Un re-sole, un sole-re: filosofie della natura e teorie della sovranità nella Roma barocca

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Author: 
Federica Favino
Sapienza Università di Roma
1. Un 'cielo talismanico' a Palazzo Barberini.

Solo un corpo scala separa, nel Palazzo Barberini di Roma, il soffitto decorato da Pietro da Cortona dalle monumentali 'api barberine', dall'altrettanto celebre Allegoria della Divina Sapienza. [fig. 1]

L'affresco fu realizzato da Andrea Sacchi su commissione di Taddeo Barberini per decorare l'ala a lui destinata nel Palazzo di famiglia alle pendici del Quirinale, ancora in costruzione. Si trattava dell'ala nord, quella che inglobava il preesistente palazzo Sforza. [1] L'affresco, in particolare, doveva decorare la volta di una delle anticamere dell'ala pubblica degli appartamenti di Anna Colonna Barberini, moglie di Taddeo, al piano nobile del palazzo, l'anticamera che introduceva alla cappella privata, decorata anch'essa da Pietro da Cortona e la sua scuola.

Le date di composizione della Divina Sapienza non sono certe. La commissione è senz'altro del 1629 - i pagamenti sono attestati dal dicembre di quell'anno - ma l'ultimo conto, datato 28 novembre 1630, non era quello conclusivo. [2] L'affresco, comunque, era di certo ultimato nel 1632, quando nella cappella veniva battezzata Lucrezia Barberini, la quarta figlia di Taddeo e Anna.

Possediamo almeno cinque documenti contemporanei che contengono una descrizione dettagliata della sua iconografia. [3] Quella che gli specialisti riconoscono come la più attendibile, anonima e conservata in un foglio del codice barberino latino 6529, è stata pubblicata nel 1927 da Giovanni Incisa della Rocchetta. [4] Il documento individua la fonte primaria del soffitto nel libro biblico della Divina Sapienza, in particolare nei capitoli 7 e 8, e spiega che quello dipinto da Sacchi era un tema particolarmente appropriato alla maestà del palazzo, utile a mostrare che, se la fortunata famiglia Barberini era stata scelta per governare la Chiesa in luogo di Dio, lo faceva con l'aiuto della saggezza celeste, che essa amava e riveriva.

Secondo il codice Barberino, gli attributi della Divina Sapienza sono presentati qui secondo un doppio codice: come personificazioni delle virtù che il testo biblico le attribuisce, e come corpi celesti (le stelle di costellazioni determinate). Da sinistra a destra e omettendo, per il momento, le figure aeree di Amore e Timore, vi compaiono la nobiltà con la corona di Arianna, l'eternità con il serpente, la giustizia con la bilancia, la forza con il bastone, la soavità con la lira, la divinità col triangolo, la beneficenza con la spiga e il seno che stilla latte, - oltre la Divina Sapienza - la santità con l'altare fiammeggiante, la purezza con il cigno, la perspicacia con aquila, la bellezza con la chioma di Berenice. A rischio di creare qualche confusione negli osservatori, l'autore del programma avrebbe selezionato deliberatamente per le figure che accompagnano la Divina Sapienza, gli attributi che corrispondevano anche a delle costellazioni - la corona di Arianna per la nobiltà; la bilancia per la giustizia, e così via. Lo stesso dualismo si rifletterebbe nella figura della Divina Sapienza: essa è una personificazione - con gli attributi che la Bibblia le riconosceva: lo specchio della Prudenza, lo scettro della Divina Provvidenza ornato con l'occhio di Dio che vede tutto - ed è comparata ad un corpo celeste, cioè al Sole che irradia e che orna il suo petto, collocato nella posizione esatta del segno del Leone.

Data questa doppia lettura iconografica suggerita dall'anonomio documento barberino, alla fine degli anni Settanta Georg Lechner ha avanzato l'ipotesi che l'affresco avesse a che fare con riti astrologici e magici. [5] Egli ipotizzava che, di fatto, esso rappresentasse i cieli come si presentavano il giorno dell'elevazione al soglio di Urbano VIII, il 6 agosto 1623, con il Sole, appunto, nella casa del Leone e in particolare nella seconda decade - simboleggiata qui dalla figura aerea di sinistra, quella del giovane con la freccia in sella al leone (personificazione del Timor di Dio) -, per di più in trigono rispetto ad Ariete, il segno nativo del papa. Oltre a ciò, Lechner affermava che l'affresco ritraesse un cielo particolarmente propizio alla salute di Urbano, un luogo in cui rifugiarsi quando il cielo reale si presentava minaccioso al suo quadro astrale. [6]

È altrettanto noto che, proprio nei mesi in cui Sacchi affrescava palazzo Barberini, il papa condivideva i suoi interessi e le sue pratiche magico-astrologiche con Tommaso Campanella, recentemente scarcerato dalle prigioni dell'Inquisizione. Gli episodi forse più noti degli anni romani del frate, infatti, sono quelli che lo ritraggono nei panni di sacerdote-mago per conto del papa.

In particolare, nel maggio 1630, data l'imminenza di un'eclisse di Sole, e molto allarmato per l'insistenza delle predizioni degli astrologi giudiziari e soprattutto dei membri del collegio riunito al convento vallombrosano di Santa Prassede che lo davano prossimo alla fine, il papa aveva giudicato opportuno premunirsi contro i malefici influssi che l'eclisse avrebbe potuto provocare sulla complessione di chi, come lui, aveva un quadro astrologico dominato dal Sole, mobilitando le competenze magico-astrologiche di un officiante di eccezione come Campanella. Al riparo da occhi indiscreti, nelle stanze della residenza di Castel Gandolfo, il papa e il frate avevano messo in pratica le cerimonie già illustrate dal filosofo nell'opuscolo 'clandestino' De siderali fato vitando (1629). In caso di contaminazione dei cieli, qual'era una eclissi, per purificare l'aria dai semi nocivi Campanella suggeriva, tra l'altro, l'accensione di «due luminari e cinque fiaccole, che rappresentino i pianeti del cielo, in modo che, quando si oscurano in cielo, non manchino quelli che li sostituiscano sulla terra, come di notte, quando il sole si allontana, una lampada lo sostituisce, perché non venga a mancare il giorno che si è allontanato». [7]

Questo allestimento fittizio riproduceva quello che avrebbe dovuto avere il tempio collocato nell'esatto centro geometrico della Città del sole, progettato da Campanella nella sua celebre opera. In qualche modo, però, Lechner ha visto il tempio solare come il modello nascosto dell'affresco della Divina Sapienza che Andrea Sacchi stava certamente dipingendo in quel momento.

Questa circostanza, e un uso filologicamente effettivamente molto disinvolto degli scritti del filosofo, portava lo storico a concludere che «l'affresco della Divina Sapienza è una rappresentazione visibile dei concetti politici e filosofici di Campanella, composti in un grande schema incentrato sulla missione regia del Papa» e che proprio lui fosse stato l'autore del programma iconografico descritto nel codice Barberino. Sarebbero evidenti, in quel programma, le tracce dell'aspirazione del filosofo ad una monarchia cristiana, che trova il suo punto di riferimento e il proprio fondamento irrinunciabile nel primato assoluto del papa e nell'assommarsi nella sua persona del supremo potere spirituale e temporale. Tanto più che Campanella, ammiratore di Galileo, avrebbe facilmente condiviso la rappresentazione incredibilmente evocativa del cosmo eliostatico che l'affresco indiscutibilemente offriva. [8]

La tesi di un significato magico-astrologico dell'opera di Sacchi, a suo tempo ampiamente criticata da Ann Sutherland Harris, è stata riproposta in anni più recenti da John Beldon Scott nel suo Images of Nepotism. The Painted Ceilings of Palazzo Barberini. [9] Scott non solo ne ha esteso la condivisione anche a Taddeo Barberini, l'effettivo inquilino delle stanze, nato sotto lo stesso segno zodiacale dello zio, ma ha messo in evidenza soprattutto il nesso tra la simbologia dell'affresco e il fatto che l'immagine del Sole era - insieme con le api - il principale emblema della famiglia Barberini, di cui sono attestate non meno di 5 varianti e 5 motti. [10]

 

2. Coincidenze.

Lasciando certamente la questione della paternità del progetto e dell'iconologia dell'affresco agli storici dell'arte, certo più competenti a trattarne, merita qui richiamare l'attenzione sulla ampia risonanza che, al di là della questione specifica, il tema solare ebbe nelle discussioni dei cortigiani del papa proprio nel maggio-giugno 1630 - in prossimità della temuta eclissi e mentre Sacchi lavorava al suo affresco - e sulle sue molteplici, intricate implicazioni, astologiche, astronomiche, filofico-naturali, politiche e, addirittura, eliolatre.

Mentre il papa e Campanella si trovavano a Gandolfo per compiere i loro riti propiziatori, il 3 maggio 1630 Galileo arrivava a Roma per presentare all'autorità ecclesiastica il dialogo Del flusso e riflusso, ovverosia l'argomento che egli riteneva conclusivo per provare la mobilità della Terra e la correttezza dell'ipotesi copernicana. Ospite dell'ambasciatore fiorentino Francesco Niccolini a Villa Medici, nei giorni successivi egli aspettava con impazienza il ritorno del papa «per dar principio a' suoi negozii». [11]

Si può considerare oramai certo che proprio durante quel soggiorno avvenne uno dei rari incontri personali tra Galileo e Campanella e che quell'incontro avvenne alla Torre dei Venti, in Vaticano, negli appartamenti di monsignor Giovanni Ciampoli. [12] [fig. 2]

Quella di Giovanni Battista Ciampoli (Firenze 1589-Jesi 1643), all'intersezione tra la 'scuola' di Galileo e l'ambiente della Curia romana, è per lo studioso una figura chiave per comprendere nelle sue dimensioni reali e spregiudicate il rapporto tra scienza e religione nell'età della Controriforma. Intellettuale e poeta, conoscere il suo pensiero è inoltre importante per cogliere il ruolo della sclenza nella cultura italiana dell'età barocca.

Discendente da un ramo decaduto della famiglia Cavalcanti, Ciampoli era stato allevato a Firenze  dal mecenate e madrigalista Giovan Battista Strozzi il Giovane (Firenze 1551-1634). Dotato di una prodigiosa facilità di verseggiare, frequentò fin da giovane la corte del granduca Ferdinando de' Medici, divenendo intimo del principe Cosimo. Nell'estate del 1608, nella villa del granduca, fece conoscenza col Galilei, divenendone fedele discepolo e sostenitore per tutto il resto della sua vita. Avviato dallo Strozzi alla carriera curiale (1614), dopo la laurea in giurisprudenza (Pisa 1614), grazie alle relazioni di patronage con alcune delle più potenti famiglie romane, assurse al rango di segretario dei brevi segreti ai principi, dapprima con papa Gregorio XIII Ludovisi (1621), e quindi con papa Urbano VIII Barberini (1623). [13]

A quella data, egli condivideva già da anni con papa Urbano l'adesione all'etica e all'estetica letteraria, moraleggiante ma comunque aperta al marinismo, del cosiddetto 'circolo barberiniano'. Fu proprio lui, anzi, nei primi anni Trenta a redigere il manifesto di questa concezione della poesia - che la voleva edificata sopra una base scritturale e agiografia - nella Poetica sacra. D'altro canto, la sua conferma nel 1623 al ruolo di segretario dei brevi rappresentò il suggello della protezione accordata da Urbano VIII all'Accademia dei Lincei, cui Ciampoli era stato ascritto grazie a Galileo fin dal 1618. [14]

Dopo il 1623, l'assidua frequentazione e l'intimità con il papa fecero di lui un personaggio chiave nella 'battaglia' di Galileo e dei Lincei per l'affermazione del copernicanesimo: egli divenne infatti l'osservatore più informato sugli spazi di manovra che la dinamica della politica curiale apriva di momento in momento a quella battaglia e sull'opportunità di pubblicazione per le opere galileiane a cura dei Lincei.

I discorsi affrontati dagli ospiti di Ciampoli a maggio 1630, presente Galileo, avevano lasciato una profonda impressione in coloro che vi avevano preso parte. Ancora nel giugno 1636, ad esempio, lo stesso Campanella ricordava di avervi ascoltato Galileo dire di «essere con Democrito, e massime dei principj». [15]

Le serate a casa del segretario in quella tarda primavera offrono la giusta cornice anche ad un ricordo che il letterato e scienziato Carlo Roberto Dati attribuiva ad Orazio Ricasoli Rucellai - il quale ne poteva essere stato facilmente testimone in quanto ospite delle serate del Ciampoli - in una delle sue Veglie:

Io mi ricordo - diceva l'Imperfetto - d'avere udito dire che il P. Campanella, ingegno grande, anzi meraviglioso, avendo vedute alcune opere di Galileo, s'invaghì talmente di quel nuovo modo di speculare […] che, abbattendosi in Roma a discorrere con esso lui, l'esortò efficacemente e lo supplicò a nome degli studiosi a voler pigliar sopra di sé l'impresa di riordinare co' suoi principii e con metodo diverso la fisica […]. [16]

Questo episodio si doveva essere impresso profondamente nella memoria del Rucellai, il quale lo ricordava a sua volta nel quarto dei sedici dialoghi sui principi universali della natura appartenenti alla Villeggiatura Tiburtina, composti non prima degli anni Sessanta del Seicento. [17] Nell'Eraclito - questo il titolo del dialogo - Raffaello Magiotti, che ne è l'interlocutore principale, presentava l'ipotesi secondo la quale la luce sarebbe il primo elemento di tutte le cose da lui sostenuta, richiamandosi esplicitamente ad un'opinione professata da Galileo in privato:

[…] vo contarvi, in simil proposito, come una cosa somigliante cadde parimente in pensiero al signor Galileo nostro; e pure egli era matematico, che vuol dire non di soperchio credulo. Questo si fu, che la luce per avventura potesse essere il cominciamento universale della natura; e ciò imperocché esso credeva, che la luce fosse l'estrema espansione, cioè l'ultima rarefazione che dar si potesse; dal qual primo principio tutte le cose, condensandosi essa, dove più e dove meno si componessero, sino alla più spessa e fitta condensazione, anche delle pietre più dure e impenetrabili. Il che, se voi porrete mente, s'accorda assai con la conclusione tratta di sopra dalla proposizione del Timeo: perché se la luce nasce dal fuoco, può darsi che il fuoco sia il principio di tutte le cose, come dice Eraclito. [18]

Ai dubbi espressi da uno degli interlocutori, che gli faceva notare quanto fosse difficile apportare la prova di questa ipotesi, Magiotti rispondeva sottolineando le precauzioni prese da Galileo, in opposizione alla arditezza di Tommaso Campanella:

Neanche il Galileo fe' profession di provarlo, né avrebbero messo fuori così alla bella prima; ma ciò fu un pensier che li venne, il quale non gli pareva tanto più inverosimile di quelle cotali opinioni, che si spacciano oggidì per provate, sotto l'autentica di un nome. Voi me l'avete udito dire dell'altre volte, ch'e' non metteva mai proposizioni per vere, s'elleno da qualche irreprobabil esperienza non eran ridotte al chiaro; e imperciò le sue più fide scorte, eziandio nelle cose fisiche, furono sempre le dimostrazioni geometriche. […] Ma al padre Campanella, che a ciò il consigliava, che credete voi ch'e' rispondesse? Ch'e' non voleva per alcun modo, con cento o più proposizioni apparenti delle cose naturali, screditare e perdere il vanto di dieci o dodici sole, da lui ritrovate, e che sapeva per dimostrazioni esser vere. [19]

L'esortazione a rifondare l'intero edificio della fisica sull'ipotesi che il principio primo della materia universale siano gli atomi di luce - al quale Campanella esortava Galileo alla presenza almeno del Ricasoli Rucellai - era stato dunque rifiutata allora dal matematico in nome di una scienza che deve essere costruita solo di «sensate esperienze» e «certe dimostrazioni». Si tratta di un atteggiamento che riconosciamo nel Galileo 'pubblico', che si manifestava «ogni qualvolta egli aveva a che fare con argomentazioni e discorsi probabili che, pur godendo di un loro grado di plausibilità, non erano suffragate da ragioni certe e indubitabili» [20] , qual'era, soprattutto, il caso della luce.

Ebbene, quel che Galileo non volle fare, lo fece invece il suo amico Ciampoli, che nessuna delle remore del maestro sembra aver sfiorato, per ragioni epistemologiche, ideologiche e storiche. Per lui, le 'certe dimostrazioni' non erano uno strumento indispensabile per accedere alla verità dei fenomeni. La verità in sé rappresentava per lui impenetrabile dalla ragione naturale, dato l'ineludibile passaggio di ogni conoscenza umana attraverso i sensi. Inoltre, egli rivendicava espressamente il valore argomentativo della 'comparazione' come metodo dimostrativo contro gli aristotelici eterodossi, che non esitavano ad usarlo. [21] Scrivendo poi dall'esilio con cui era stato già punito anche per aver fiancheggiato Galileo, e per di più al riparo della circolazione manoscritta e privata dei suoi lavori, egli aveva molto meno da temere e da perdere rispetto ai suoi maestri.

 

3. Eliofilia, eliolatria, metafisica solare.

Nel 1632, infatti, il segretario era stato allontanato definitivamente da Roma con incarichi di governo nelle Marche, dove sarebbe rimasto fino alla morte, avvenuta nel settembre del 1643. [22] Durante quegli anni - anche per sanare, come scriveva, la perdita della conversazione romana - egli si dedicò alla composizione di un'opera enciclopedica, solo in parte completa al momento della morte, e in buona parte perduta perché intercettata dalla censura - almeno così possiamo ritenere - già all'indomani della morte. A parte l'elenco di titoli che compare nell'inventario allegato al suo testamento (edito per la prima volta da Domenico Ciampoli nel 1900), di quell'opera in prosa sono sopravvissuti solo le copie di tre testi appartenuti alla sezione di filosofia naturale e quelle di un cospicuo gruppo di lavori che costituivano un trattato politico su cui torneremo, editi nel Seicento in ordine sparso da Sforza Pallavicino, allievo di Ciampoli in gioventù. [23]

Alla luce di quanto si è detto, si comprende perché il primo dei dialoghi di filosofia naturale che compaiono nell'inventario sia intitolato Pallavicino ovvero il Sole materia prima. Questo testo è perduto ma è rimasta invece copia della sua continuazione, in un dialogo intitolato, a sua volta, Del Sole e del fuoco. [24]

L'autore è assolutamente esplicito nell'ambientare fittiziamente questo scritto. Lo fa con un richiamo allo spettacolo pubblico dell'ostensione di un elefante, che il Diario romano di Gigli rubrica proprio nel mese di maggio 1630. [25] Il 25 giugno 1630, il letterato Giulio Cesare Bottifango aveva descritto l'esemplare esibito a Roma in un opuscolo a stampa - Lettera dell'elefante (Roma, Corbelletti) - corredato da un ritratto dell'animale in un'incisione di Pietro Tempesta. [26]

Più precisamente, il dialogo è ambientato durante il soggiorno a Castel Gandolfo - proprio quello durante il quale Campanella aveva officiato i suoi riti di magia naturale per la salute del papa - e tra alcuni membri del seguito di Urbano durante una passeggiata in carrozza nei dintorni del lago di Albano. [27] Vi compaiono infatti lo stesso Ciampoli, lo scozzese George Conn, cameriere segreto del cardinal nepote Francesco Barberini [28] e il barnabita milanese Carlo Bossi. [29]

L'esordio del dialogo è affidato a un espediente narrativo che al tempo stesso, rivela la genesi del tema della luce solare nella 'scuola galileiana' ma, mi sembra, anche un elemento latente negli scritti e negli atti di tutti i protagonisti di questa storia: il culto pagano del Sole.

La discussione del segretario, infatti, prende avvio da un sogno sopravvenuto a Conn la notte precedente, in cui egli si era rappresentato come un satrapo persiano e quindi un sacerdote del Sole, che in quanto tale veniva a difenderlo. L'esordio, in realtà, poteva servire ai lettori bene avvertiti per cogliere la relazione tra il dialogo e un altro testo importante della discussione sulla natura della luce entro la scuola galileiana: la lettera inviata da Benedetto Castelli a Galileo nel 1637 a proposito dei diversi effetti prodotti dalla luce e del calore su un mattone annerito. [30] In conclusione di quella lunga lettera, che Ciampoli certo ben conosceva, Castelli aveva finto di fermarsi appena un momento prima di cadere nel paganesimo a «volere scusare l'empieta` di quelli antichi che havevano adorata la grandezza della potenza e il maestoso modo di operare del Sole». [31]

La ricorrenza dell'artificio retorico potrebbe provare, di per sé, anche solo una comunanza di letture. Non solo la metafora solare abbonda in qualunque discorso accademico contemporaneo; anche Montaigne aveva parlato dell'eliolatria come la più scusabile delle idolatrie pagane, [32] per non parlare della densità di suggestioni che si affollavano nel nome scelto da Campanella per la sua città ideale. [33] Molti elementi, in effetti, depongono a favore di una persistenza, ancora nel cuore del Seicento, di quella «nuova e antica teologia solare» di cui ha parlato Eugenio Garin, che si era diffusa «dovunque, nei circoli colti italiani […] congiunta alla gran fortuna dell'Emete ficiniano» e aveva costituito lo sfondo sul quale era maturata tutta la rivoluzione astronomica. [34]

Nel caso dei Barberini, ad esempio, alcune coincidenze potrebbero trovare spiegazione se collegate ad un devozione familiare per il culto del Sole, accanto a quello allegorico, astrologico ed emblematico che sembrerebbe accertato. Si tratta certo solo di indizi, ma, del resto, la segretezza non può che essere costitutiva per una devozione esoterica. Certamente è un caso la presenza di un mitreo databile al III secolo dopo Cristo nel sottosuolo dell'area retrostante al giardino di Palazzo Barberini, rinvenuto casualmente nel 1936 durante ordinari lavori di edilizia. [35] «Quell'intreccio assai complicato, e a volte estrememanete torbido e ambiguo, di religiosità e superstizione» di cui ha parlato Garin potrebbe però essere alla base di un altro importante episodio. Tra il 1631 e il 1632, Taddeo Barberini acquistò dai Capranica la vigna posta sulla grande terrazza artificiale all'angolo nord-orientale del colle Palatino, ora nota appunto come Vigna Barberini. [36] L'acquisto sanava una controversia sorta dopo che, nel 1627, erano iniziati, senza interpellare i proprietari, gli energici lavori commissionati da Urbano VIII per il restauro della chiesa sita in quell'area - nota allora come Santa Maria in Pallara - in stato di avanzato degrado. Il restauro venne accompagnato da un attento studio dell'edificio e delle sue origini, di cui resta documentazione nell'Archivio Barberini. [37] L'indagine accertò che quello era esattamente il luogo del martirio di San Sebastiano secondo il racconto della sua Passione (V d.C. ca.), ovverosia il sito di quell'antico santuario innalzato da Eliogabalo al dio di Emesa, Elagabalus, che scavi recenti hanno individuato e restituito. [38] Nel 1633 il papa avrebbe istutuito sulla chiesa, consacrata definitivamente al martire che riconosceva come protettore della sua famiglia, un baliaggio dell'ordine di Malta a favore dei suoi.

Malgrado le forti divergenze nell'interpretazione, gli storici dell'arte sono poi concordi nel mettere in rilievo la stretta interconnessione funzionale e iconografica tra l'affresco di Andrea Sacchi e la cappella a cui esso doveva introdurre. [39] Si trattava, dunque, della decorazione di uno spazio legato al culto, che doveva essere stato usato sempre - a differenza del salone con l'affresco della Divina Provvidenza - per scopi privati o semi-privati. [40] Ad una privata devozione al Sole, destinata a sopravvivere al pontefice, sembrerebbe peraltro alludere un altro affresco del Palazzo Barberini, citato assai più di rado dagli storici. Si tratta di quello raffigurante il Carro del Sole, dipinto nel 1693 da Giuseppe Chiari - in occasione delle nozze tra Urbano Barberini e Felice Ventimiglia Pignatelli [41] - sulla volta di una delle anticamere del primo piano rivolte ancora più a nord, già adibite da Anna Colonna a giardino d'inverno. [42]

 

3. Microfisica della luce.

Argomenti più sostanziali attestano però l'incidenza sulle riflessioni del segretario delle idee corpuscolari grazie alle quali Benedetto Castelli spiegava i fenomeni di assorbimento termo-luminoso del mattone annerito.

Il Dialogo di Ciampoli, in estrema sintesi, mirava a dimostrare che 'il Sole e il fuoco sono l'istesso' ovverosia che la luce è composta di atomi di fuoco.

Questa semplice affermazione aveva però conseguenze assai gravi e complesse. Dal punto di vista cosmologico, essa equivaleva a dire che, al contrario di quanto sosteneva la cosmologia aristotelico-tolemaica, il luogo naturale del fuoco è il Sole e che dunque non è necessario suppore l'esistenza di una sfera di fuoco tutta esterna alle sfere concentriche degli elementi terrestri e immediatamente compresa sotto la calotta lunare.

Dal punto di vista microfisico e metafisico, il dialogo risolveva in maniera tranchante - frutto un po' del dilettantismo un po' del temperamento dell'autore - una questione che aveva invece a lungo travagliato Galileo, e oggi i suoi interpreti. Nel Saggiatore del 1623 - laddove si adombrava la distinzione tra quelle che verranno in seguito definite 'qualità primarie' e 'qualità secondarie' della materia - lo scienziato aveva introdotto una chiara distinzione tra i «minimi ignei» e «gli atomi realmente indivisibili» della luce, estrema risoluzione della materia. Anche la luce, a suo parere, era composta di atomi - affermazione che contravveniva già di per sé alla fisica aristotelica che la voleva non sostanza ma qualità oggettiva - ma di atomi diversi da quelli della materia generatrice delle altre sensazioni. Limite estremo della risoluzione della sostanza corporea, la luce occuperebbe gli spazi immensi in virtù della sua «espansione e diffusione istantanea», e della sua costituzione all'estremo confine tra corporeità e immaterialità.

La questione di una luce-calore sostanzialmente diversa da quella percepita dalla vista si era già affacciata nella lettera copernicana a monsignor Pietro Dini del 1615, dove, però, non si faceva alcun cenno alle modalità e ai meccanismi della percezione sensibile di questa speciale sostanza. Riecheggiando argomenti caratteristici della metafisica della luce e della tradizione ermetica, Galileo introduceva il concetto della luce come di una sostanza «spiritosissima, tenuissima e velocissima» capace di penetrare tutti i corpi, anche opachi e solidissimi. Più simile al calore (che penetra anche nei corpi opachi) che alla luce, questa sostanza essenziale per la vita degli esseri viventi dell'intero cosmo, non è prodotta dal Sole che ne è semplicemente il ricettacolo. Il Sole funziona da ricettacolo di questo spiritus radiante da ogni angolo della sfera celeste, ne condensa i raggi, per poi rifletterli, enormenente potenziati, in ogni angolo del cosmo. [43]

Nel dialogo Del Sole e del fuoco, seguendo il Galileo del Saggiatore, anche Ciampoli assimilava tout-court lo spiritus vivificatore della Lettera a Dini con la luce, ma a differenza di Galileo negava la distinzione introdotta dallo scienziato tra 'minimi ignei', materiali e quanti, e gli atomi di luce qusi inestesi e di velocità pressoché istantanea. Per Ciampoli la luce, principio metafisico di generazione, era però radicalmente fisico, composto da 'stillette' aggregate da una forza inter-particellare, dotate di un corpo e di una particolare figura (la piramide della tradizione neo-pitagorica e del Timeo platonico). Per di più, si trattava di una sostanza materiale la cui micro e macro dinamica veniva del tutto assimilata a quella dell'acqua, secondo un procedimento di riduzione mututato non più da Galileo ma già da Pierre Gassendi. [44]

Insomma, se per Galileo la luce era un continuum composto di infiniti atomi non-quanti - e il problema del rapporto tra questa visione della luce e la concezione dell'infinito matematico che egli espliciterà nei tardi Discorsi e dimostrazioni matematiche travaglia ancora la critica - per Ciampoli la luce non poteva che essere un continuum discreto, infinitamente divisibile nei corpi che lo componevano. Con una eccezione.

 

4. Il principe cristiano per diritto di natura.

Come già accennato, il dialogo Il Sole materia prima, pietra angolare del sistema filosofico che il segretario si prefiggeva di edificare, è andato perduto. Possiamo però trarre qualche indizio sulla funzione che il Sole avrebbe avuto nell'universo che egli immaginava, leggendo un brano dislocato nel trattato della Politica cristiana e posto ad introdurre il concetto generalissimo di potere:

 

Esaminiamo nel primo luogo che cosa sia la potenza. Ella è tanto nobile, che le prime origini della sua prosapia non si possono cercare in altro archivio che nel cielo. Cominciamo dunque così. Giacerebbe immoto et infecondo questo globo terrestre senza l'attività dei raggi solari. Terra, acqua e aria sariano per se stessi elementi morti, e non havendo principio attivo di movimento, quando fussero situati nei proprij luoghi, vi resterebbero come seppelliti. Entra il Sole, come anima del mondo in questo reame di natura, e con la forza del calore gli necessita a muoversi; così prontamente obbedendo a quello impulso, comincia l'aria a scorrere in venti e l'acqua a sublimarsi in vapori. La terra ancora, benché più pigra, però si vede superficialmente sluogarsi e si adatta in varie positure alla generatione di quei misti che la fanno apparire sì bel teatro d'onnipotenza.

Non contentandosi il Sole di sì gran benefitio, delega buona parte di questo suo ministerio agli animali. Inserendosi con varie temperature ad essi nel cuore, opera che l'effervescenza del calor nativo bolla nel sangue come vicaria della potenza solare. Vedonsi però in ogni animale le operationi, se ben minori, che nel cielo, tuttavia molto simili. Da quel domestico Sole che ci scintilla dentro al petto, scaturisce quella attività che muove le nostre membra. Col movimento delle membra si muovono le parti degli elementi, i quali, obbedienti al nostro impulso, hanno nel mondo della natura prodotto il mondo dell'arte. Dunque, il poter smuovere, e per dir così, il poter comandare agli elementi è nell'universo iurisdittione di questi due gran potentati: il Sole e il cuore. Questa efficacia impulsiva - continuava Ciampoli - quando è in un huomo solo si chiama robustezza; quando si trova in una moltitudine si chiama potenza che ragionevolmente può pretendere, come propagine del Sole, il titolo di Serenissima. [45]

 

Proprio l'urgenza di salvaguardare l'integrità del principio metafisico del Sole 'anima mundi' implica uno scarto evidente nel pensiero di Ciampoli a proposito del concetto di continuo. Parlando dell'anima intellettiva, in un altro dialogo oggi finalmente recuperato, [46] egli insisteva nell'attribuirle somma unità e semplicità, malgrado tutte le diverse funzioni che essa esercita. Il concetto - profondamente assonante con quanto Campanella aveva sostenuto a proposito dell'anima in quanto spirito corporeo caldo nel suo Del senso della cose e della magia [47] - è chiarito da Ciampoli proprio dall'esempio del Sole e del fuoco, questa volta distinti: la «virtù calefattiva» del Sole, a cui bisogna riconoscere la materialità [48] , non è diversa nei minerali, nei vegetali, negli odori o nei sapori, così come lo stesso è il fuoco che cuoce i cibi e liquefa i metalli. Le differenze nei loro effetti nascono dagli organi attraverso cui operano e degli oggetti sui quali indirizzano la loro azione: il Sole nelle «materie non uniformi», l'anima nei diversi sensi esterni, il magistrato nell'esercizio delle sue diverse funzioni. [49]

Come accennavo, il trattato della Politica cristiana è in buona parte edito tra le Prose uscite nel 1649 a Roma dall'editore Manelfi a cura di Sforza Pallavicino. Questi, però, ha pubblicato i testi in un ordine che rende, di fatto, irriconoscibile l'originario piano dell'opera, pur a sua volta incompleto. Da notare, inoltre, che uno dei testi che ne faceva parte - il trattato Del bene - fu forse espunto volontariamente dalla sua edizione 'ufficiale' dei testi dell'amico, probabilmente perché troppo esposto in senso libertino. [50]

Fatto sta che, se letto nella sua complessità, il trattato della Politica cristiana rivela interessanti soprese, soprattutto se si considera la posizione radicalmente anti-aristotelica e l'attività radicalmente anti-gesuitica dell'autore sul piano della filosofia naturale.

A cominciare dal titolo, infatti, l'opera rientra a tutti gli effetti nella tradizione dell'Anti-machiavellismo descritta da Robert Bireley nel suo Counter-Reformation prince; [51] ovverosia in quel movimento nato alla metà del XVI secolo per contrastare la visione machiavelliana della politica (che escludeva la moralità dall'esercizio del potere), che intendeva sviluppare un dettagliato programma di governo utile a mostrare come un governatore, operando con solidi principi cristiani, potesse mantenere e sviluppare una nazione potente ed avere politicamente successo.

Nella Politica cristiana di Ciampoli sono presenti molti dei tratti che connotano quella letteratura, caratteristiche che essa mutuava a sua volta, integrandola e innovandola, dalla teologia politica cristina elaborata durante l'età d'oro' della Scolastica.

Tratti comuni a questa letteratura, che il segretario recupera, sono: lo sforzo di riconciliare il buono e l'utile e l'idea che la sua violazione porti castigo agli stati e agli individui; il massiccio ricorso ad esempi storici, tratti specialmente dalle storie del tardo Impero Romano e il primo Medioevo e i libri storici della Bibbia; l'idea che la felicità spirituale sia estranea alle competenze dello Stato, il cui obiettivo risiede nella felicità temporale, cioè al bene comune [52] ; l'idea che la legittimazione della società politica risieda nel consenso. [53]

Anche per lui gli uomini, per la paura seminata nello stato di natura dalla legge del più forte, si uniscono in una confederazione a formare un popolo - «un corpo, assai più gagliardo che quello di qualsivoglia gigante» - che fonda la giustizia come patto eterno di non rispondere alla forza ma alla ragione e delega il suo potere al principe solo fin tanto che questi dimostri di usarlo per garantire ai sudditi la felicità. [54]

A differenza dei teologi politici scolastici, però, nel caso di Ciampoli, come abbiamo visto, il potere politico inteso come forza non ha la sua origine in Dio ma propriamente nel Sole, ed essa appartiene alla comunità solo nella misura in cui e in tanto che quest'ultima forma un holos - un continuum senza parti discrete -  tale quale è la vis impulsiva solare alla fonte. [55]

Si trattava, come è evidente, di un modo di leggere il rapporto tra il Sole e la sovranità in maniera assai meno simbolica di quanto aveva fatto Andrea Sacchi negli appartamenti privati della famiglia del papa. Ma se la vis impulsiva solare per il segretario galileiano è, in ultima analisi, la fonte del potere, inteso come facoltà di controllare i mezzi per acquisire la felicità, a chi appartiene allora la sapienza, ovvero «la grande arte del sapere desiderare» [56] ciò che realmente conduce alla felicità?

È proprio su questo punto che il prelato può operare la vera saldatura tra la sua ispirazione galileiana e la sua Politica cristiana.

Stante che, a suo parere, non esiste sapienza più perfetta che la fede cristiana - poiché essa «non dipende dai sensi, lo Spirito Santo ne è maestro, il cielo ne è la cattedra, la chiesa ne è la scuola, le rivelazioni ne sono i testi» [57] - e che solo lo Spirito Santo può distinguere cio che è oggettivamente giusto, la ragione naturale può però aprire la strada alla fede. Anche in materia di morale e di salvezza, tra ragione e rivelazione non può esserci contraddizione e dunque anche per questi ambiti vale ciò che Galileo nelle Lettere copernicane aveva rivendicato a proposito delle verità di natura.

La natura, nell'ambito politico-morale, è quella che Ciampoli chiama la 'fama pubblica', ovverosia un concetto che possiamo intendere come un quanto minimo del 'sentire comune' della collettività. «Non occorre che io mi estenda in provarvi, - scrive il segretario - che la fama publica sia lo stesso che l'opinione universale». [58] Merita qui rilevare che, mentre il suo concetto di unità è modellato sulla base di nozioni di fisica meccanica di ispirazione galileiana, [59] questo mette invece a lavoro categorie che appartenevano alla formazione giuridica da lui acquisita in vista dell'ingresso in prelatura. [60]

A dispetto del peccato originale, nell'uomo - secondo Ciampoli - continua a brillare una scintilla di intelligenza divina, la 'ragione naturale'. [61] Se, da una parte, la verità assoluta ed infallibile è rivelata nella Bibbia e nella voce del papa, la 'ragione naturale' dell'umanità (che non è in contraddizione con quella) si rivela solo nel concreto delle scelte individuali, come distillato, potremmo dire, dell'agire morale dell'umanità in ogni luogo e in ogni tempo. Ma se la Verità - il verbo - è dato per sempre, la 'ragione naturale', la fama pubblica si può evincere solo attraverso un lavoro rigorosamente induttivo ed empirico compiuto su un repertorio di comportamenti morali tratti da una vastissima enciclopedia geo-politica. [62]

Quest'opera di induzione empirica, a suo parere, spetta al sapiente, al filosofo, come al filosofo spetta l'interpretazione della natura. Questi, da una parte, ha un ruolo speculare a quello del principe: allo stesso modo in cui il principe detiene per delega il potere del popolo confederato, dell'autorità pubblica, così il sapiente è il depositario del sapere dell'umanità, che è anch'esso un holos, un'unità organica che deriva dalla moltitudine. [63] Dall'altra, però, egli riveste un ruolo superiore a quello del principe: non solo perché la 'fama attiva' è altrettanto potente della potenza ma 'è più nobile' [64], ma perché il saggio è l'unico vero interprete del 'consenso universale' a proposito del bene, quel bene che, divenendo legge naturale, vincola anche il sovrano. [65]

Anche per Ciampoli, dunque, come sarà a breve per Thomas Hobbes, può esistere una scienza della politica, ma si tratta di una scienza politica empirista e baconiana, come induttivista e baconiana è la sua scienza della natura, a dispetto della sua fama di erudito 'tutto galileiano'.

 

Per gli studiosi di Galileo, Ciampoli è un po' 'l'eroe della storia': colui che ha giocato il tutto per tutto nella battaglia di Galileo, e lo ha perso. Si tende però a dimenticare che l'agenda di Ciampoli era in buona parte estranea a quella di Galileo, non foss'altro perché uomo di Curia e di Chiesa. Come Ezio Raimondi non ha mai smesso di sottolineare, per il segretario distinguere Natura e Scrittura non significava solo preservare l'autonomia della ricerca scientifica, ma anche la credibilità dell'istituzione e della comunità alla quale egli apparteneva; rivendicare «alla Chiesa il progresso dell'intelligenza», agevolare la nascita di una scienza 'cristiana', affinché non si corresse il rischio che essa «a lungo andare, di fronte a uno 'zelo' male inteso divenga un 'nemico'». [66] Cimentarsi con il genere della Politica cristiana aveva esattamente lo stesso scopo, che era, poi, quello perseguito da tutto il movimento modernizzatore all'interno della Controriforma in cui l'anti-machiavellismo si riconosceva: non lasciare la Realpolitik e le sfide della modernità ai machiavellisti o ai senza Dio. [67]

Il tentivo di Ciampoli certamente, fallì, a causa dell'esilio e poi della censura. Ma nel frattempo era fallita anche l'utopia della monarchia universale di Campanella. Nel 1634, caduto dal favore del papa e dopo nuove trame spagnole, egli fuggì in Francia, dove entrò in contatto con la corte. Alla nascita di Luigi XIV, il 5 settembre 1638, compose un Ecloga in cui vaticinava sotto il regno del Delfino una nuova età dell'oro. [68] Non vi sono documenti che attestino una relazione tra questa profezia e l'adozione da parte del sovrano del suo ben noto simbolo. [fig. 5] [69] Cionondimento, come ha rilevato Irving Lavin a proposito de busti scolpiti da Bernini per il 're sole' durante il suo soggiorno francese [70] , essi attingerebbero proprio al tema del 'principe eroe' della politica cristiana. L'elemento peculiare dei busti del re di Francia starebbe, sempre secondo Levin, nella «cascata di riccioli esuberanti», utili ad assimilare «i tratti di Luigi XIV a quelli comunemente associati ad Alessandro Magno [fig. 6], la cui espressione ricca di pathos e la 'chioma leonina' erano a loro volta già state assimilate a quelle di Helios, dio del sole dai riccioli fiammeggianti». [71] Un simbolo del potere, senza tempo. [72]

 

1. H. Titi, Aedes Barberinae ad Quirinalem descriptae, Romae, Mascardus, 1642, tavola fuori testo.
fig. 1

 

2. Ritratto di monsignor Giovanni Ciampoli
fig. 2

 

3. Andrea Mantegna, San Sebastiano, Museo del Louvre, Parigi
fig. 3

 

4. A. Cellarius, Harmonia macrocosmica, Amstelodami : apud Ioannem Ianssonium, 1661 [Planisphaerium Ptolemaicum]
fig. 4

 

5. G.L. Bernini, busto di Luigi XIV, 1665, Castello di Versailles
fig. 5

 

6. Alessandro Magno come Helios - marmo - copia romana di originale ellenistico (II-III sec. a.C.), Roma, Musei Capitolini.
fig. 6

 


Note

1. Patricia Waddy, Seventeenth-century Roman palaces : use and the art of the plan, New York : The Architectural history foundation, 1990.

2. BAV, Arch. Barb. Lat., Libro mastro A (1623-1630) di D. Taddeo Barberini.

3. Tetius H., Aedes Barberinae ad Quirinalem descriptae. Descrizione di Palazzo Barberini al Quirinale, a cura di L. Faedo, T. Frangenberg, Pisa 2005;

4. Barb. Lat. 6529, misc. V, c. 52. G. Incisa della Rocchetta, Notizie inedite su Andrea Sacchi, in «l'Arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna», 27, 1924, pp. 60-76: 63.

5. Georg Lechner, Tommaso Campanella and Andrea Sacchi's Fresco Divina Sapienza in the Palazzo Barberini, in «Art Bulletin», 1976, 58, pp. 97-108.

6. Lechner era ancora più esplicito nella recensione di A.S. Harris al suo primo articolo (Letter to the editor, in «Art Bulletin», 59, 1977): Reply to A.S. Harris, ibid., 59, 1977, pp. 305-09).

7. Daniel Pickering Walker, Spiritual and demonic Magic from Ficino to Campanella (1958), Sutton, Pennsylvania State U.P. 2000, pp. 203-236; Germana Ernst, Galileo, Campanella e le dottrine celesti, in Gian Mario Bravo, Vincenzo Ferrone (eds.), Il processo a Galileo Galilei e la questione galileiana, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010, pp. 178-184.

8. Lechner, Tommaso Campanella, cit., pp. 105-107.

9. John Beldon Scott, Images of Nepotism: The Painted Ceilings of Palazzo Barberini, Princeton, Princeton University Press, 1991, pp. 88-94; ID., Galileo and Urban VIII. Science and allegory at Palazzo Barberini, in I Barberini e la cultura europea (cit. nota 3.16), pp. 127-137:131-135.

10. Beldon Scott, Images cit., pp. 54-62.

11. Lettere di Geri Bocchineri a Galileo Galilei in Roma del 14 e del 18 maggio 1630, in Galileo Galilei, Opere, edizione nazionale a cura di Antonio Favaro (d'ora in avanti OG), XIII, Firenze, Barbèra, 1903, rispettivamente pp. 98 e 99.

12. Federica Favino, A proposito dell'atomismo di Galileo: da una lettera di Tommaso Campanella ad uno scritto di Giovanni Ciampoli, in «Bruniana & Campanelliana», III (1997), 2, pp. 265-282.

13. Note biografiche in: D. Ciampoli, Un amico del Galilei: monsignor Giovanni Ciampoli, in Id., Nuovi studi letterari e bibliografici, Rocca San Casciano 1900, pp. 5-170; Antonio Favaro, Amici e corrispondenti di Galileo. Giovanni Ciampoli, «Atti del Reale Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti», A.A. 1902-03, t. 62, p. 2, pp. 92-145, ora in Id., Amici e corrispondenti di Galilei, Paolo Galluzzi ed., I, Firenze, Salimbeni, 1983, pp. 133-189, Augusto De Ferrari, Ciampoli, Giovanni Battista, in DBI, 25 (1981), pp. 147-152.

14. Eraldo Bellini, Umanisti e Lincei. Letteratura e scienza a Roma nell'età di Galileo, Padova, Antenore, 1998, pp. 90-145; Id., 'Il papato dei virtuosi'. I Lincei e i Barberini, in I primi Lincei e il Sant'Uffizio. Questioni di scienza e di fede, Roma, Bardi, 2005, pp. 47-97, ora in Stili di pensiero nel Seicento italiano. Galileo, i Lincei, i Barberini, Pisa, ETS, 2009, pp. 109-157.

15. Germana Ernst, Eugenio Canone, Una lettera ritrovata: Campanella a Peiresc, 19 giugno 1636, «Rivista di storia della filosofia», XLIX (1994), 2, pp. 353-366. La lettera è stata poi riedita, per un pubblico internazionale: Une lettre retrouvée: Campanella à Peiresc, le 19 juin 1636, «Revue d'histoire des sciences»,  T. 55, 2 (2002), p. 273-285

16. Il ricordo è attribuito al Ricasoli Rucellai - l'Imperfetto - da Carlo Dati in una delle sue Veglie, cfr. Collezione d'opuscoli scientifici e letterari, vol. XVII, Firenze, Francesco Daddi, 1814, pp. 45-46. L'episodio è ricordato da Caroti, Nel segno di Galileo (cit. nota 5.43), p. 227n.

17. Stefano Caroti, Orazio Ricasoli Rucellai: un galiléen platonicien, in Géométrie, atomiste et vide dans l'école de Galilée (cit. nota 4.28), pp. 229-250.

18. Franceso Palermo, I manoscritti Palatini di Firenze, Firenze, M. Cellini e C., 1868, p. 290. Il brano è ricordato anche da Antonio Favaro, Pensieri, sentenze e motti di G. Galilei, «Rivista di Fisica, Matematica e Scienze naturali», VIII (1907), pp. 105-106.

19. Palermo, I manoscritti (cit. nota 6.4). Mio il corsivo

20. Massimo Bucciantini, Galileo e Keplero. Filosofia, cosmologia e teologia nell'Età della Controriforma, Einaudi, Torino 2003, p. 224.

21. Su questi aspetti del pensiero del monsignore, si veda, di chi scrive, La filosofia naturale di Giovanni Ciampoli, Firenze, Olschki 2015.

22. Federica Favino, 'Quel petardo di mia fortuna'. Riconsiderando la 'caduta' di Giovanni Ciampoli, in 'Largo campo di filosofare'

23. Federica Favino, Sforza Pallavicino editore e 'galileista ad un modo', «Giornale critico della filosofia italiana», anno LXXIX (LXXXI), fasc. II-III, maggio-dicembre 2000, pp. 281-315; Ead., Un caso di censura postuma: la filosofia naturale di Giovanni Ciampoli, in I Lincei e il Sant'Uffizio. Questioni di scienza e di fede, atti del convegno (Roma, 12-13 giugno 2003), Roma, Bardi 2009, pp. 125-139; Giovanni Baffetti, Un problema storiografico: Giovanni Ciampoli e Sforza Pallavicino, ibid., pp. 125-139.

24. Ciampoli, Un amico del Galilei cit., p. 163. Sul dialogo ritrovato, cf. Federica Favino, Deux dialogues retrouvés de Giovanni Ciampoli, in Egidio Festa, Vincenti Jullien, Maurizio Torrini (eds.), Géométrie, atomisme et vide dans l'école de Galilée, Fontenay/Saint Cloud, ENS Éditions, 1999, pp. 25-42. Il dialogo è integralmente edito in Favino, La filosofia naturale, cit., cui si fa riferimento per le citazioni.

25. Giacinto Gigli, Diario romano (1608-1670), s. d. maggio 1630, Roma, Ricciotti, 1958, p. 112.

26. Lettera dell'elefante scritta dal molto Ill.re Sig. caualier Giulio Cesare Bottifango al Signor Domenico Saluati suo nipote. Dedicata al molto Ill.re Signore il Sig. Francesco Gualdo Caualier di S. Stefano, In Roma, per Francesco Corbelletti, 1630.

27. Favino, Da una lettera di Campanella cit.

28. Anna Foa, Conn George, in Dizionario Biografico degli Italiani (DBI), vol. 28, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1983, pp. 17-20; R. Malcolm Smuts, Conn, George (d. 1640), in Oxford Dictionary of National Biography, vol. 13, Oxford, Oxford U. P., 2004. Sulla sua missione come rappresentante papale alla corte di Carlo I Stuart per migliorare le condizioni della comunità cattolica inglese, si veda: Stefano Villani, Britain and the Papacy: Diplomacy and Conflict in the Sixteenth and Seventeenth Centuries, in Maria Antonietta Visceglia (ed.), Papato e politica internazionale nella prima età moderna, Roma, Viella 2013, pp. 301-22 (in particolare pp. 312-317).

29. Valerio Castronovo, Bossi, Carlo, DBI, 13, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1971, pp. 295-296

30. Le lettere di Castelli a Galileo, datate 27 giugno, 9 e 15 agosto 1637, si trovano in OG, XVII, pp. 121-123, 150-155, 156-159. Esse furono pubblicate per la prima volta in Alcuni opuscoli filosofici di Benedetto Castelli, Bologna, Giovan Battista Monti 1669, pp. 57-79. Sulla Mattonata, cfr. Oddone Longo e Paolo Campogalliani, Mattoni al Sole: Benedetto Castelli, la luce e il calore, in Atti dell'Istituto veneto di scienze lettere ed arti, Classe di scienze fisiche matematiche e naturali, T. 152 (1993-94), p. 15-31, ora in Oddone Longo, Scritti su Galileo e il suo tempo, Padova, Esedra,  c2004, pp. 119-140; Paolo Galluzzi, Tra atomi e indivisibili. La materia ambigua di Galileo, Firenze, Olschki, 2011, pp. 117-121.

31. Benedetto Castelli a Galileo Galilei, 15 agosto 1637, OG, vol. XVII, p. 168

32. Parlando delle religioni pagane, nell'Apologia, Montaigne aveva scritto: «Fra quelle alle quali si è dato corpo secondo che il bisogno ha richiesto, in mezzo a questa universale cecità, io mi sarei, mi sembra, più volentieri unito a quelle che adoravano il Sole». All'affermazione egli faceva seguire una lunga citazione dalla Remontrance au peuple de France di Pierre de Ronsard (1563), in cui il Sole, «figlio primogenito della natura, e padre del giorno», veniva definito spirito e anima del mondo, e i suoi raggi equiparati «agli occhi radiosi di Dio» (Apologia, cit. nota 3.64, pp. 199-200).

33. Luigi Firpo, La città ideale di Campanella e il culto del Sole, in Ricerche storiche ed economiche in memoria di Corrado Barbagallo, II, Napoli, ESI, 1970, pp. 379-389 e, più in generale, Germana Ernst, Tommaso Campanella, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 97-98 e nn.

34. Eugenio Garin, La rivoluzione copernicana e il mito solare, in Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XV al XVIII secolo, Roma-Bari, Laterza, 1975, pp. 257-281: 280.

35. G. Annibaldi, Il mitreo Barberini, «Bollettino della Commissione archeologica romana», LXXI, 1947, pp. 97-108 (con G. Gatti).

36. La Vigna Barberini, 2 voll., École française de Rome - Soprintendenza Archeologica di Roma, Roma, 1997, François Viledieu (ed.), Il giardino dei Cesari. Dai palazzi antichi alla Vigna Barberini sul Monte Palatino, Scavi dell'École française de Rome, 1985-1999, Guida alla mostra. Quasar, Roma, 2001.

37. Marc H. Smith, Le Palatin dans les Archives Barberini (XVe siècle-debut du XIXe siècle), in La Vigna Barberini, cit., pp. 141-167: 146 e nn.

38. R. Battaglia, L.A. architetto camerale d'Urbano VIII, in Palladio, VI (1942), pp. 174-183; Laura Gigli, San Sebastiano al Palatino, Palombi, Roma, 1975.

39. Anche la storia del cantiere di palazzo Barberini depone per una stretta integrazione tra anticamera e cappella (Waddy, Seventeenth-century Roman palaces, cit., p. 239)

40. Lechner, Letter, cit.

41. Secondo un progetto iconografico di Gian Pietro Bellori: Bernhard Kerber, Giuseppe Bartolomeo Chiari, «The Art Bulletin», vol. 50, 1968, 1, pp. 75-86: 76-77.

42. Waddy, Seventeenth-century Roman palaces, cit., p. 240

43. Per una discussione recente sulla natura della luce nel pensiero di Galileo, si vedano almeno Susana Gómez Lopez, Galileo y la naturalezza de la luz, in Largo campo cit., pp. 407-408, Ead., The Mechanization of Light in Galilean Science, «Galilaeana», V (2008), pp. 207-244; Paolo Galluzzi, Tra atomi e indivisibili. La materia ambigua di Galileo, Firenze, Olschki, 2011, passim.

44. Favino, A proposito dell'atomismo cit.,

45. Giovanni Battista Ciampoli, Trattato della Politica Christiana. Discorso decimo. Come la robustezza fosse il primo fondamento della potenza publica, in Prose di Monsignor Giovanbattista Ciampoli, in Roma, nella stamperia di Manelfo Manelfi, ad instanza di Giouanni Casoni libraro in Parione, 1649, pp. 233-234.

46. Favino, Scetticismo ed empirismo: Ciampoli linceo, in Andrea Battistini, Gilberto De Angelis, Giuseppe Olmi (eds.), All'origine della scienza moderna: Federico Cesi e l'Accademia dei Lincei, Bologna, Il Mulino, pp. 175-203.

47. «Manifestamente la luce e calor del Sole non è generato in aria e in terra, vedendosi non uscir dal grembo materiale, ma da esso Sole diffondersi. Questo calore penetra sotterra, e, partendo il Sole, rimane, e la dispone in varie forme; e dove la fa liquida, genera acqua, olio, gomme; dove l'indura, pietre e miniere e metalli; dove l'attenua, ne fa fumo e vapore e vento, che si muovono per tutto; e dove genera spirito, che esalar non può, o la rompe, o riman dentro. […] L'anima, dunque, sarà lo spirito caldo, sottile, ingenerato nell'umore, dentro una grossa materia, onde, esalar non potendo, la effigia e forma ad uso di poter vivere insieme […]» (Campanella, Del senso delle cose e della magia, a cura di Germana Ernst, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 38).

48. Del Sole e del fuoco: «O egli [il Sole] opera discendendo corporalmente o vero diffondendo l'attività in virtù. Questo non può dirsi, perché la natura ne ha di bisogno come di principio ingrediente nella compositione dei misti..». (cfr. Favino, La filosofia naturale, cit., p. 272).

49. De intellectione, Ibid., p. 216

50. Favino, Un caso di censura, cit., pp. 150-151

51. Robert Bireley, The Counter-Reformation Prince. Anti-Machiavellism or Catholic Statecraft in Early Modern Europe, The University of North Carolina Press, Chapell Hill and London, 1990. A titolo introduttivo si vedano anche: Rodolfo De Mattei, Dal premachiavellismo all'antimachiavellismo, Firenze, Sansoni 1969; Diego Quaglioni, Il modello del principe cristiano : gli "specula principum" fra Medio Evo e prima Età Moderna, Firenze, Leo S. Olschki, 1987; Repubblica e virtù: pensiero politico e monarchia cattolica fra 16. e 17. Secolo, a cura di Chiara Continisio, Cesare Mozzarelli, Roma-Bulzoni, 1995; Mario D'Addio, Il principe della Controriforma : la Chiragogia regia di Gaspare Scioppio, in «Annali di storia moderna e contemporanea», a. 4., 1998, 4, pp. 9-29; La ragion di stato dopo Meinecke e Croce : dibattito su recenti pubblicazioni : atti del Seminario internazionale di Torino, 21-22 ottobre 1994, a cura di Artemio Enzo Baldini, Genova : Name, 2001.

52. «Scriviamo con caratteri dorati sopra questo frontespitio del nostro volume questo primo, e sustantiale assioma, che è lo scopo d'ogni legislatore, et il sommario di tutte le leggi: la Politica non pretende altro, che introdurre la felicità nel commertio. Manifesta questa intentione, il primo concetto, ch'ella faccia sentire nell'udienza del mondo: è una protesta, la qual… si dichiarerà così: 'io non pretendo di rifare gli huomini con la legge. La natura gli genera di carne corruttibile; non aspettino, che la politica gli rifondi di quintessenza celeste…Procurerò, che le miserie restino diminuite, dove sono inevitabili: né il mondo resterà poco beneficato…Non per questo deve il cordoglio precipitarsi nella disperatione. Non vi dovete insolentire, peroché la Natura non vi promette la felicità: non vi dovete disperare, peroché la politica vi provede di felicità possibile….Non può la cura de' medici promettere i corpi senza malattie, né la providenza de' legislatori gli animi senza miserie. Qui si vede quanto sarebbe stolida quella massima che repudiasse una legge, perché ella non introdusse la perfettione […] Questa nostra felicità possibile non può effettivamente esser più, che una felicità medicata. Pensate se può contristarsene l'animo humano tanto naturalmente insatiabile, che sognò parità divina nella sua origine…Calculando i nostro conti con questo temperamento, non si può pronosticare la perpetuità ad alcuna altra politica, se non a quella che si perfetioni della revelatione divina: privilegio riservato nell'universo alla sola Cristianità. Per ella sola si aprono da i principi della gloria le porte del Regno Celeste, et i suoi fedeli adottandosi col testamento del Crocifisso nella figliolanza divina, sono chiamati come legittimi heredi al consortio di Christo, et al possesso della beatitudine. / Se non si estingue nelle teste humane il lume della ragione, non è possibile che manchi nel nostro mondo la legge di Roma. Essendo nata in Cielo non si scorda, che noi viviamo in terra: & agli osservatori de' suoi precetti, mentre procura qua giù la felicità possibile, promette sopra le stelle la felicità totale» (G. B. Ciampoli, Il Zoroastro, in Prose di monsignor Ciampoli, Roma, appresso Fabio di Falco, 1667, pp. 1-6).

53. «La potenza non può essere altro, che moltitudine. Principe è il popolo: e tanto dura in un monarca il dominio, quanto persevere il publico in obedirlo». Questo fatto, secondo Ciampoli, è compendiato nell'uso, da parte dei sovrani, del plurale maiestatis, e continua: «Dimandatene a Nerone, et vi farà vedere l'infinita differenza dello stato suo, quando, sedendo nella regia, potea, custodito dagli eserciti, perlare per noi. E quando fuggendosi per le fratte non poteva, abbandonato dai popoli, parlare altrimente che per io. Ego sum qui sum è locutione, che propriamente non istà bene altrove, che in bocca di Dio, perché tutta la sua onnipotenza sta dentro a lui, dove ogni altro potentato ha bisogno di mendicar le braccia da chi se gli può ribellare» (Potenza della moltitudine, in Prose di Monsignor Giovanni Ciampoli, dedicate all'Emin.mo e Rev.mo Card.l Girolamo Colonna, in Roma, nella Stamperia di Manelfo Manelfi 1649, ad istanza di Giovanni Casoni Libraro in Parione, pp. 304-305).

54. Il segretario argomentava: la vis impulsiva solare, quando è in un uomo solo, si chiama robustezza, quando in una moltitudine, potenza. Fin a quando l'umanità non aveva 'altro tribunale che quello della forza', scriveva parafrasando il Glaucone della Repubblica di Platone, «tutta la sostanza della vita humana si riduceva in questi due punti: pareva felicità il potere ingiuriare, e non temer castigo: era miseria il ricevere ingiurie, e non sperar vendetta. Impatienti di questa irrational tirannia apersero finalmente gli occhi i più deboli, e si accorsero che quell'aiuto, il quale non poteva sperarsi dal ciascuno separatamente, si sarebbe havuto da tutti insieme. Però, confederati dallo spavento comune, formarono un popolo, assai più gagliardo, che quello di qualsivoglia gigante. Ivi i robusti per viver quieti, et i deboli per viver sicuri, facilmente si concordarono in questa transattione reciprocamente salutifera, cioè, che non fusse lecito il far ingiuria. Così togliendosi il regno alla robustezza, si diede alla ragione, et a questo patto sempiterno si pose il nome tanto venerabile di giustitia, che poi, armandosi coi principi, e studiando coi legislatori, ha con varie leggi dichiarata in varij tempi quella concordia universale» (ibid., pp. 235-236).

55. [55] «Asserisco che nell'universo sola operativa è l'unità, e d'un moto non si puo` dare se non un motore. Che cosa intendiamo per uno? …Il fiato d'una tramontana si chiama uno e sette si dicono i fiati di una zampogna; dicesi uno tutto l'oceano e molti gli zampilli d'una fontana. Qui avvertite due cose: prima, a costituire l'unità d'un tutto concorre la moltitudine delle parti; secondo, la minor quantita` delle parti non fa che una cosa si chiami piu` perfettamente una. Non si riguarda dunque nella denominatione dell'uno il maggiore o minor numero di esse, ma l'unita conspiratione di tutte al medesimo fine. [...] Vagheggiamo la specolatione nell'esperienza [...]. Avvertite quando piove; molte linee separate di acqua cadente diventano un fiume solo. E come fanno? Lasciano l'haver separatione, e ritengono l'esser acqua. Così, mentre s'uniscono in quel letto, si fanno parti di un tutto solo, et in questa maniera, senza perder sé, accrescono lui. E qui avvertite: mentre la moltitudine si considera nella compositione di un tutto, i suoi individui non si chiamano tutti separati, ma parti di un tutto accresciuto» (Potenza dell'unità , ibid., pp. 291-293).

56. Del dominio e della servitù, ibid., p. 184.

57. Della potenza, ibid., p. 227

58. Discorso XIII: Potenza della fama publica, ibid., p. 329.

59. Favino, La filosofia naturale, cit., p. 126.

60. Il concetto di 'fama' cui Ciampoli si riferisce è evidentemente quello che si diffonde in ambito giuridico tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo, in coincidenza con l'introduzione di nuove forme procedurali inquisitorie nel diritto canonico con il Concilio Laterano IV (1215). In tale ambito, 'fama' era venuta a designare «quel fenomeno complesso del diffondersi e radicarsi della notizia di un dato fatto in un certo ambito sociale e geografico fino a renderla accessibile al giudice facendone il motore e la ragione dell'apertura di un'inchiesta» (Antonio Stopani, Testimoniali e la prova per «fama» in una disputa territoriale del XVI secolo, in «Quaderni Storici», 139, 2012, 2, pp. 223-247: 243). Scrive infatti il segretario a proposito della legittimità dell'innovazione di fronte all'auctoritas della tradizione: «Il maggior credito che nei tribunali si dia alla fama, è che ella aperit viam inqusitioni, e riferisce come spia, non decreta come giudice. Così nelle materie specolative habbiamo questo aiuto dalle opinioni divulgate: invitano all'esame diligente, e sopra l'orme di quella verisimilitudine ci possiamo introdurre nei latiboli della verità» (Discorso VI, Della novità , ibid., p. 164). Ciampoli si laureò in utroque iure a Pisa il 4 giugno 1614 (De Ferrari, Ciampoli, cit., p. 147).

61. Potenza della fama publica, cit., p. 330.

62. Ibid., pp. 342-345, ma anche Del bene, in Fragmenti dell'opere postume di Monsig.r Giovanni Ciampoli, in Bologna, per Giovan Battista Ferroni 1654, p. 268 e Logica o De Intellectione, in Favino, La filosofia naturale, cit., pp. 246-247

63. Potenza della fama publica, cit., p. 343-344.

64. Ibid., p. 329.

65. Ibid., p. 345.

66. Ezio Raimondi, I silenzi di Torricelli, «Galileana», 6, 2009, pp. 3-17: 9 e ss. e gia` ID., Il ''teatro delle meraviglie'', in Letteratura barocca. Studi sul Seicento italiano, Firenze, L. S. Olschki, 1961, pp. 326-356 (la citazione a p. 350).

67. Wolfgang Reinhard, Gegenreformation als Modernisierung? Prolegomena zu einer Theorie des konfessionellen Zeitalters, in «Archiv fiir Reformationsgeschichte», 68, 1977, pp. 226-252; Paolo Prodi, Storia moderna o genesi della modernità?, Bologna, Il Mulino, 2012.

68. Michel-Pierre Lerner, Tommaso Campanella en France au XVIIe siècle, Napoli, Bibliopolis, 1995, pp. 83-90.

69. Claude-Franois Ménestrier, La Devise du Roy justifiée, Pars, E. Michalet 1679; Jean Pierre Néraudau, L' olympe du Roi-Soleil : mythologie et idéologie royale au Grand Siècle, Paris : Les belles lettres, 1986, pp. 32-33.

70. Irving Lavin, Bernini e l'immagine del principe cristiano ideale, appendice documentaria a cura di Giorgia Mancini, Modena, F. C. Panini, 1998.

71. Ibid., p. 37.

72. Non diversalemente, ad esempio, l'imperatore Costantino. Cfr. Johannes Wienand, Costantino e il Sol Invictus, in Enciclopedia Costantiniana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2013, s.v.