un servo e una serva - mentre l'appartamento era composto da 7 vani, compresa la cucina. Le prime due stanze erano però adibite unicamente a quadreria, come abbiamo visto, e anche la sala era uno spazio eminentemente pubblico. L'abitazione di Azzavedi era ancora più affollata. Composta di 10 stanze, vi vivevano i due genitori, cinque ragazzi tra i 14 e i 3 anni e quattro tra serve e servi. Ma la biblioteca, la sala e le due anticamere si sottraevano agli usi più propriamente domestici, che restavano confinati in soli 6 vani.
In queste abitazioni più o meno spaziose e comunque abbastanza affollate, tutti quanti, come si è visto, alloggiano anche dei servi. Le persone eccellenti sono professionisti di successo e non possono naturalmente farne a meno. Solo pochi di loro possono tuttavia permettersene tanti da affidare a ciascuno mansioni specializzate, come fa Ciampini che ha un maestro di casa, un cocchiere, un cameriere, oltre ad alcuni più generici «servitori». Gli altri devono accontentarsi di servi e serve tuttofare per i quali il parroco che redige gli stati delle anime non si attarda certo a sprecare parole.
7. Un'esigenza comune
Strumenti dotati di capacità comunicativa diversa e che parlano linguaggi molto distanti tra loro, quali sono le biografie, i ritratti pittorici, gli inventari dei beni e infine le registrazioni parrocchiali convergono dunque nel delineare nuove forme di prossimità tra persone eccellenti, differenziate dalla professione e tuttavia accomunate del fatto di aver raggiunto un successo più o meno marcato.
La ricerca della distinzione, perché di questo in fondo si tratta, si avvale di vari dispositivi che vanno dagli abiti agli arredi, alle collezioni. Questa varietà cela tuttavia un elemento comune: utilizzando la tassonomia di Bourdieu, si potrebbe dire che il capitale culturale investito in queste operazioni è decisamente superiore al capitale economico [121] e che anche l'eventuale sobrietà è frutto di una scelta precisa. Così come frutto di una scelta precisa è il fatto di sacrificare risorse di tempo, spazio e denaro sull'altare di un'eccellenza che non può restare nel campo dell'astrazione, ma deve materializzarsi in precisi allestimenti della vita quotidiana, in una visibilità offerta al pubblico in cambio di indispensabili servizi di identificazione.
In tutti i casi è comunque evidente la costante tensione tra il desiderio di essere diversi e l'impossibilità di sottrarsi del tutto al modello aristocratico, che continua a essere dominante nella società.
Note
1. Vasari, Le Vite, cit., vol. III, Giuntina, p. 40.
2. Ibid.
3. Ivi, vol. IV, p. 18.
4. Ivi, p. 487.
5. Ivi, vol. V, p. 304.
6. Vasari, Le Vite, cit., vol. VI, Torrentiniana, pp. 115-116.
7. Cfr. per es. Giovanni Baglione, Le vite de' pittori, scultori et architetti dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a' tempi di Papa Urbano Ottavo nel 1642, Roma, Fei, 1642, p. 10 (Pirro Ligorio); p. 109 (Annibale Carracci); p. 134 (Federico Barocci); p. 145 (Lodovico Lione); p. 167 (Carlo Lambardi); p. 192 (Cristofano Roncalli); p. 193 (Antiveduto Grammatica); p. 199 (Baldassarre Croce); 321 (Ottavio Padovano); p. 405 (Giovanni Baglione stesso).
8. Ivi, p. 364.
9. Ivi, p. 333.
10. Giovan Pietro Bellori, Le Vite de' pittori, scultori e architecti moderni, Roma, er. Mascardi, 1672, p. 82.
11. Ivi, p. 455. Analoghe considerazioni a proposito di Agostino Carracci (p. 125) e Caravaggio (p. 227).
12. Ivi, p. 524.
13. Ivi, p. 274.
14. Ivi, p. 266.
15. Ivi, p. 284.
16. Ivi, p. 394.
17. Ivi, p. 283.
18. Ivi, p. 524-525.
19. Ivi, pp. 526-527.
20. Cfr. Richard Spear, The «Divine» Guido: Religion, Sex, Money, and Art in the World of Guido Reni, New Haven-London, Yale University Press, 1997.
21. Ivi, p. 82.
22. Ivi, p. 125.
23. Ivi, pp. 264-265.
24. Carlo Cesare Malvasia, Felsina pittrice: Vite de' pittori bolognesi, Bologna, Guidi, 1841, parte IV, p. 44.
25. Ivi, p. 44.
26. Ivi, p. 39.
27. Ivi, p. 76.
28. Ivi, p. 135.
29. Ivi, p. 359.
30. Ivi, p. 364.
31. Ivi, p. 239.
32. Giovanni Battista Passeri, Vite de pittori, scultori ed architetti che anno lavorato in Roma, Roma, Settari, 1772, p. 389.
33. Filippo Baldinucci, Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua, Vol. X, Milano, Classici italiani, 1812, p. 219: «dopo conseguita la dignità di Cavaliere, vestivasi di nobile drapperia, né mutavasela mai, sin tanto non se la vedeva cascare in terra a brano a brano».
34. Ivi, p. 425.
35. Ivi, pp. 426-427.
36. Filippo Baldinucci, Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua, t. XIX, Firenze, Stecchi, 1773, p. 8.
37. Ivi, p. 10.
38. Ivi, pp. 19-21.
39. Ivi, pp. 23-24.
40. Ivi, pp. 67-68.
41. Ivi, p. 68.
42. Lione Pascoli, Vite de' pittori, scultori ed architetti moderni, Roma, de Rossi, 1730, pp. 66-67.
43. Cfr. Pascoli, Vite, cit., p. 43 Andrea Camassei («amava fuor di modo la conversazione, andava le feste per divertirsi quasi sempre co' suoi scolari, e godeva al maggior segno di vedere in Piazza Navona i burattini, e a Strada Felice a fare a' sassi»); p. 26 Claudio Gellée (ammalato da tempo non poteva quasi più usare le mani «ed adoperava solamente la lingua, di cui si serviva assai bene; perché la mente pur gli serviva, ed aveva sempre, e professori, ed artieri, e personaggi in sua conversazione, che assai si compiacevano di sentirlo discorrere; e quasi sempre della profession discorreva»); p. 37 Michelangelo Cerquozzi («era di bella presenza, giusto, e proporzionato di corpo, amante della conversazione, allegro, faceto, e fuori di modo saporito, e grazioso»); p. 50 Gio Francesco Grimaldi («era alto, e assai ben fatto di corpo, bello, avvenente, gioviale, bianco, e vermiglio di volto, venerando nel portamento, amante della conversazione, e svisceratissimo per gli amici»); p. 92 Luigi Scaramuccia («amava estremamente la pulitezza, e vestiva nobilmente»); p. 116 Jacopo Cortesi (prese moglie e «stette alcuni anni seco, e come non v'ebbe mai figli, e non doveva per essi avanzare, la trattava nobilmente; e tutto ciò che guadagnato aveva, e guadagnava, allegramente, ed in abiti, ed in famiglia, e nella mensa spendeva»); p. 176 Ciro Ferri («Guadagnò molto, perché in molto prezzo teneva l'opere sue; ma pochi avanzi lasciò rispetto a' molti, che lasciar poteva; perché generosamente spendeva, ed era assai liberale. Teneva carrozza, mandava ben vestita la famiglia, e faceva buona tavola … Amava la conversazione degli amici, verso de' quali fu sempre grato, e benefico. Voleva di quando in quando divertirsi; ma i divertimenti non gli facevan perder l'amore alla fatica»); p. 183 Pietro Mulier («teneva carrozza, e staffieri, stava in una bellissima casa, e fatto v'aveva un bel serraglio, che empiutolo d'animali, se ne serviva per dipignerli, e li dipingeva così bene, e tanto naturali, e vivi, che pochi eguali ha avuti. Mentre però che ei con magnificenza, e con isplendore viveva, la povera seconda moglie, che era già stata abbandonata da lui, andava quasi limosinando»); p. 318 Gio. Antonio de Rossi architetto («aveva lo studio pieno di rare cose, abitava una casa ben tapezzata, numerosa era la famiglia, teneva carrozza, faceva buona tavola; ed assai civilmente si trattava»).
44. Pascoli, Vite, cit., p. 69.
45. «Giornale de' Letterati d'Italia», p. 182.
46. Venezia, Guerigli, 1647.
47. Gli scrittori liguri descritti da Michele Giustiniani, Roma, Tinassi, 1667.
48. Apes Urbanae, sive de viris illustribus qui ab anno 1630 per totum 1632, Romae adfuerunt ac typis aliquid evulgarunt, Roma, Grignano, 1633.
49. Ferrara, Pomatelli, 1722.
50. Cronica de matematici: overo Epitome dell'istoria delle vite loro, Urbino, Monticelli, 1707.
51. Roma, Masotti, 1656.
52. Le glorie de gli Incogniti; o vero, Gli huomini illustri dell'Accademia de' signori Incogniti di Venetia, Venezia, 1647.
53. Valerio Zani, Memorie imprese, e ritratti de' Signori Accademici Gelati di Bologna, Bologna, Manolessi, 1672.
54. Firenze, Tartini, 1717.
55. Roma, de Rossi, 1708-27.
56. Roma, Kalcovius, 1645-48.
57. Cfr. Martino Capucci, Carli, Ferdinando (Ferrante), in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 20, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 1977.
58. Lipsia, Fritsch, 1742, p. 244: «Erat liberalis, splendidus, hospitalis; & in prandiis vel coenis (quas non parum saepe amicis dabat) accipiebat hominem nemo neque largius neque prolixius: denique nullius erat rei, praeter laudem, avarus».
59. Ivi, p. 264: «vitae splendore ac bonis artibus conservarunt».
60. Ivi, p. 667: «aequalium studia, ludos, jocos, convivia, magna ex parte deseruit ; ac totum se possidendum litteris tradidit». Cfr. Claudio Mutini, Cebà, Ansaldo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 23, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 1979.
61. Rossi, Pinacotheca, cit., p. 770 : «splendido atque eleganti vitae usus est genere. Etenim nihil unquam de eo, quod sua industria pepererat, comparsit, suum defraudans genium, sed totum, ad se nitide lepideque curandum, large fundebat; contra vulgarem atque usitatum medicorum morem, qui naturae ac necessitati fere omnia denegantes, praeterquam eorum dignitas conditioque patiatur, parsimoniae student, ut amplum haeredibus patrimonium relinquant, qui, longe diverso ab ipsis animo, suis sumptibus, illorum alant expleantque luxuriam». Sulla parsimonia dei medici cfr. per esempio Giovanni Mario Crescimbeni, Vita di Gio. Mario Lancisi Cameriere segreto e Medico del Papa Clemente XI, Roma, de Rossi, 1721, pp. 158-159.
62. Giambattista Manso, Vita di Torquato Tasso, Venezia, Alvisopoli, 1825, pp. 208-209.
63. Baiacca, Vita, cit., p. 461.
64. Ivi, p. 478.
65. Paolo Gualdo, Vita, cit., p. 63: «Pinellus, in cuius victu et vestito elegantiam quidem et splendorem, sed non ultra privatum modum notasses. Vestibus ille sericis in perpetuum abstinuit, laneis usus, sed optimis et praestantissimis, luxum et fastum quaecunque ratione declinans […] Domum qua parte se in conspectum interiorem dabat, instruxerat ornaratque Geographicis grandioribus tabulis, iconibusque illustrium virorum». Trad. it. di Barbara Carabotta.
66. Passeri, Vite, cit., pp. 381-382.
67. Malvasia, Felsina pittrice, cit., p. 299.
68. Francesco Petrucci, Ritratti di artisti tra Rinascimento e Neoclassicismo, in Artisti a Roma. Ritratti di pittori, scultori e architetti dal Rinascimento al Neoclassicismo, Roma, De Luca, 2008, pp. 13-26, p. 14.
69. Venezia, Tramezino, 1546.
70. Francesco Petrucci, Ritratti di artisti, cit., p. 18.
71. Ibid.
72. John Peacok, The look of Van Dyck: the self-portrait with a sunflower and the vision of the painter, London, Ashgate, 2006.
73. Giovanni Battista Passeri, Autoritratto (1673 c.), Collezione Zito, Roma, in Artisti a Roma. Ritratti di pittori, scultori e architetti dal Rinascimento al Neoclassicismo, Roma, De Luca, 2008.
74. Cfr. Jonathan Scott, Salvator Rosa. His Life and Times, New Haven, Yale University Press, 1995; «Filosofico umore» e «maravigliosa speditezza». Pittura napoletana del Seicento dalle collezioni medicee, a cura di Elena Fumagalli, Firenze, Giunti, 2007; Salvator Rosa e il suo tempo, 1615-1673, a cura di Sybille Ebert-Schifferer, Helen Langdon, Caterina Volpi, Roma, Campisano Editore, 2010; Caterina Volpi, Salvator Rosa (1615-1673). «Pittore famoso», Roma, Bozzi, 2014.
75. Ringrazio Roberto Nicolai per avermi aiutata con l'interpretazione di questa scritta.
76. Per rafforzare il richiamo all'antico sullo sfondo è rappresentata una testa di marmo palesemente romana.
77. Bellori, Le Vite, cit., pp. 526-527.
78. David Freedberg, Vittorio Gallese, Motion, Emotion and Empathy in Esthetic Experience, «Trends in Cognitive Sciences», vol. 11, n. 5 (2007), pp. 197-203.
79. Maria Alessandra Umiltà, Cristina Berchio, Mariateresa Sestito, David Freedberg, Vittorio Gallese, Abstract art and cortical motor activation: an EEG study, «Frontiers in human neuroscience», vol. 6 (2012), pp. 1-9 ; Beatrice Sbriscia-Fioretti, Cristina Berchio, David Freedberg, Vittorio Gallese, Maria Alessandra Umiltà, ERP Modulation during Observation of Abstract Paintings by Franz Kline, «PLoS ONE» 8 (10), 2013, pp. 1-12.
80. Tra i primi esempi di esposizione collettiva dei ritratti dei propri affiliati si annoverano, non a caso, l'Accademia di S. Luca di Roma e la Biblioteca Ambrosiana di Milano.
81. Angelo Torre, Luoghi. La produzione di località in età moderna e contemporanea, Roma, Donzelli, 2011, p. 14.
82. L'inventario di Bernini, sempre che esista, non è stato finora trovato. Si conosce quello di suo fratello Luigi, ma è stato redatto a vari anni di distanza dalla morte di Gianlorenzo e, se forse è possibile considerarlo rappresentativo dei suoi libri, è certo molto più difficile immaginare che ci dia informazioni sicure sui suoi abiti (cfr. Gian Lorenzo Bernini: il testamento, la casa, la raccolta dei beni a cura di Franco Borsi, Cristina Acidini Luchinat e Francesco Quinterio, Firenze, Alinea, 1981; Sarah McPhee, Bernini's Books, in «The Burlington Magazine», CXLII (2000), 1168, pp. 442-448). L'inventario di Borromini è stato invece rinvenuto, ma è molto laconico sugli indumenti (trascrizione completa in Interni romani /it/banche-dati/interni-romani/proprietari/borromini/casa-borromini-.aspx). Per quello di Guido Reni cfr. John T. Spike, L'inventario dello studio di Guido Reni (1 ottobre 1642), in «Accademia Clementina, atti e memorie», vol. 22 (1988), pp. 43-65.
83. Cfr. la trascrizione dell'inventario post-mortem a cura di L. Spezzaferro, in Archivio del collezionismo romano, http://percy.sns.it:8080/Isis/servlet/Isis?Opt=search&Field0=&Field1=guidiccioni&Field2=&Field3=&Field4=&Field5=&Field6=&Field7=&Conf=.%2FIsisConf%2From.sys.file&SrcWin=1&Dsfr=1
84. Cfr. n. 32.
85. Cfr. la trascrizione dell'inventario post-mortem a cura di L. Spezzaferro, in Archivio del collezionismo romano, http://percy.sns.it:8080/Isis/servlet/Isis?Opt=search&Field0=&Field1=angeloni&Field2=&Field3=&Field4=&Field5=&Field6=&Field7=&Conf=.%2FIsisConf%2From.sys.file&SrcWin=1&Dsfor=999
86. Cfr. la trascrizione dell'inventario post-mortem a cura di C. Civitarese, D. Macor, E. Secodini in Interni romani, /it/banche-dati/interni-romani/proprietari/borromini/casa-borromini-.aspx
87. Cfr. La trascrizione dell'inventario post-mortem a cura di R. Ago in Interni romani, /it/banche-dati/interni-romani/proprietari/ciampini/palazzo-ciampini-.aspx
88. Vincenzo Giustiniani, Discorso sopra la pittura, in Id., Discorsi sulle arti e sui mestieri, a cura di Anna Banti, Firenze, Sansoni, 1981.
89. Cfr. Luigi Spezzaferro, Le collezioni di 'alcuni gentilhuomini particolari' e il mercato: appunti su Lelio Guidiccioni e Francesco Angeloni, in Poussin et Rome, a cura di Olivier Bonfait, Christoph Luitpold Frommel, Michel Hochmann, Sebastian Schütze, Paris, Réunion des Musées Nationaux, 1996, pp. 241-255, p. 246; Donatella Livia Sparti, Il Musaeum Romanum di Francesco Angeloni: la Quadreria, in «Paragone. Arte», 49 (1998), s.3, 17, pp. 46-79.
90. Cit. in Carla Benocci, Camillo Pamphilj e la grande villa barocca, in Ead. (a cura di), Le virtù e i piaceri in villa, Milano, Electa, 1998, pp. 36-51, p. 44.
91. Cit. in Veronica Carpita, Tra Tasso e Galilei: l'idea bifronte del museo di Francesco Angeloni, in «Storia dell'Arte», nn. 122-123 (2009), pp. 93-118, p. 96.
92. Ivi, p. 97.
93. Giovan Pietro Bellori, A lettori, in Historia Augusta da Giulio Cesare a Costantino il Magno, illustrata con la verità delle antiche medaglie da Francesco Angeloni, Roma, Cesaretti, 1685, p.n.n., http://bellori.sns.it/cgi-bin/bellori//blrCGI?cmd=1&w=29&u=Prefazione&pg=VII 17-19.
94. Cit. in Carpita, Tra Tasso e Galilei, cit., p. 93.
95. Roma, Andrea Fei, 1641.
96. Al Signor Francesco Ferentilli, segretario dell'Illustriss. e Reverendiss. Signore Cardinal Mellini (6 settembre 1620), in Dell'utilità della numismatica, Lettera inedita di Francesco Angeloni, Venezia, Pinelli, 1811, pp. 7-23, p. 7; cfr. anche Carpita, Tra Tasso e Galilei, cit., pp. 103-104
97. Ivi, p. 100.
98. «Sorci, ranocchie, idoletti, caprucci, teste de cavalli, lancie di bronzo antico, una testa di serpe antica, palle di bronzo, et altre anticaglie con un cucchiaro antico; un secchietto di metallo antico; due lucerne antiche, una di bronzo e l'altra di ferro».
99. In un altro corridoio sono esposti ben «tredici pezzi di marmo con l'iscrittioni».
100. Se non è troppo arbitrario estendere anche a lui il modello della biblioteca del suo collega/rivale Bernini, si può immaginare che, a parte gli strumenti del mestiere (i trattati di architettura di Vitruvio, Serlio, Lomazzo e altri), dei quasi 500 libri alcuni siano di devozione, altri di storie, altri ancora di descrizioni di viaggi e di paesi esotici e altri infine siano semplicemente di poesia e di narrativa.
101. Cfr. per esempio Carlo Bartolomeo Piazza, Eusevologio romano, overo Delle opere pie di Roma, accresciuto, & ampliato secondo lo stato presente. Con due trattati delle accademie, e librerie celebri di Roma, Roma, Cesaretti e Paribeni, 1698.
102. Osservazioni naturali, Bologna, Manolessi, 1684, pp. 260-262.
103. Rotta, L'accademia fisico-matematica, cit., p. 129. Per una descrizione dettagliata degli arredi di questa sala cfr. la trascrizione dell'inventario in Interni romani /it/banche-dati/interni-romani/proprietari/ciampini/palazzo-ciampini-/stanza-dell%27accademia.aspx
104. Rotta, L'accademia fisico-matematica, cit., p. 136.
105. Gli specchi dipinti sono una caratteristica saliente della ben più illustre Galleria Colonna: cfr. Natalia Gozzano, La quadreria di Lorenzo Onofrio Colonna: prestigio nobiliare e collezionismo nella Roma barocca, Roma, Bulzoni, 2004.
106. ASR, Notai Auditor Camerae (AC), Testamenti e donazioni, vol. 28, c. 203, 1639; copia in S. Girolamo della Carità, b. 175, f. 1.
107. Considerazioni al Tasso, c. 1589-1595, ed. digitale in Ed. Naz. IX, p. 69, ed. digitale http://portalegalileo.museogalileo.it/igjr.asp?c=36268#_Toc203964384
108. «Credo che non vi sia prencipe il quale in questo non mi ceda»: Giambattista Marino, Lettere, a cura di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1966, lettera 175 (1622/23). Cfr. anche Giorgio Fulco, La «meravigliosa» passione. Studi sul barocco tra letteratura e arte, Roma, Salerno, 2001, in particolare il cap. VI, Il sogno di una «Galeria»: nuovi documenti su Marino collezionista, pp. 83-117.
109. Inventario di Giovanni Azzavedi in Archivio del collezionismo romano, Scuola Normale Superiore http://percy.sns.it:8080/Isis/servlet/Isis?Opt=search&Field0=&Field1=azzavedi&Field2=&Field3=&Field4=&Field5=&Field6=&Field7=&Conf=.%2FIsisConf%2From.sys.file&SrcWin=1&Dsfor=999
110. Cfr. il suo inventario post-mortem in Archivio del collezionismo romano, Scuola Normale Superiore http://percy.sns.it:8080/Isis/servlet/Isis?Opt=search&Field0=&Field1=errard&Field2=&Field3=&Field4=&Field5=&Field6=&Field7=&Conf=.%2FIsisConf%2From.sys.file&SrcWin=1&Dsfr=1
111. Emmanuel Coquery, Charles Errard. La noblesse du décor, Paris, Arthena, 2013.
112. Cfr. Patricia Waddy, Seventeenth-Century Roman Palaces: Use and the Art of the Plan, Cambridge-London, The MIT Press, 1990.
113. Non dimentichiamo però che per Errard e i suoi contemporanei le copie da grandi maestri erano oggetti di valore e che personaggi come Pinelli le raccomandavano a tutti coloro che non potevano permettersi gli originali: cfr. Gualdo, Vita, cit., pp. 78-79.
114. Sul fatto che nelle stanze della casa aperte al pubblico si espongano le opere più ufficiali e conformiste, mentre quelle più anticonformiste o innovative si tengono negli ambienti meno frequentati dai visitatori cfr. Spezzaferro, Le collezioni, cit.
115. Sull'azione dei neuroni specchio e la loro capacità di reagire alle immagini cfr. Freedberg, Gallese, Motion, cit.; David Freedberg, Memory in Art: History and the Neuroscience of Response, in Suzanne Nalbantian, Paul M. Matthews and James L. McClelland (eds.), The Memory Process: Neuroscientific and Humanistic Perspectives, Cambridge, MIT Press, 2011, pp. 337-358.
116. Umiltà, Berchio, Sestito, Freedberg, Gallese, Abstract art, cit.; Sbriscia-Fioretti, Berchio, Freedberg, Gallese, Umiltà, ERP Modulation, cit.
117. Un inventario generale dei beni di casa Santacroce descrive tra le altre cose «il gabinetto finto dell'Ill.mo Sig.r March.e Scipione», cioè uno spazio delimitato da una tela dipinta che fa da «cielo» e due tendaggi che lo chiudono ai lati, che evidentemente imita i veri gabinetti di curiosità che il giovane aveva visitato nel corso dei suoi viaggi (ASR, Santacroce, b. 1122, Mobili che sono nell'appartamento che gode l'Ill.ma Sig.ra March.a M.a Isabella al primo piano). Su questo cfr. Ago, Il gusto, cit., pp. 81-84.
118. «Pinellus Aicardium filij, hic illum parentis loco haberet»: Gualdo, Vita, cit., p. 61.
119. La presenza di Taia in casa Ciampini è attestata dallo Stato delle anime di S. Lorenzo in Damaso del 1687 (Archivio storico del Vicariato di Roma (ASVR), Stati delle anime, S. Lorenzo in Damaso).
120. Cfr. Correspondance inédite de Mabillon et de Montfaucon avec l'Italie, a cura di M. Valery, vol. 2, Paris, 1847, p. 44. E per fortuna, perché di lì a poco Taia avrebbe passato diversi guai, finendo coinvolto nel processo contro Petrucci con l'accusa di quietismo. La notizia dei suoi problemi col S. Ufficio risale ai primi di agosto, ma una lettera del 5 di quel mese avverte che «Monsignor Ciampini, chez qui il [Taia] était venu demeurer, l'avait par bonheur congédié depuis quelques mois» (cfr. Ivi, lettera del 5 agosto 1687, p. 77).
121. Cfr. Pierre Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 1983.