Vecchie idee e nuovo concettismo: i Paradossi di Ortensio Lando (1543)

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Author: 
Piotr Salwa
Accademia Polacca, Roma

Quando nel 1543 uscì a Lione il volume dei Paradossi cioè sentenze fuori del comun parere, firmato da Hortensius, cioè Ortensio Lando, il suo successo fu immediato. [1] Già l'anno successivo i Paradossi vennero pubblicati e ristampati due altre volte a Venezia, nel 1545 seguirono altre edizioni veneziane e l'opera continuò a essere riproposta ai lettori con una certa regolarità per decenni. In breve tempo i Paradossi vennero tradotti in francese e in inglese. [2] Sulla scia di quel successo editoriale Lando pubblicò nel 1545 a Venezia una Confutazione del libro de Paradossi nuovamente composta e in tre orazioni distinta. [3]

Nella dedica dei Paradossi a Cristoforo Madruzzo, vescovo di Trento e amministratore di Bressannone, l'autore sottolineava il carattere piuttosto leggero e divertito della sua opera, scritta "l'estate passata non per acquistarne fama, ma sol per fuggir la molestia del caldo" e "non toscanamente, come oggidì s'usa di fare, ma […] nella forma che solito sono di parlare con e miei più familiari amici", "in un stile rozzo e zotico". [4] Accanto a queste espressioni piuttosto convenzionali e alle solite dichiarazioni di circostanza, nella lettera dedicatoria Lando trovava modo, però, di alludere, dietro il velo della dovuta modestia, sia alla "prudenza e dottrina", che all'eloquenza della sua opera. Pure l'inizio della Confutazione lascia capire come il significato e la portata dei Paradossi non si esaurissero nel loro carattere giocoso e in un divertimento dotto e intellettuale. Ricordando il piacere che si poteva prendere nel leggerli, il confutatore si presenta ora come "molto più dotto e più eloquente" del suo avversario e invitando la dedicataria dell'operetta a "trastullarsi alcuna fiata con la presente lezione", per schivare la nostalgia del marito assente, non manca di assumere toni seri, evocando la possibilità di un influsso nefasto del libro cui si riferisce ("laonde altro che menzogne non si potevano esser insegnate dal pestilenzioso autore dei Paradossi […], non ho potuto contenermi di non temer alle volte che le altrui persuasioni non fusser possenti a perturbarvi l'intelletto e indurvi a credere per vero quel che falsissimo fusse da ciascun dotto reputato") e del suo autore ("ho alle volte scioccamente creduto che con magiche operazioni egli potesse pervertir gli intelletti vostri e del diritto conoscimento privargli"). [5] In quel gioco di criptoautocritica e criptoautodenigrazione - certamente divertentissimo per gli amici - il Lando della Confutazione caratterizza il Lando dei Paradossi come uomo "di statura piccola, anzi che grande, di barba nera e affumicata, di volto pallido, tisicuccio e macilento, d'occhio torbido e poco acuto, di favella e accento lombardo quantunque molto si affatichi di parer toscano, pieno d'ira e di disdegno, ambizioso, impaziente, orgoglioso, frenetico e incostante, […] di rozzi costumi e zotica natura", ma non dimentica di informare il lettore che, nonostante tutto, lo strano personaggio ha saputo guadagnarsi "la grazia dei più illustri cavalieri e delle più valorose dame che abbia ormai tutta l'Italia", mentre i Paradossi sono stati stampati in mille volumi "li quali per Italia a briglia sciolta - come si dice - correndo, di strane bugie la riempirono; ma che dico io per Italia […] peggio è che hanno di loro mortal veneno amorbata tutta la Francia, anzi tutta l'Europa". [6]

Le varie allusioni e la loro incoerenza invitano ovviamente il lettore e il critico a rischiare tentativi di individuazione e di decrittazione di messaggi celati, soprattutto se si tiene conto dell'impegno ideologico di Lando nel propagare in Italia le idee di Erasmo, nel frequentare attivamente gli ambienti eterodossi dell'Italia settentrionale, nel tradurre in italiano l'Utopia di Tommaso Moro. [7] Il compito può sembrare arduo. Nel suo saggio dedicato al paradosso nell'epoca del Rinascimento Archibald Edward Malloch scrive: "In realtà i paradossi non hanno affatto una loro natura, sono nullità. […] Come argomenti non esistono affatto, sono deliberate perversioni di argomenti. […] Sono una presa in giro dell'intelletto come un'illusione ottica è una presa in giro dell'occhio". [8] Jean-Claude Margolin, invece, ribadisce il fatto che nei paradossi ricorrono di solito nozioni contrarie ma non contradditorie, mentre il paradosso stesso "colpisce il lettore per fargli aprire gli occhi […], la funzione fondamentale del paradosso consiste nello svegliare la mente addormentata tra gli stereotipi". [9] Ciò non significa - a mio parere - che il paradosso non possa essere usato ai fini di argomentazione, ma la questione resta delicata. E' più facile che esso serva come elemento sovversivo, mezzo di confutazione o per lo meno di confusione, per invalidare piuttosto che per convalidare un'affermazione o una convinzione. [10] Quando poi entrano in gioco pure l'ironia e una voluta ambiguità - caratteristiche frequentissime del discorso landiano - non è possibile pensare a quella chiarezza o addirittura univoca ridondanza del messaggio che sarebbe il fondamento della persuasione ideologica o della scrittura à thèse. [11] Per Silvana Seidel Menchi, che si occupò dei testi landiani a carattere religioso, in cui non mancano "le pazzie che l'autore vi ha inserite", [12] il modo di argomentare dello scrittore risulta spesse volte "ambiguo, non compromettente, suscettibile di diverse interpretazioni, atto a insinuar dubbi, ad alimentare ansie, a pungolare coscienze inquiete". [13] Sarebbe difficile aspettarsi qualche cosa di diverso proprio dai Paradossi, e soprattutto in un'epoca che fece del nicodemismo, della simulazione e della dissimulazione le sue parole d'ordine. Non è quindi sorprendente che nelle interpretazioni recenti dei Paradossi si sottolinei appunto il loro carattere genericamente sovversivo - rivolto contro la tradizionale cultura libresca, vista come atta e capace di dimostrare, provare e giustificare ogni assurdità -, oppure si attribuisca un'importanza fondamentale alle allusioni piuttosto minute, e spesse volte poste in secondo piano, in cui si lascia intravvedere un'eco delle convinzioni religiose dell'autore vicine all'eterodossia e delle sue simpatie erasmiane. Il denominatore comune rimane l'immagine di un autore costantemente e profondamente impegnato a favore di una determinata ideologia, o meglio di determinati valori universali - in quel tempo e in quei luoghi pericolosi - che tenta di propagare in diverse forme di scrittura e in modi ambigui, per schivare le insidie della censura e gli attacchi degli avversari. [14] Le stesse conclusioni sembrano emergere dalle analisi delle traduzioni più o meno coeve dei Paradossi.

Tuttavia, di fronte al carattere piuttosto vago di certe valutazioni, nonché alla notevole diversità delle opinioni dei critici, non si può evitare che sorga qualche dubbio. Così, a proposito dei Paradossi landiani in versione francese tutti sembrano unanimi nell'affermare che non si tratta semplicemente di una traduzione camuffata - anche te­nendo conto delle usanze dell'epoca, così diverse dalle nostre - bensì di una riscrittura. Ma mentre da un lato c'è chi rimprovera decisamente agli studiosi di "sminuire la portata ideologica del­l'o­perazione culturale" realizzata dal traduttore-coautore e vi trova "competenze in senso lato culturali più generali, soprattutto le aggiunte di critica sociale e di costume, e un ripetuto ammonimento a misurare gioie e dolori sul metro dell'eternità riparatrice", oppure chi con maggior cautela ritiene che egli più modestamente "se montre capable d'apercevoir derrière la feinte naïveté des Paradossi le noyau philosophique qui les informe, et de le mettre en relief", dall'altro c'è chi nota aspetti addirittura opposti, affermando che "by erasing Lando's linguistic, ideological and religious meaning and placing emphasis on the importance of sound reasoning, [he] brought the rhetorical paradox back to its original, sophistic usage and the legal milieu of the courtroom" e "neutralised the two potentially subversive Erasmian principles that constitute the original framework of Paradossi, giving the text a didactic structure and a practical function." [15] Non si può fare a meno di chiedersi se le divergenze di valutazione non siano almeno in parte effetto delle difficoltà nell'afferrare quell'"original framework" o quel "noyau philosophique" (da notare la vaghezza delle espressioni), la cui presenza rimane in realtà piuttosto suggerita e sospettata che constatata, grazie ad un discorso che apparentemente sfugge ad una interpretazione lineare. Ciò confermerebbe l'efficacia del discorso paradossale ed ironico sia nel Lando originale, che nella versione/riscrittura francese (ma se si potesse arrivare ad una interpretazione o una soluzione univoca, che paradossi sarebbero?), e d'altra parte inviterebbe a rivisitare in continuazione il testo.

Resta tuttavia da chiedersi quali caratteristiche dei Paradossi starebbero dietro al loro enorme successo editoriale e internazionale. Nucleo filosofico difficilmente definibile? Giochi divertiti attorno alle assurdità della tradizionale cultura libresca? Allusioni eterodosse di carattere religioso, comprensibili a fondo a pochi? La lettura di uno dei primi paradossi della raccolta potrà essere illuminante.

Il secondo paradosso landiano è dedicato alla questione "Che meglio sia l'essere brutto che bello". Analogamente a quanto avviene nel caso di altri paradossi, vi si tratta di una ripresa dei temi trattati in precedenza da Petrarca in due capitoli del De remediis utriusque fortunae: I, 2 "De forma corporis eximia" e II, 1 "De deformitate corporis". [16] Il riferimento a idee universalmente note all'epoca doveva essere evidente per tutti. Data la strepitosa fortuna del trattato petrarchesco - divenuto lettura d'obbligo per ogni persona che si voleva colta - persino chi non lo conoscesse effettivamente di prima mano doveva sapere per lo meno approssimativamente quali fossero i suoi contenuti principali. Il discorso landiano inizia seguendo piuttosto fedelmente la riflessione di Petrarca del II, 1 nell'asserire che il vantaggio dell'essere brutti consiste nel prevenire le eccessive e nocive passioni. Gli interventi di Lando si limitano all'inizio soltanto ad ampliare le esemplificazioni - attingendo alla cronaca moderna oltre alla casistica classica - e spostando così l'accento dalla regola alle singole occorrenze, la lista delle quali comincia a crescere rapidamente secondo una dinamica sua propria, offuscando e "soffocando" in un certo senso la linea dritta del ragionamento. [17] In seguito, poi, la mano di Ortensio si fa più gravosa e un pur fievole cenno può diventare pretesto per divagazioni pesantemente amplificate. Così, la convenzionale contrapposizione nel De remediis … della bellezza dell'anima a quella del corpo ("Dolor: Formam corporis natura negavit. Ratio: Si formam animi largita est, maximi debitor"; "Ratio: Pauci boni formam corporis amarunt") porta Lando ad asserire in modo risoluto ma abusivamente che "veggiamo ancora spesso più savi e ingegnosi li brutti che li belli", e a citare a proposito - o sproposito - numerosi esempi, del resto rinviando ed emarginando al tempo stesso un serio accenno al vero significato del discorso petrarchesco. [18] L'ossessivo associare la bellezza da parte del Petrarca alla transitorietà e alla morte, e le ripetute affermazioni che la bellezza sia fragile, fugace e spesse volte rovinosa ("Forma fugax et fragile nature donum; paucis ad utilitatem, multis ad perniciem, nulli ad salutem veramque gloriam data est"), che essa nuoce, priva di energie e attraverso i piaceri dei sensi conduce alla morte ("multis forma nocuit, cunctos exercuti, quosdam post insultus varios mollivit", "multos per lubrica voluptatem duxit ad infamem mortem") porta Lando a concludere arbitrariamente che "sono ancor e belli per la maggior parte più mal sani, meno robusti, meno sofferenti de' disagi, anzi (se ben avvertir vorremo) quasi tutti molli, e effeminati li vedremo". [19] Come espediente retorico che egli usa con disinvoltura e poca discrezione serve poi l'iperbole, adoperata pure con efficacia, per trasferire i ragionamenti astratti e generici in un contesto concreto, e ad introdurre accenti di critica di costume, accompagnati con qualche nota di autoironia scherzosa: "E quante belle donne vegonsi oggidì per Italia che parimenti pudiche tenute sieno? Io son più che certo che nella patria mia le più vaghe e belle sono reputate le più lascive e le meno oneste, e così parmi che avvenga in ciascun altro luogo (se il mio avviso non m'inganna che facilmente ingannare mi potrebbe)". [20] Dopo aver ripetuto in maniera random e a volte alla lettera alcune altre argomentazioni del De remediis … - la bellezza viene facilmente distrutta dalle infermità e dalla vecchiaia, promuove adulteri, è ostile alla castità, conduce precipitosamente al peccato, - Lando riprende l'arma delle esemplificazioni prolungate e delle iperboli, senza portare poi elementi essenzialmente nuovi rispetto al discorso petrarchesco: "O bruttezza adunque santa, amica di castità, schifatrice de scandali, riparatrice contra pericoli, […] tu scacci ogni ria sospizione, tu sola sei finalmente medicina alla rabbiosa gelosia. Io vorrei saper ritrovare parole degne per lodarti come i tuoi meriti richiederebbono […].". [21] Questo registro diventa finalmente strumento per riproporre in modo più diretto, si direbbe frontale - ma soltanto a questo punto e sempre nello stile ironicamente "gonfiato", quando il ragionamento paradossale è già ben avanzato e le contraddizioni assurde confermate - l'aspetto fondamentale del ragionamento petrarchesco: il contrasto tra la bellezza corporale e quella spirituale. Lontano, però, dall'attribuirgli la funzione chiave che esso ebbe nel Petrarca, lo scrittore, ripetendo rapidamente ma letteralmente quanto detto nel trattato, si butta nelle facili e stereotipate critiche dei costumi mescolate a quanto di paradossale si poteva ricavare da quello che aveva detto fino allora: "Non farebbono così le femine de' nostri tempi, anzi avendogli Iddio fatto sì bella grazia d'esser brutte, esse procacciano con peregrine foggie, con biacca, con lisci, con olii, con pezzuole spelandosi, strisciandosi, fruttandosi, d'apparer belle, e che nasce poi finalmente da quella tanta industria? Non altro certo che peccato, morte, e ira d'Iddio". [22]

La conclusione del breve discorsetto landiano è tipica dei suoi paradossi: egli riassume semplificando, amplificando, sottolineando i contrasti e tagliando corto, in apparenza contrariamente al "comun parere" ma in fondo piuttosto in linea con esso. Se la bellezza si associa soprattutto all'alterigia, all'orgoglio e alla superbia, l'opposizione bellezza/bruttezza si riduce oramai esclusivamente al contesto femminile e si riferisce alle donne, tradizionale target di un determinato umorismo. [23] L'autore preferisce evidentemente le brutte ma per motivi ben comprensibili e condivisibili, oltre che per una scelta in linea con la tradizione: le brutte sarebbero infatti più caste, più umili, più ingegnose, più graziose, mentre le belle sono "più altiere, meno stabili, e de modi più schifi, piene di losenghe e di smancerie". [24] Segue una rapida lista di autorità antiche per definitiva conferma, una finta invocazione appassionata - "E noi saremo sì accecati e imprudenti che ad occhi aperti seguitaremo e danni nostri e più volentieri abbraciaremo la dannosa bellezza che l'util bruttezza? Deh, tolga Iddio da noi così folle pensiero, e saggi divenuti, faccia che incominciamo oggimai a odiare quel che né utile, né gloria recato ci ha per alcun tempo" [25] - e diventa assai chiaro per tutti che in quella prospettiva il brutto è decisamente e irrevocabilmente meglio del bello. Di conseguenza è meglio l'essere brutti che belli, quod erat demonstrandum. Sembrerebbe davvero folle chi credesse il contrario. Dato che si tratta di un testo leggero e scritto "sol per fuggir la molestia del caldo", non avrebbero senso domande precise e serie.

Rispetto al De remediis non ci sono dunque idee nuove di rilievo, e visto che già il De remediis riciclava idee tradizionali, o addirittura stereotipate, l'originalità dei Paradossi andrebbe ricercata altrove. I lettori potevano rimanere colpiti piuttosto dalla maniera in cui le idee note e consuete venivano esposte e messe insieme, nonché dalle conclusioni che ne traeva l'autore. Lando, infatti, si serviva della retorica non già per ribadire la fondatezza e la coerenza del suo ragionamento, l'autentica autorevolezza dei personaggi che citava, l'impegno della persuasione, la compattezza del discorso, bensì per affermare proprio il contrario, spingendo in modo divertito il ragionamento alle sue estreme conseguenze, con la reductio ad absurdum delle argomentazioni e delle valutazioni, con l'accentuare in maniera gratuita i contrasti, con forzature logiche e conclusioni infondate, con l'abuso degli strumenti stilistici. Così il suo pensiero poteva presentarsi come formalmente accettabile in superficie e al livello delle singole asserzioni, e tuttavia rimaneva sin troppo chiaro che nel suo insieme non poteva essere considerato seriamente, in quanto troppo evidenti risultavano le assurdità che proponeva. Tuttavia, mettendo insieme problemi seri e assurdità, mescolando senza discrezione i registri, ammiccando e facendo smorfie al lettore, il paradosso invitava a riflettere sui suoi meccanismi e sulle idee che metteva in mostra. In questa maniera esso ribadiva dopotutto il carattere intangibile e primordiale di alcuni valori di fondo e riciclava le vecchie idee universali, ma in un modo che si potrebbe definire concettistico avant la lettre.

Lo confermerebbe il fatto che la Confutazione dei paradossi, posteriore solo di un anno ai paradossi stessi, funzioni essenzialmente alla medesima maniera, e nelle veementi ma finte critiche rivolte all'opera di riferimento e al suo autore vengano citati i medesimi valori. In fin dei conti Lando continua a parlarci sempre delle stesse cose, ma con modi che si vorrebbero via via più scioccanti e sorprendenti. La spiegazione più semplice e convincente - conformemente alle raccomandazioni di Umberto Eco sull'economia dell'interpretazione [26] - suggerirebbe che lo scrittore abbia scelto e messo abilmente in opera questa strategia al fine di attirare l'attenzione dei lettori blasés verso idee alquanto stantie ma meritevoli di ripresa. Che ci sia riuscito, lo sappiamo appunto dal numero di edizioni e traduzioni. Sarebbe esagerato vedere nei Paradossi una significativa opera precorritrice di nuove tendenze di gusto. Comunque, il ricorso sistematico al paradosso concettistico da parte di Lando sembra un sintomo della nuova sensibilità. Un mezzo secolo più tardi ne darà testimonianza Anthony Munday nella sua Defence of the Contraries (1593): Paradoxes, that is to say things contrary to most men's present opinions, to the end that by such discourse as is helde in them, opposed truth might appeare more cleare and apparent.

 


Note

1. Anche in questo caso l'autore usò, come era solito fare, una "cifra" divertita e facilmente decifrabile: Suisnetroh tabedul, cioè, letto nel senso contrario, Hortensius ludebat. Cfr. Ortensio Lando, Paradossi, ristampa dell'edizione Lione 1543, presentazione di Eugenio Canone e Germana Ernst, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1999. Per l'edizione critica invece, si veda Ortensio Lando, Paradossi cioè sentenze fuori del comun parere, a cura di Antonio Corsaro, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000.

2. Cfr. Charles Estienne, Paradoxes, ce sont propos contre la commune opinion: debatus en forme de declamations forenses: pour exerciter les jeunes advocats en causes difficiles, Paris, 1553 (l'edizione critica moderna: Charles Estienne, Paradoxes, edited by Trevor Peach, Genève, Droz, 1998); Anthony Munday, The Defence of Contraries, London, 1593 (ristampa anastatica: Amsterdam, Theatrum Orbis Terrarum; New York, Da Capo Press, 1969).

3. Cfr. Ortensio Lando, Confutazione del libro de Paradossi nuovamente composta et in tre orationi distinta, Venezia, 1545.

4. Ortensio Lando, Paradossi …, a cura di Antonio Corsaro, cit., p. 81-82 (tutte le citazioni dei Paradossi secondo quest'edizione).

5. Ortensio Lando, Confutazione …, cit., c. 3 ro e vo.

6. Ivi.

7. Cfr. Silvana Seidel Menchi, Spritualismo radicale nelle opere di Ortensio Lando attorno al 1550, "Archiv für Reformationsgeschichte", LXV, 1974, pp. 210-277; Ead, Sulla fortuna di Erasmo in Italia: Ortensio Lando e altri eterodossi della prima metà del Cinquecento, "Rivista storica svizzera", XXIV, 1974, pp. 537-634; Ead., Chi fu Ortensio Lando?, "Rivista Storica Italiana", anno CVI (1994), fasc. III, pp. 501-564.

8. The paradoxes do not really have natures at all; they are nothings. […] As arguments they do not exist at all; they are deliberate perversions of arguments. […] They tease the intellect as an optical illusion teases the eye. (Archibald Edward Malloch, The Techniques and Function of the Renaissance Paradox, "Studies in Philology", LIII, 1956, pp. 191-203.

9. Cfr. Jean-Claude Margolin, Le paradoxe est-il une figure de rhétorique ?, "Nouvelle revue du XVIe siècle", VI, 1988, pp. 5-14.

10. Cfr. Chaim Perelman, Il dominio retorico: retorica e argomentazione, trad. it. Margherita Botto e Dario Gibelli, Torino, Einaudi, 1981 (ed. orig. L'empire rhétorique. Rhétorique et argumentation, Paris, J. Vrin, 1977).

11. Cfr. Susan Rubin Suleiman, Le roman à thèse ou L'autorité fictive, Paris, PUF, 1983.

12. Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Venezia 1796, t. VII, p. 794 (cito secondo il saggio di Susanna Seidel Menchi, Spiritualismo radicale nelle opere di Ortensio Lando …, cit., nota 5).

13. Cfr. Susanna Seidel Menchi, Spiritualismo radicale …, cit., p. 217.

14. Si veda p. es. la brillante lettura in questa chiave della finta antologia epistolare attribuita al Lando - Lettere di molte valorose donne, nelle quali chiaramente appare non essere ne di eloquentia ne di dottrina alli homini inferiori, Venezia, 1548 - fatta da Francine Daenens, Donne valorose, eretiche, finte sante. Note sull'antologia giolitina del 1548, in Per lettera. La scrittura epistolare femminile tra archivio e tipografia, secoli XV-XVII, a cura di Gabriella Zarri, Viella, Roma, 1999, pp. 181-207.

15. Cfr. Lugia Zilli, I Paradossi di Ortensio Lando rivisitati da Charles Etienne, in Par­cours et rencontres. Mélanges de langue, d'histoire et de littérature offerts à Enea Balmas, Genève, Droz, 1993, pp. 665 e 667; Trevor Peach, Introduction à Charles Estienne, Paradoxes, cit., p. 28; Patrizia Grimaldi Pizzorno, The Ways of Paradox. From Lando to Donne, Firenze, Olschki, 2007, p. 31. Una prospettiva diversa viene adottata invece in Anne R. Larsen, Paradox and the Praise of Women: From Ortensio Lando and Charles Estienne to Marie de Romieu, "The Sixteenth Century Journal", vol. 28, No. 3, 1997, pp. 759-774.

16. Per quanto riguarda le riprese del De remediis … nei Paradossi e la dettagliata lista dei rimandi, cfr. Paolo Cherchi, Polimatia di riuso. Mezzo secolo di plagio (1539-1589), Roma, Bulzoni, p. 99-100, il quale segue un suggerimento formulato in Walter Ll. Bullock, The Lost Miscellaneae quaestiones of Ortensio Lando, "Italian Studies", II, 1938, pp. 49-64.

17. Le tecnica di produrre effetti comici con enumerazioni esasperate sino all'assurdo giunge proprio in quel periodo ai massimi trionfi letterari nella prosa di François Rabelais.

18. Pétrarque, Les remèdes aux deux fortunes/De remediis utriusque fortune, texte établi et traduit par Christophe Carraud, Grenoble, Éditions Jérôme Millon, 2002, vol. I, pp. 552 e 554 (II, 1, v. 7, 8 e 22); Ortensio Lando, Paradossi …, a cura di Antonio Corsaro, cit., p. 97.

19. Pétrarque, Les remèdes aux deux fortunes/De remediis utriusque fortune, cit., vol. I, pp. 554 e 556 (II,1, v. 10, 14 e 24); Ortensio Lando, Paradossi …, a cura di Antonio Corsaro, cit., p. 98.

20. Ivi.

21. Ivi, p. 99.

22. Ivi, p. 100.

23. Va ricordato che in un altro suo scritto il Lando si riallaccia, in maniera sempre ambivalente, al dibattito allora in corso sulla eccellenza del sesso femminile. A proposito della sua raccolta di Lettere di molte valorose donne …, cit., cfr. Novella Bellucci, "Lettere di molte valorose donne ..." e di alcune pettegolette, ovvero: di un libro di lettere di Ortensio Lando, in Le "carte messagere". Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del cinquecento, a cura di Amedeo Quondam, Bulzoni, Roma, 1981, p. 255-276; Serena Pezzini, Dissimulazione e paradosso nelle Lettere di molte valorose donne (1548) a cura di Ortensio Lando, "Italianistica", 31 (no 1), 1991, pp. 67-83, Francine Daenens, Donne valorose, eretiche, finte sante …, cit., nonché il mio saggio Ortensio Lando, difensore dell'eccellenza femminile, in corso di stampa.

24. Ortensio Lando, Paradossi …, a cura di Antonio Corsaro, cit., 100.

25. Ivi, p. 100.

26. Cfr. Umbero Eco, I limiti dell'interpretazione, Milano, Bompiani, 1990.

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