Nel capitolo XXXI dell’edizione del 1840 de I Promessi Sposi, [1] così Manzoni tratteggiava la figura di Ludovico Settala, illustrata dalle vignette ideate e incise da Francesco Gonin: [2]
«Il protofisico Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato professore di medicina all’università di Pavia, poi di filosofia morale a Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre d’altre università, Ingolstadt, Pisa, Bologna, Padova, e per il rifiuto di tutti questi inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla riputazione della scienza s’aggiungeva quella della vita, e all’ammirazione la benevolenza, per la sua gran carità nel curare e nel beneficare i poveri. E, una cosa che in noi turba e contrista il sentimento di stima ispirato da questi meriti, ma che allora doveva renderlo più generale e più forte, il pover’uomo partecipava de’ pregiudizi più comuni e più funesti de’ suoi contemporanei: era più avanti di loro, ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello chattira i guai, e fa molte volte perdere l’autorità acquistata in altre maniere. Eppure quella grandissima che godeva, non solo non bastò a vincere, in questo caso, l’opinion di quello che i poeti chiamavan volgo profano, e i capocomici, rispettabile pubblico; ma non potè salvarlo dall’animosità e dagl’insulti di quella parte di esso che corre più facilmente da’ giudizi alle dimostrazioni e ai fatti.»
La descrizione del protofisico, “entrato in scena” nel momento culminante della diffusione della peste in Milano, costituisce un esempio paradigmatico di quella rappresentazione di un Seicento milanese sotto il controllo spagnolo “fosco” e “arretrato” che aveva avuto origine in alcuni ambienti intellettuali della Lombardia asburgica sin dalla seconda metà del XVIII secolo in chiave anti borbonica. Una visione che era stata largamente alimentata durante tutto l’Ottocento in chiave risorgimentale e nazionalista e fu destinata a perdurare come paradigma storiografico sino a tempi relativamente recenti. [3] Ciononostante, Manzoni aveva potuto attingere ampiamente alla documentazione originale e aveva avuto modo di poter visionare carte, in merito a questa delicata fase della storia dello Stato di Milano, direttamente di mano di Settala, dei suoi congiunti e colleghi. [4]
Indicativa dell’accuratezza delle sue fonti fu la stessa immagine suggerita a Gonin per la trasposizione incisoria del ritratto di Ludovico, in linea con il generale scrupolo dello scrittore per la veridicità delle effigi incluse nell’edizione illustrata del romanzo cui aveva lavorato per anni. Si trattava di una derivazione, non certo immemore della lezione gioviana sulle effigi di uomini illustri, [5] da una delle molteplici versioni circolanti in ambiente milanese nei primi decenni del Seicento, come dimostrano le repliche presenti nella collezione dell’Ambrosiana. [6] Il nobile vi è rappresentato a mezzo busto, con il capo calvo, una lunga barba bianca. Indossa un elegante abito nero con ampie maniche, completato da alta lattuga inamidata, secondo un modello vestimentario diffuso e coerente con la posizione del patrizio nella fazione, di dichiarate posizioni filoasburgiche, al tempo della peste al governo della città e dello Stato. [7]
Le differenti redazioni del dipinto e la creazione del prototipo sono state riferite a Fede Galizia, [8] pittrice largamente richiesta dall’aristocrazia milanese, sulla base di quanto attestato nella descrizione della celebre “galleria” del figlio Manfredo, parzialmente confluita nelle raccolte della Pinacoteca Ambrosiana attraverso un controverso lascito testamentario nel quale furono inclusi ritratti del genitore e di altri famigliari di mano dell’artista. [9]
Il modello proposto in queste tele fu riconosciuto come emblematico sin dai primi decenni del Seicento, dal momento che venne utilizzato come antiporta in differenti edizioni di opere letterarie e scientifiche dello stesso Ludovico. [10] La prima versione incisa fu molto probabilmente quella eseguita dal celebre bulino del fiammingo Raphael Sadeler intorno al 1601: venne impiegata sia in Aristotelis problemata commentaria, pubblicato nel 1607, che nel Animadversionum et cautionum medicarum libri septem, editi sette anni più tardi. [11] La stessa effigie, in controparte, fu utilizzata per una stampa anonima, datata al 1624 e impiegata per ornare una riedizione del secondo testo citato del 1632 e nel 1627 per l’opera di riflessione politica Della ragion di Stato. L’autore collocò il ritratto entro una ricca cornice architettonica con timpano spezzato terminale e luce ovale, rifinita da cartiglio in latino, elementi a voluta e ghirlande di fiori, mentre ai lati del basamento, aggettanti, raffigurò lo stemma dinastico con le sette ali. [12]
Piuttosto differente dal modello citato, benché riferito alla stessa pittrice e al medesimo soggetto, è invece un esemplare in collezione privata, [13] mancante allo stato attuale delle ricerche di repliche, nel quale il personaggio raffigurato, pur in abbigliamento molto simile, tuttavia non determinante per una distinzione individuale, non presenta caratteri fisiognomici spiccatamente vicini alle precedenti, quali la calvizie e la lunga barba, sottolineate anche da Manzoni. La presenza dell’attributo del teschio, tenuto in mano e mostrato in primo piano, appare piuttosto l’espressione di un paradigma, diffuso tra Cinque e Seicento, nella rappresentazione di docenti e personalità dedite alla professione medica, benché la diffusione della raffigurazione del cranio possa più semplicemente essere interpretabile quale monito alla vanità e caducità della vit. [14]
La figura di Settala è ad oggi nota e parzialmente studiata per il suo contributo scientifico e speculativo nell’ambito della storia della medicina tra fine Cinquecento e primo Seicento, e, soprattutto, come trattatista sul tema della peste, [15] cui egli sopravvisse sia in occasione dell'epidemia carliana del 1576, sia di quella del 1628-1630. Notevole fama presso i contemporanei conseguì anche con il trattatello De Naevis, enciclopedica disquisizione sui nei edita nel 1606, nonché con il già citato trattato in sette libri intitolato Della Ragion di Stato, nel quale, recuperando la lezione di Tacito, il milanese si inseriva in un filone di riflessione politica di largo successo che era stato codificato da Giovanni Botero.[16] Pur riconoscendo la varietà degli interessi culturali del personaggio, solo recentemente si è cominciato ad analizzare il ruolo del protofisco all’interno della complessa dialettica politica milanese dei primi decenni del Seicento, culminato nella posizione di governo assunta durante la delicata fase della peste manzoniana in qualità di presidente del Tribunale di Sanità. [17]
Altrettanto significativi sono i dati emersi, e da ulteriormente approfondire, in merito alla sua frequentazione di alcuni degli ambienti intellettualmente più avanzati nel capoluogo lombardo, tra l’ultimo decennio del Cinquecento e i primi del secolo successivo, vicini alle posizioni neostoiche espresse da Giusto Lipsio e dalla sua rete internazionale di corrispondenti. [18] Negli anni di permanenza a Milano del promettente allievo del professore di Lovanio, Ericio Puteano, direttamente protetto da Settala, vennero a raccogliersi intorno a questa figura una serie di personalità, tra le quali vale la pena di ricordare oltre all’arcivescovo Borromeo che lo coinvolse nel progetto della Biblioteca Ambrosiana, la meno nota figura di Giovanni Battista Sacchi, [19] segretario del Senato, massima magistratura dello Stato, accomunate da un sincretico neostoicismo cristiano, sostanziato dalla lettura di Seneca e reinterpretato da Lipisio. Proprio attraverso Puteano era avvenuta la conoscenza dell’incisore Sadeler, come dimostrano alcune lettere scritte al protofisico da Padova dalle quali emerge che inizialmente si era pensato che l’artista fiammingo eseguisse un nuovo ritratto del protofisico, mentre poi si preferì che utilizzasse per la creazione della stampa l’immagine già dipinta dalla Galizia. [20]
Rientra coerentemente in questa rivisitazione della figura di Settala da molteplici punti di vista anche un’indagine in merito al suo ruolo di committente d’arte e collezionista, ponendo alla base della ricerca un principio irrinunciabile per la società di Ancien Régime, ossia la considerazione nei confronti dell’alto potere di persuasione ed efficacia, presso chi ne sapeva cogliere e interpretare il contenuto allegorico e culturale, delle arti figurative e dell’architettura, che potevano divenire vero e proprio strumento politico, oltre che essere utilizzate per esprimere specifiche posizioni intellettuali.
La dimensione del mecenatismo dinastico è stata dalla storiografia del tutto assimilata alla sola figura del figlio cadetto di Ludovico, il canonico Manfredo, e alla sua nota Wunderkammern, elogiata dalla guidistica e dai viaggiatori seicenteschi[21] considerandolo l’unica e geniale figura di onnivoro collezionista, ma anche, più in generale, di amatore d’arte della sua famiglia. [22]
Tuttavia, dalla lettura stessa di alcune fonti contemporanee, oltre che dall’analisi della documentazione relativa alle vicende patrimoniali occorse dopo la morte di Ludovico e sino all’estinzione di questo ramo della stirpe che, tuttavia, proseguì ancora per secoli in quello dei cosiddetti Capitani di Settala, [23] emerge con chiarezza che il casato, non diversamente da molte altre dinastie patrizie milanesi, potesse vantare una plurigenerazionale tradizione di munificenza artistica e di bibliofilia.
Lo testimonia, tra i primi, il medico padovano Giovanni Battista Selvatico, in corrispondenza anche con Puteano e l’ambiente neostoico milanese che ricordava, nella sua storia dei medici milanesi pubblicata nel 1607, la «Rerum pulchrarum cupiditate» di Ludovico che lo aveva portato a «egregia sua sane cum laude opulentissimam librorum cuiuscimque generis collegit supellectilem, quam sumpitbus multis, multaque diligentia in dies auget». [24] Nel suo ultimo testamento il protofisco precisava [25] non solo di aver raccolto per tutta la vita, incrementando la raccolta avita, libri dedicati a molteplici discipline del sapere, con particolare attenzione alla filosofia e alla medicina, grazie anche al sostegno del fratello Gerolamo, canonico del duomo di Milano, ma soprattutto di aver finanziato egli stesso la costituzione di un primo nucleo del «gabinetto di Manfredo», molto probabilmente condividendo non solo la passione per le arti figurative, ma anche quella per oggetti curiosi, preziosi e rari, oltre all’interesse verso strumenti scientifici veri e propri, elementi tutti che in Milano avevano un precedente assai prossimo nelle raccolte, la cui descrizione era stata pubblicata nel 1619, dell’eclettico accademico inquieto Giovanni Battista Ardemanio, appassionato di musica, fisica e astronomia. [26] Per tutelare il patrimonio destinato a Manfredo, pur da considerarsi distinto dalla quadreria e dagli altri beni mobili di famiglia che, seguendo le tradizionali leggi della primogenitura, sarebbero spettati al figlio Senatore, il quale aveva seguito le orme del padre nella professione medica, [27] Ludovico aveva disposto che anch’esso fosse incluso nella «prohibitione di alienatione” che riguardava i beni vincolati dal fedecommesso, in virtù del fatto che «se bene con sua industria se n’ha guadagnato, il fodamento è p.o venuto da miei denari».
Al’inizio del XVIII secolo, estintosi il ceppo di Ludovico, i beni dinastici pervennero per vincoli di legge ai discendenti del ramo collaterale, nonostante le parziali decurtazioni dovute alle disposizioni testamentarie di Manfredo a favore dell’Accademia Ambrosiana. Queste ultime avevano riguardato, solamente, e non senza ripetute opposizioni manifestate per via legale da parte degli eredi, a partire dallo stesso nipote canonico Francesco, quanto era stato di sua diretta spettanza, [28] senza gli ulteriori implementi dovuti alla creazione di ulteriori nuclei collezionistici, frutto delle passioni individuali di altri esponenti della famiglia. Carlo, figlio di Ludovico e vescovo di Tortona, allestì una raccolta, ancora da precisare nei suoi estremi, di disegni, probabilmente grazie alle relazioni intrecciate con Cassiano dal Pozzo, [29] interlocutore particolarmente apprezzato in ambito milanese per la sua finezza di gusto e per la molteplicità di relazioni, come attestano le sue corrispondenze con rilevanti figure di collezionisti da Giovanni Ambrogio Mazenta, a Galeazzo Arconati al cardinale e arcivescovo Cesare Monti. [30] Interessi condivisi da questa cerchia di corrispondenti, alla quale si deve aggiungere anche Settala, erano il culto dell’antico, non senza la speranza di acquisire da scavi o raccolte presenti nell’Urbe qualche raro esemplare, e l’apprezzamento verso Leonardo, non solo in termini pittorici e soprattutto grafici, ma per lo studio e la possibile pubblicazione dei codici scritti dal maestro, iniziativa che aveva goduto anche della protezione del cardinale Francesco Barberini. Così negli ultimi decenni del Seicento il canonico Francesco fu committente di artisti milanesi a lui contemporanei, instaurando un rapporto privilegiato con il pittore Andrea Lanzani, [31] raccogliendo una propria quadreria con opere, tra gli altri, di Figino, Daniele Crespi, Giulio Cesare Procaccini, Francesco Cairo, e finanziò la ricostruzione dell’altare maggiore in marmi policromi nella chiesa milanese di San Nazaro ove godeva del beneficio già concesso allo zio Manfredo. [32]
Parziali attestazioni dell’esistenza, tra l’ultimo quarto del Settecento e l’inizio del secolo successivo, di una ricca quadreria di proprietà Settala si rintracciano da alcune fonti indirette e nella guidistica di inizio Ottocento, ove si ricordavano nella galleria d’arte della famiglia, tra gli esemplari più pregevoli, «varii quadri della scuola Lombarda, un ritratto fatto dal Tiziano, e due quadri di Gio Bellini”, oltre a una «ricca collezione di Cammei». [33] Il gesuita ed erudito Francesco Antonio Albuzzi, nella creazione della propria raccolta di disegni con ritratti di artisti milanesi, unitamente alle biografie che andava redigendo finalizzate alla pubblicazione in più volumi di una storia delle arti cittadina, menzionava tra le raccolte private nelle quali aveva potuto reperire utili materiali, gli autoritratti della citata pittrice Fede Galizia di e di suo padre Nunzio, anche quella dei discendenti del protofisico. [34] Così nelle Memorie di Giuseppe Bossi, segretario dell’Accademia di Brera, risalenti al primo decennio dell’Ottocento, si rintracciano notizie in merito ad una trattativa per la vendita di un dipinto ancora appartenente alle collezioni di famiglia ritenuto di Enea Salmeggia seppure caratterizzato da forti influenze raffaellesche. [35]
Nell’anno 1811 ebbe luogo un evento chiave per la storia delle raccolte superstiti, dal momento che, dopo la morte del conte Giovanni Antonio, il figlio maschio primogenito ed erede Luigi decise di vendere il palazzo di via Pantano, perdendo così per sempre lo storico allestimento nella dimora avita, e di trasferirsi con la quadreria nella più moderna residenza di via della Cavalchina, appositamente acquistata. [36] La grossa dispersione delle opere, tuttavia, ebbe luogo solamente a partire dagli anni quaranta e soprattutto dopo gli anni sessanta dell’Ottocento, quando furono alienate anche antiche e più recenti proprietà di famiglia. [37]
Pur essendo assai articolata e ancora in fase di completamento una puntuale ricostruzione del patrimonio artistico dinastico, non avendo ancora reperito inventari sistematici, è possibile tratteggiare alcuni caratteri delle raccolte di Ludovico e delle sue frequentazioni in ambito culturale, determinanti per le sue stesse scelte di mecenatismo.
Fondamentale doveva essere stata la conoscenza dell’erudito patrizio di origini genovesi Giovanni Vincenzo Pinelli [38] che aveva costituito a Padova, città nella quale trascorse buona parte della sua vita, un vivace cenacolo intellettuale di indirizzo europeo tra l’ultimo decennio del XVI e il primo del XVII secolo. Settala era stato invitato ad esercitare la docenza presso l’ateneo patavino, vi aveva inviato il figlio Senatore e continuò a mantenere costanti contatti con professionisti medici della città sino agli ultimi anni di vita, come risulta dalle sue corrispondenze. [39] È dunque possibile che l’amicizia tra i due fosse avvenuta direttamente o mediata da eruditi e docenti dell’università. Questa rete di relazioni dovette favorire i più tardi contatti anche con Galileo Galilei connessi con il tentativo di esclusione dal Collegio milanese del medico Baldassarre Capra, accusato di aver plagiato una invenzione dello scienziato pisano, il compasso geometrico, e ricordati dalla storiografia novecentesca, certamente da meglio indagare dal punto di vista della dialettica scientifica. [40]
Il ruolo di animatore della vita intellettuale patavina aveva comportato per Pinelli anche il possesso di cospicue collezioni che, oltre alla biblioteca, comprendevano strumenti scientifici e opere d’arte. Tra queste ultime, una certa rinomanza aveva assunto la serie di ritratti di uomini illustri, soprattutto personalità della cultura internazionale, che rispecchiava direttamente le sue ricerche erudite e la cerchia delle sue amicizie. L’interagenza ritenuta fondamentale tra le raccolte librarie e la complementare rappresentazione di personaggi storicamente rilevanti, come dimostrato anche nella costituzione dell’Ambrosiana, dovette interessare Settala. Sebbene quadrerie come quella gioviana e da essa derivate fossero costituite da lavori su tela di discreto formato, molte di queste raccolte, sia per ragioni di natura economica che per la facilità nel trasporto e della circolazione delle opere, erano costituite per lo più da esemplari di limitate proporzioni, magari dipinti su pergamena o su carta velina, o disegnati a sanguigna, matita nera, punta d’argento e coloriti all’acquerello, spesso raccolti in albums di cartone o piccoli libretti. Esempio significativo e testimonianza della vasta portata di questo fenomeno di gusto nel corso del XVII secolo sono le serie eseguite dal pittore Lorrain Henri Bellange, probabilmente uno specialista del genere, e dal suo atelier in cui l’attenzione nella selezione dei personaggi da raffigurare non solo era rivolta alla contemporaneità, ma anche alle figure politiche chiave nella storia del regno di Francia, incluse quelle dei pontefici. [41] Proprio in area francese fu realizzata una delle prime raccolte, con espliciti rimandi all’esempio dell’illustre amico Pinelli, quella di Nicolas Claude Fabri de Peirsec. [42] Il collezionista d’arte e antiquaria, nonché appassionato ricercatore nelle discipline scientifiche, dall’astronomia alla botanica, aveva soggiornato a Milano e conosciuto personalmente Settala nel 1602, durante un lungo viaggio intrapreso nella penisola italiana. Il protofisico, con cui poteva condividere una molteplicità di interessi, lo aveva assai positivamente impressionato, così come la conoscenza del giovane Puteano e la visita alla Biblioteca Ambrosiana in fase di costituzione. [43] Grande curiosità per questa ambiziosa iniziativa promossa dal Borromeo esprimeva nella corrispondenza epistolare con Settala, ben aggiornato sull’avanzamento dei lavori e le diverse trattative per il reperimento dei materiali librari, anche l’antiquario di Augusta Marcus Walser, personalità illustre a livello internazionale per le sue cognizioni in materia epigrafica e per la sua vivace attività editoriale indirizzata alla riscoperta di autori greci cristiani e medievali. [44]
Probabilmente attraverso questo contatto e certamente grazie alle relazioni intessute per via epistolare e di persona con il gruppo neostoico di Lovanio, dallo stesso Lipsio al suo allievo giunto nel capoluogo lombardo nel 1597, proprio grazie alla mediazione di Settala che non solo gli aveva procurato la docenza nelle Scuole Palatine, ma lo aveva introdotto prima a Padova da Pinelli e poi presso il Borromeo una volta rientrato definitivamente da Roma, [45] dovevano essere maturati quegli interessi antiquari, comuni a svariati esponenti del patriziato milanese e destinati a larga fortuna sino al Settecento inoltrato, che sono ricordati nei contenuti di alcuni componimenti letterari encomiastici usciti dalla penna di Ericio Puteano. Pochi mesi dopo il suo arrivo, il letterato non mancava di omaggiare il governatore Juan Fernández de Velasco, duca di Frias e Conte di Haro, il citato Giovanni Battista Sacchi e il protofisco Settala con una breve pubblicazione, le Reliquiae convivii prisci. L’ opuscolo era stato ispirato dai colloqui sull’antichità classica sviluppati in occasioni conviviali che avevano avuto luogo nello stesso palazzo, o meglio in una sorta di giardino interno a questo fabbricato, posseduto dal segretario del Senato, definito «illustre ingegno», ed esplicitamente indicato tra i principali protettori del giovane belga. [46] Il contenuto dell’opera sottolineava i comuni indirizzi intellettuali, connessi ai filoni di erudizione antiquaria, all’interesse verso il pensiero di Seneca, ripreso da numerosi autori alla fine del Cinquecento, e largamente utilizzato nelle posizioni, condivise dal gruppo milanese, di neostoicismo cristiano assunte da Lipsio che nel 1605 aveva pubblicato una discussa edizione commentata dell’opera del filosofo romano. [47] Nella fatica letteraria di Puteano figuravano due interessanti interlocutori dal punto di vista artistico: il poeta Ercole Cimilotti [48] con cui Settala condivideva l’affiliazione all’Accademia degli Inquieti, i cui componimenti, variamente indirizzati a personaggi di primo piano nella società milanese, annoveravano tra i principali dedicatari il conte Pirro Visconti Borromeo e il cenacolo culturale radunato nel ninfeo della sua splendida residenza di Lainate, [49] e l’oggi del tutto sconosciuto pittore Giacomo Calderoni, originario di Gouda, in Olanda, forse giunto a Milano al seguito di qualche esponente del governo asburgico. Già noto a Puteano, a lui nel volumetto era stato destinato il ruolo di accogliere il nuovo arrivato dalle Fiandre, illustrargli le bellezze del capoluogo lombardo e i meriti dei suoi cittadini illustri. Le sue capacità pittoriche, e forse anche di poeta dilettante, già gli avevano meritato il plauso della nota attrice e poetessa Isabella Andreini. [50]
Questo stesso ambiente doveva aver favorito le visite milanesi del più celebre esponente del gruppo di Lovanio in ambito pittorico, ovvero Pieter Pauwel Rubens. [51] Al di là dell’interesse per gli studi e copie dal Cenacolo di Leonardo e dal Cristo coronato di spine di Tiziano, entrambi nel complesso domenicano di Santa Maria delle Grazie, [52] certamente l’artista, molto apprezzato dalla corte asburgica, poté essere richiesto anche dal circolo intellettuale formatosi nel capoluogo lombardo per lasciare qualche traccia del suo operato. Mancano indagini specifiche in proposito, ma vale la pena di ricordare i legami intrecciati dal pittore con Ercole Bianchi, matematico e agente d’arte del cardinale Borromeo. [53] Attualmente le prime attestazioni di opere del maestro nelle collezioni patrizie ambrosiane risalgono a qualche decennio più tardi, come dimostra l’arrivo nella quadreria del cardinale Cesare Monti, successore del Borromeo, di una serie di quattro cartoni per arazzi eseguiti su disegno di Rubens con Storie di Romolo e Remo, oggi al National Museum di Cardiff, [54] oppure la attestata presenza di ben sei tele nelle collezioni del governatore marchese di Caracena. [55] Tuttavia appare del tutto improbabile che nessun esponente del gruppo che si era raccolto intorno a Puteano, quest’ultimo in diretto contatto, e in un certo senso in competizione, con il fratello del pittore, Philip, [56] non avesse commissionato dipinti, magari ritratti, emulando così l’azione contemporanea di quei membri dell’aristocrazia genovese, come gli Spinola, i Lomellini o i Doria, [57] o lo stesso Gaspare Scioppio, in relazioni epistolari con Settala, che in Roma si era fatto effigiare dal maestro. [58] Le dinastie della Superba furono in stretto contatto con la realtà milanese, sia sotto il profilo finanziario e politico che artistico, per oltre centocinquant’anni; sul fronte del mecenatismo pittorico si pensi solamente alla fortuna incontrata dai lavori di Giulio Cesare Procaccini. [59] Un indizio interessante in questa direzione possono essere le presenze, attestate almeno dalla metà del Seicento, di una replica del ritratto del governatore Ambrogio Spinola eseguito dal fiammingo, seppure in date più avanzate rispetto a quelle in esame, e di un Davide e Golia, da sempre considerato autografo, in collezione Arese Lucini. [60]
In un ambiente così attento alla conoscenza e alla riproposizione della cultura e dello “spirito” degli antichi, la forma artistica privilegiata, sia in pittura che in scultura, si configurò primariamente come un ritorno al classicismo, espresso sia attraverso precise scelte collezionistiche in direzione del recupero della “aurea” età del primo Cinquecento leonardesco ed emiliano, sia con dirette commissioni ad artisti contemporanei.
La ricordata Fede Galizia, indubbiamente apprezzata da Settala, celebre soprattutto per le sue nature morte, ispirate dai coevi lavori fiamminghi, oltre che come ritrattista e autrice di più impegnati soggetti sacri di impianto manieristico-controriformato, come nella Giuditta con la Testa di Oloferne appartenuta alla stessa collezione del protofisico, fu anche molto ricercata come copista di Correggio. [61] La produzione dell’Allegri, considerato uno dei veri protagonisti del primo Rinascimento in area “lombarda”, fu prediletta del patriziato milanese: dai Borromeo agli Archinto, dai Settala, che possedevano una delle note repliche della Zingarella, [62] all’arcivescovo Monti. [63]
La declinazione correggesca e parmigianinesca trovava ancor più recente traduzione nella reinterpretazione datane dai pittori della famiglia Procaccini che godettero del favore di una vasta fetta del mercato milanese per decenni. [64] È proprio all’ultimogenito dei tre fratelli pittori e meno noto, Carlo Antonio, che la critica ha attribuito una Flora, ispirata dai prototipi leonardeschi riletti da Francesco Melzi che si trovava in collezione Settala. [65] Riscoperta a inizio Novecento, venne pubblicata in un articolo apparso sul Burlington Magazine del 1909 come originale del maestro. [66] È fenomeno ampiamente studiato la fortuna ininterrotta della lezione di Leonardo, attraverso l’attività proseguita nel corso del Cinquecento da collaboratori e allievi, successivamente reinterpretata dallo studio di Gaudenzio Ferrari, che godette di rinnovato interesse, anche in funzione didattica, da parte di Federico Borromeo e dal suo entourage. [67] Parallelo fu il collezionismo di disegni e, soprattutto, la ricerca di manoscritti originali di Leonardo che interessò, come già si è detto, gli stessi Settala, così come i Mazenta o il già citato Monti. [68]
L’apprezzamento e la diffusione di opere di un grande maestro del secondo Cinquecento genovese quale Luca Cambiaso confermano la vivace e costante circolarità di rapporti tra Milano, Genova e Madrid. [69] L’Orazione nell’orto appartenuta ai Settala, a seguito di alleanze matrimoniali per via femminile giunta in Val Vigezzo, [70] ben testimonia quell’interesse per una pittura di storia, indipendentemente dal soggetto, tratto dalle fonti bibliche, evangeliche, mitologiche o dell’antichità, in cui la rappresentazione, pur passibile di più livelli di lettura, apparisse equilibrata ed essenziale, disegnativamente curata secondo i dettami classicisti elaborati nei consessi accademici fiorentini e romani e fatti propri anche dall’Ambrosiana. [71] In direzione del sostegno verso gli artisti della generazione che si era venuta affermando tra l’ultimo decennio del Cinquecento e il primo decennio del Seicento e che includeva, oltre ai già citati Procaccini, Morazzone e la grande scuola del Cerano, protetto dal Borromeo e chiamato alla docenza in Accademia, sono attestate diverse opere nella raccolta di Manfredo. Lavori ancora in parte da identificare, furono eseguiti dall’intera famiglia del Crespi, segno evidente di una continuità di rapporti, dal San Giuseppe del padre Raffaele al San Francesco della sorella Giulia, dalla Erodiade con la testa del Battista entro un bacile, frutto della collaborazione tra il maestro e la figlia, o la Lucrezia, forse dipinta dal genero del Crespi, Melchiorre Gherardini, trasmessa, come ricordano le fonti, da Ludovico al figlio e quindi pervenuta all’Ambrosiana, [72] ma anche un autografo che lo stesso Crespi aveva donato a Manfredo, insieme al fratello Senatore al cappezzale del pittore poco prima della morte, per lascito testamentario: il San Giacomo che sconfigge i mori oggi ad Austin, Jack S. Blanton Museum of Art, che dunque non pervenne in eredità all’istituzione milanese. [73]
L’artista prediletto dal gruppo di intellettuali neostoici fu il più giovane, ma assai promettente Daniele Crespi. [74] La sua pittura incline al recupero del classicismo di marca emiliana, l’abilità disegnativa, e una certa vicinanza culturale alle posizioni ideologiche di questo raffinato consesso, ne fecero il riferimento costante per le più diverse imprese pittoriche. Vale la pena di ricordare che nella biblioteca inventariata dopo la sua morte vi si conservavano, oltre alla trattatistica architettonica cinquecentesca di Palladio, Serlio, Vignola, i recenti testi accademici di Armenini, Borghini, Zuccari e naturalmente Lomazzo, nonché un manoscirtto del Trattato della Pittura di Leonardo, una non precisata edizione della «Retorica, pratica di Aristotele», e soprattutto un volume de «Le Epistole di senecca», e una versione della «Filosofia naturale» del professore patavino Alessandro Piccolomini. [75]
Abile ritrattista, come dimostra il dipinto che raffigura il giovane Manfredo con i suoi amati avori lavorati al tornio pervenuto in Ambrosiana, [76] fu celebrato per questo genere di opere in svariati componimenti letterari. Si ricordino in particolare un epigramma di Gerolamo Bossi, giurista e letterato pavese, inviato al somasco vicentino Gaspare Trissino, oppure l’erudita lettera del medico lariano Sigismondo Boldoni al segretario Sacchi e all’amico comune, patrizio milanese forse appartenente a una dinastia di origini veronesi e figlio del medico Antonio, Alessandro Monti. Si tratta di una produzione, per la maggior parte perduta, di piccoli ritratti, talvolta anche su pergamena, che venivano utilizzati come forma di dono diplomatico e amicale o per arricchire serie gioviane di uomini illustri che completavano l’arredo delle biblioteche di ville e palazzi. [77]
Il suo ruolo di artista protagonista di pubbliche imprese è confermato dalle documentate e, felicemente ancora conservate, opere eseguite per conto dei due fratelli Sacchi, espressione di una più vasta produzione di soggetto sacro destinata al rinnovamento degli spazi di culto di patronato aristocratico nelle chiese della capitale e del territorio dello Stato di Milano. [78] La pala per la cappella nella chiesa barnabitica di Sant’Alessandro, risalente al 1618, fu una delle prime commissioni autonome del pittore cui seguì, pochi anni dopo, la grandiosa decorazione della volta della cappella di San Paolo o dell’Annunziata nella basilica domenicana di Sant’Eustorgio, affrescata con il sofisticato e prezioso tema di San Paolo rapito al terzo cielo, intrisa di echi correggeschi e parmigianineschi. Alla fine del terzo decennio del Seicento si data l’ultima commissione nota, la tela per la chiesa esterna del monastero agostiniano femminile di Lonate Pozzolo, rappresentante la Madonna col Bambino e i sette arcangeli, culto dalle possibili sfumature eterodosse che era stato promosso da Pio IV a Roma con la fondazione della michelangiolesca basilica di Santa Maria degli Angeli, sorta nei pressi delle terme di Diocleziano, [79] e che era particolarmente gradito anche nel mondo iberico, si pensi solamente al ciclo dei Sette angeli su tela collocato in un ambiente al piano terreno e ripreso nella pittura dello scalone monumentale che conduce al piano nobile del convento dinastico delle Descalzas Reales a Madrid. [80]
Oltre a rappresentare i membri della famiglia Settala con realismo e sagacia, come attesta la stessa descrizione del Museo di Manfredo che elenca altri ritratti di questo stesso autore, Crespi fu testimone e illustratore scientifico delle indagini effettuate da Ludovico e dal figlio Senatore, insieme a Gaspare Aselli, [81] per la scoperta dei vasi linfatici, avvenuta intorno al 1623. Lo testimoniano con dovizia di dettagli alcune memorie inedite riferibili al più giovane dei professionisti di casa Settala che, oltre a descrivere gli esperimenti effettuati e le osservazioni raccolte, riportano la partecipazione di artisti alle sessioni di ricerca. Furono chiamati non solo per approfondire le proprie conoscenze anatomiche con l’osservazione dal vero, ma soprattutto per registrare fedelmente quanto veniva scoperto durante le dissezioni effettuate su animali: cani, gatti, cavalli. [82] Conferma di questo impegno sono le tavole, pur non firmate, che accompagnano il celebre testo a stampa che presenta per la prima volta al pubblico con immagini la scoperta del sistema linfatico. L’opera, da considerarsi la prima in cui vennero realizzate puntuali illustrazioni anatomiche stampate in xilografia a quattro colori, fu pubblicata due anni dopo la prematura morte di Aselli, avvenuta nel 1625, [83] per cura dello stesso Senatore e del collega Alessandro Tadino, pochi anni dopo importante referente per i rilevamenti dei casi di peste nel territorio lombardo. [84] Si metteva così in pratica quella sperimentazione scientifica diretta di cui Galileo era da tempo convinto, e forse il più noto, assertore che includeva osservazione, determinazione del problema, formulazione dell’ipotesi, verifica sperimentale delle ipotesi formulate, raccolta dati a cui, in questo caso, prendevano parte anche pittori e miniatori, elaborazione dei risultati e loro pubblicazione.
L’attività di indagine dal vivo, svoltasi prevalentemente nel giardino delle Scuole Canobiane, narrata senza cautele in quanto sotto forma di “appunto privato”, anche se forse già steso in buona grafia per una possibile revisione ai fini di una pubblicazione, aveva incluso tra gli attori, oltre a Crespi e a svariati medici di differente età ed esperienza tra cui si annoveravano l’amico Tadino, Quirino Cnoglero, Alessandro Carcano [85] e il citato Alessandro Monti, anche una personalità al centro dell’ambiente culturale patrizio milanese dei primi decenni del Seicento: l’architetto e ingegnere Muzio Oddi. [86] L’urbinate come era già stato per Puteano un “forestiero” illustre, aveva ottenuto nel quindicennio di permanenza nel capoluogo lombardo l’ambito impiego di docente presso le Scuole Palatine. [87] Il professionista e studioso intrattenne nel capoluogo lombardo un’ampia rete di relazioni che lo impegnarono oltre che nell’insegnamento e diffusione del sapere aritmetico e geometrico, alla base non solo della formazione di ingegneri, architetti e artisti, ma anche dell’educazione dell’aristocrazia internazionale, nel ruolo di mediatore nel mercato artistico tra le corti italiane, non mancando di segnalare i più promettenti artisti presenti sulla piazza milanese, come dimostrano le raccomandazioni nei confronti di Crespi, Morazzone e i fratelli Procaccini trasmesse a Lucca a Piermatteo Giordani. [88] Oddi assunse inoltre la posizione di promotore e tramite per la circolazione di strumenti di misurazione e calcolo, nonché di interlocutore nel dibattito astronomico e, più in generale scientifico, sulle novità galileiane, benché non sempre dall’urbinate e dai suoi interlocutori pienamente comprese, come dimostrano le diverse prese di posizione nei confronti della veridicità dei dati restituiti dall’osservazione con il telescopio galileiano, rispetto alle possibilità di conoscenza fornite dal calcolo matematico e dalla costruzione geometrica in astronomia, [89] ma senza dubbio acquisite con curiosità e partecipazione.
Tra i suoi allievi per apprendere concetti matematici ed elementi di prospettiva figurano nell’arco di quasi un decennio due figli di Ludovico, Senatore e Alberico, [90] così come si ritrovano tra coloro che ricevettero le sue lezioni, a cavallo tra la fine degli anni dieci e l’inizio degli anni venti del Seicento, l’amico Monti e il prediletto Daniele Crespi, quest’ultimo, insieme ad alcuni altri pittori e scultori al tempo frequentanti l’Accademia Ambrosiana, inviato presso l’urbinate a spese dello stesso Borromeo che gli fece pervenire ripetuti doni. [91]
Esemplifcativo di questo clima culurale è uno straordinario dipinto, oggi in collezione privata newyorkese, appartenuto al mercante e finanziere originario di Anversa Peter Linder che trascorse oltre un ventennio nel capoluogo ambrosiano, tra il secondo e il quarto decennio del Seicento, per poi trasferirsi, nel momento di maggiore crisi economica per lo Stato di Milano, a Venezia. [92] Il fiammingo fu in strette relazioni con Oddi, di cui seguì lezioni di architettura militare nello stesso 1621, e attraverso il quale si procurò svariati strumenti di misurazione e calcolo, mantenendo corrispondenza con l’architetto e un rapporto di stima sino alla sua morte. [93]
L’opera può senza dubbio essere letta come una sintesi dei saperi e dei gusti artistici del patriziato lombardo culturalmente più vivace di cui faceva parte a pieno titolo lo stesso Settala. è possibile ipotizzare che, per certi aspetti, possa persino suggerire e rispecchiare il senso delle sue raccolte per quell’approccio enciclopedico alla conoscenza e alle sue diverse rappresentazioni che indubbiamente compare per quanto sia stato possibile ricostruire in merito alle scelte del protofisico nell’ambito delle arti figurative e del suo approccio con maestri a lui contemporanei. Lavoro di un artista fiammingo vicino a Jan Brueghel dei Vellutti, apprezzato dal cardinale Borromeo, [94] o piuttosto a Hendrick I Van Balen, per altro suo collaboratore, raffigura un interno signorile nel quale, secondo modelli elaborati nelle Fiandre proprio in questi decenni, sono allestite e illustrate una ricca quadreria con soggetti biblici, mitologici e paesaggi che imitano «le maniere di varij pittori singolari» e una collezione di oggetti e libri scientifici che rivelano un prevalente interesse per la matematica e l’astronomia con particolare attenzione nein confronti di Keplero e delle sue scoperte. Svariate sono le citazioni di artisti e di opere note, alcune riconoscibili come prodotte nel contesto milanese o ad esso riconducibili. Spicca la raffigurazione di una composizione pittorica in cui un personaggio di età matura è rappresentato nell’atto di illustrare un tema di geometria relativo agli specchi ustori a un uomo più giovane. L’opera che rispecchia abbastanza fedelmente un dipinto di Daniele Crespi noto in un paio di redazioni che la critica ritiene rappresentare Muzio Oddi in qualità di docente di un nobiluomo milanese, da alcuni ritenuto essere lo stesso mercante Linder e da altri Giulio I Arese, presidente del Senato e appartenente a una potente dinastia del patriziato milanese in stretta correlazione con svariati dei personaggi citati. [95] Così la ancora non del tutto chiarita concettosa allegoria centrale che raffigura un uomo barbuto e anziano seduto, sulle cui gambe poggia la testa una figura androgina, assimilabili il primo con il sapere matematico o scientifico e il secondo, presumibilmente, con le arti del disegno, riconduce alle discussioni e agli eruditi e sosfisticati consessi accademici di cui gli stessi patrizi milanesi e i loro ospiti di varia provenienza europea erano gli animatori. [96] La stessa strumentazione astronomica e matematica illustrata come un brano indipendente di natura morta, collocato volutamente in primo piano, principalmente diretto a suggerire il confronto tra i diversi sistemi cosmologici e le ricadute delle differenti interpretazioni sulla percezione e rappresentazione della realtà, argomento al tempo di viva attualità, [97] costituisce una conferma visiva di un condiviso enciclopedico approccio alla conoscenza con aperture verso le novità galileiane e all’uso di strumentazione scientifica per una corretta e più ampia investigazione del reale che fu proprio anche di casa Settala sin dai primi decenni del Seicento, grazie a una rete internazionale di relazioni, e che non fu solamente il frutto della curiosità e delle indagini della generazione di Manfredo. Ne sono riprova significativa alcune annotazioni del primogenito Senatore, risalenti ai primi mesi dell’anno 1628, contenute nel diario ove registrava fedelmente la pratica medica, l’attività politica cittadina e gli avvenimenti bellici europei resi noti dalle Gazzette, nonché le più minute vicende famigliari, ove il patrizio milanese ricordava di essersi dedicato, in compagnia del padre Ludovico, all’osservazione delle macchie solari e lunari che «si discernevano benissimo» con il cannocchiale «si bello» di Galileo, strumento ammirato e posseduto in quegli stessi anni dallo stesso cardinale Federico Borromeo [98] e dal governatore di Milano, Gonzalo Fernández de Córdoba. [99]
Note