1. Come ci si costruisce in «persona eccellente»: la disputa delle arti
Come si fa a costruire per se stessi o per altri l'immagine di «persona eccellente»? Quali erano i dispositivi che, in assenza di un'ascendenza sicuramente o plausibilmente illustre, consentivano di rivendicare una posizione distinta all'interno delle gerarchie sociali?
Per cominciare si può dire che, quali detentori degli strumenti della produzione intellettuale, artisti, eruditi, studiosi, membri delle professioni liberali condividevano il vantaggio di poter affidare la celebrazione del proprio valore, e soprattutto del valore del proprio mestiere o professione, a scritti teorici che appunto miravano a questo. Ed è proprio da questo tipo di produzione letteraria che questo primo capitolo intende prendere le mosse, rimandando a quelli successivi l'analisi di altre forme di autopromozione, pure ampiamente praticate. [1]
Alla base di questa letteratura promozionale c'era una tradizione che a metà '600 era ormai plurisecolare. A partire dal XIII secolo, infatti, nel momento in cui le università avevano assunto un'effettiva e stabile organizzazione, il sistema delle arti liberali, suddivise al loro interno tra arti del Trivio (grammatica, retorica e dialettica) e arti del Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica) si era profondamente trasformato. [2] L'introduzione della filosofia, della medicina, della giurisprudenza e della teologia quali soggetti nuovi e distinti - al di fuori e al di sopra delle arti - aveva di molto ridimensionato lo status di queste ultime, che erano tornate alla loro originaria condizione di discipline preliminari, così com'era stata definita nella tarda Antichità, e avevano perso quel ruolo di enciclopedia del sapere secolare, che invece avevano assunto nell'alto Medioevo. [3] I gradi nelle arti del trivio e del quadrivio e nelle tre filosofie (naturale, morale e metafisica) erano solo gradi intermedi, necessari ad accedere allo studio delle discipline superiori rappresentate appunto dalla medicina, dalla legge e dalla teologia. [4] Questo non impediva la competizione tra le arti del Trivio, e in particolare tra la grammatica e la retorica, ognuna delle quali riteneva di essere dotata di maggiore dignità [5] e, significativamente, il vocabolario che veniva utilizzato era quello della «nobiltà». Lo sviluppo delle dispute scolastiche andava quindi di pari passo con quello della definizione dei concetti di «eccellenza», «dignità», «nobiltà». [6] Grazie alla riscoperta del corpus aristotelico e al suo inserimento nel curriculum delle Facoltà delle arti, questo processo aveva riguardato in particolare la filosofia, fornendo nuovi elementi di giustificazione per l'eccellenza del 'filosofo', presentato quale erede/discendente di Aristotele; e con questo di nuovo si introducevano assonanze genealogiche in quella che era in teoria la celebrazione di una qualità del tutto astratta. [7]
Un'ulteriore torsione all'interno del sistema del sapere si era creata con i primi umanisti, che non solo avevano ambiziosamente trasformato le arti del Trivio in Studia humanitatis, ma ne avevano ridisegnato i confini includendovi la storia, la filosofia e la poesia, e attribuendo a quest'ultima il primato sopra tutte le altre. [8] A sostegno e legittimazione di questa rivalutazione della poesia c'era stata anche la riscoperta dell'orazione ciceroniana Pro Archia poeta da parte Petrarca. [9] Le argomentazioni ciceroniane avevano infatti spinto il poeta a innovare «l'etimo di 'poesia', sostituendo al concetto medievale di professione umilmente artigiana e tecnica il significato più esclusivo di componimento espresso 'non in forma comune ma artificiosa, ricercata e originale'». [10] Petrarca aveva poi ripreso il tema nelle Invectivae contra medicum, dove sosteneva che la poesia non poteva essere inclusa nel sistema delle arti «in quanto la sua grandezza è incommensurabile, fondata su una forza o un accento che ignora la legge pratica del giusto mezzo» [11] e, richiamandosi ancora una volta a Cicerone, aveva restaurato «la figura del poeta sapiente, che è apportatore di civiltà come i mitici Orfeo, Lino e Anfione». [12]
La questione della preminenza disciplinare aveva trovato un parallelo nella discussione sulla preminenza civile delle persone, che aveva coinvolto numerosi letterati e giuristi. Il dibattito in questo caso verteva intorno all'essenza della nobiltà e a quanto essa dipendesse dall'eccellenza personale nell'esercizio di una determinata professione, comprese naturalmente quelle del governo o delle armi. Da Dante a Bartolo da Sassoferrato, erano stati in molti ad appassionarsi a questo tema [13], naturalmente carico di fortissime valenze politiche, anche perché pronto a intrecciarsi in maniera sempre più vivace con il problema della dignità di coloro che le diverse attività esercitavano. [14] È emblematica in questo senso la discussione intorno al primato della giurisprudenza e dei dottori in legge che aveva caratterizzato buona parte del XV secolo. [15] In realtà, come scrive Dionisotti, a metà '400 «la casta dei giuristi in Italia era troppo compatta, forte e alta per doversi curare degli schiamazzi polemici che a più basso livello filosofi e medici, e umanisti anche, facevano, come era loro diritto, per conquistare credito e tirare l'acqua al loro mulino» [16] e gli uomini di legge si preoccupavano piuttosto della loro preminenza rispetto ai cavalieri.
Malgrado questo e nonostante le rivalità che li opponevano, giuristi e maestri delle arti contribuirono però tutti alla nascita e allo sviluppo di quella «grande linea strutturale della letteratura umanistica quattrocentesca […] la linea storiografica che, partendo dalla rassegna e celebrazione degli uomini illustri, giunge nella seconda metà del Quattrocento alla rassegna, celebrazione e discussione anche dei soli poeti o scrittori o umanisti, diventa cioè storiografia di una casta, in cui si riflette la costituzione e l'orgoglio della casta stessa». [17]
2. Le raccolte di Vite come «storiografia di casta»
La «disputa delle arti» andava dunque di pari passo con l'autocelebrazione di chi quelle arti praticava e - come vedremo ora - uno degli strumenti più utilizzati a questo scopo era appunto la «rassegna e celebrazione degli uomini illustri», vale a dire la raccolta di Vite. Il modello, come al solito, veniva dall'Antichità. Delle due forme di biografia che il Rinascimento aveva ereditato direttamente o indirettamente dagli autori classici, la prima a essere adottata fu la serie di brevi notizie riguardanti uomini per varie ragioni ritenuti illustri, il cui «modello principale era l'elaborazione delle note di Svetonio sulle vite dei filosofi, composta da Girolamo con l'aiuto della letteratura biografica del primo Impero, molta della quale era andata successivamente perduta». [18] La serie di biografie si era considerevolmente arricchita nel XV secolo con la riscoperta di un altro modello antico, quello delle «vite di filosofi» scritte nel III secolo d.C. da Diogene Laerzio. [19] «Combinando il modello di Girolamo con quello di Diogene, i biografi del Rinascimento avevano potuto proporre uno schema completamente nuovo di periodizzazione storica - basato non sull'abituale successione di poteri dominanti, regimi politici, o battaglie decisive, ma su quello che oggi chiameremmo 'cultura'. Questo schema fu proposto per la prima volta da Sicco Polenton (1375/76-1447), discepolo di Petrarca». [20] Come emerge da quest'ultimo esempio, le raccolte di biografie potevano avere ambizioni molto alte, e pretendere addirittura di riscrivere la storia assegnando un ruolo primario alla cultura. Ma anche quelle che non miravano a tanto fungevano comunque da importante strumento di legittimazione, perché la grandezza dei biografati si estendeva alla loro arte e al tempo stesso nobilitava l'intera categoria di coloro che la praticavano: diventava autocelebrazione di casta per riprendere l'espressione di Dionisotti.
Il successo delle raccolte era andato di pari passo con la diffusione delle biografie di singoli uomini illustri, a partire dalla Vita e costumi di Francesco Petrarca di Boccaccio, composta tra il 1341 e il 1342 [21], e presto seguita dalla Vita di Dante dello stesso autore. [22] E anche in questo caso l'esaltazione culturale dei due poeti, che erano stati all'origine della rinascita delle buone lettere dopo secoli di barbarie, non aveva potuto prescindere dalla sottolineatura della loro nobiltà e, attraverso di loro, di quella dei poeti in generale.
Nel corso del XV secolo la questione si era ulteriormente complicata e la posta in gioco era diventata ancora più alta, perché non si trattava più solo di celebrare la casta dei poeti, contro tutti gli altri, ma anche di affermare con forza la grandezza del volgare e dei moderni contro la fino allora indiscussa supremazia degli antichi. Perciò, quando a quasi cento anni dalla sua composizione Leonardo Bruni aveva letto il manoscritto della Vita di Dante e aveva deciso di mettersi a scrivere una propria biografia del poeta, le ragioni che lo avevano spinto a raccogliere l'eredità di Boccaccio in questo campo erano state almeno due: celebrare i moderni e al tempo stesso legittimare il volgare. Già qualche anno prima, nel primo dei Dialogi ad Petrum Paulum Istrum, Bruni aveva affrontato la questione affidando a Niccolò Niccoli «il compito di polemizzare a fondo contro ogni forma, aspetto e tradizione della cultura preumanistica. Non a caso, infatti, il Niccoli apr[iva] il suo discorso con la lode incondizionata dei filosofi, dei poeti, dei grammatici e dei retori classici, e con la conseguente contrapposizione tra l'età antica, madre di tutte le scienze veramente umane e nobili, e la barbarie della cultura contemporanea». [23] Nella sua risposta a Niccoli, Salutati, altro protagonista del dialogo, si affrettava invece a «distinguere dalla generale condanna dei 'moderni' almeno quei tre 'sommi' che, nonostante la miseria dei loro tempi, po[teva]no essere paragonati degnamente agli antichi, primo fra tutti Dante». [24] Queste dichiarazioni a favore della propria epoca erano state riprese da Bruni nelle Vite di Dante e di Petrarca, ambedue scritte nel corso del 1436 e ambedue in volgare. I due testi «illumina[va]no chiaramente il suo maturo atteggiamento nei confronti dei due massimi protagonisti della storia letteraria fiorentina» e prendevano chiaramente partito a favore del volgare, la cui dignità era equiparata a quella delle lingue classiche. [25] Era un altro tassello che si aggiungeva alla costruzione delle Vite quali strumenti di celebrazione e legittimazione anche dei moderni.
Prima di scrivere le biografie di Dante e di Petrarca, Bruni aveva ampiamento praticato il genere biografico traducendo da Plutarco la Vita di Catone e quella di Demostene e componendo una propria Vita di Cicerone. Queste sue opere avevano avuto tanto successo [26] che qualche decennio più tardi un editore romano aveva immesso sul mercato una traduzione completa delle Vite di Plutarco, cui avevano lavorato diversi umanisti. [27] Poco dopo dal greco al latino erano state tradotte le Vite et sentenze di filosofi di Diogene Laerzio [28], presto seguite da quelle di grammatici e retori famosi di Svetonio. [29] Attraverso gli antichi i letterati moderni continuavano a celebrare se stessi, e il pubblico dei lettori mostrava di apprezzare.
Ma ad attivarsi non erano solo filosofi e letterati. Nel 1472 il giurista Giovanni Battista Caccialupi, allora lettore di diritto civile a Siena, aveva infatti composto un trattato De modu studendi et vita doctorum contenente una rassegna delle vite dei giuristi moderni, da Irnerio ai suoi maestri perugini del primo '400, che era al tempo stesso una analisi dottrinaria e una celebrazione degli artefici della rinascita del diritto. [30] Nonostante il loro molto più solido status anche i giuristi ritenevano quindi utile affidare al genere biografico le rivendicazioni della propria casta. «Non credo - scrive Dionisotti - che il trattato del Caccialupi, composto a Siena nel 1467, si spieghi senza i precedenti umanistici, senza ad esempio il De praestantia virorum sui aevi, composto poco prima a Firenze da un cancelliere umanista, Benedetto Accolti». [31] A sua volta, però, la di poco posteriore rassegna esclusivamente umanista composta da Paolo Cortese, dovette probabilmente molto a questo precedente di Caccialupi. [32]
Da una categoria professionale all'altra i modelli circolavano dunque rapidamente, anche perché diverse raccolte non avevano come obiettivo diretto l'esaltazione di una determinata categoria professionale ma intendevano piuttosto celebrare una particolare città attraverso l'esposizione esemplare della vita dei suoi più illustri cittadini. Così Filippo Villani tra il 1381 e il 1382 aveva composto un De origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus in cui narrava le vite di uomini politici, letterati, artisti, che avevano reso grande la sua città. Altrettanto avevano fatto Michele Savonarola con il suo De magnificis ornamentis regiae civitatis Paduae, scritto nel 1446, Cristoforo Landino, con l'Apologia di Firenze, scritta nel 1481, e Giovanni Garzoni con il De dignitate urbis Bononiae, scritto prima del 1505.
Nel passare in rassegna i cittadini illustri di Firenze, Villani aveva presentato ai suoi lettori anche alcune biografie di medici, stabilendo un nuovo modello di Vita, quella del «medico illustre», padrone della medicina teorica e più in generale della filosofia naturale di cui le teorie mediche facevano parte. Tale modello era destinato a sicuro successo. [33] Che la nobiltà della medicina teorica dipendesse dalla sua contiguità con la fisica e la filosofia era stato d'altra parte sostenuto già da Coluccio Salutati, che con il De nobilitate aveva dato il via alla cosiddetta «disputa delle arti» del XV secolo [34], mentre per il genovese Bartolomeo Facio era solo la maggiore dignità di cui godevano le professioni legali a far ritenere la legge più nobile della medicina, quando in realtà le due discipline erano ugualmente utili, ed ugualmente illustri erano coloro che le praticavano. Dal nostro attuale punto di vista, tuttavia, la cosa più interessante è che Facio avesse esposto questa sua tesi nella premessa alla sezione sui medici del suo De viris illustribus [35]: il legame tra Vite e intenti promozionali non poteva essere più esplicito.
Le biografie individuali o collettive avevano infine riguardato gli artisti - i pittori, gli scultori, gli architetti - e anche in questo campo era stato Filippo Villani il principale iniziatore del genere, aggiungendo un capitolo dedicato a Cimabue, Giotto, Maso ed altri nel suo trattato sulle origini di Firenze e dichiarando di aver voluto seguire l'esempio degli antichi che avevano incluso insigni pittori «inter illustres viros eorum annalium». [36] Il suo esempio era stato prontamente ripreso, e il già citato De viris illustribus di Facio comprendeva per esempio due capitoli intitolati rispettivamente De pictoribus e De sculptoribus. Il genere era stato infine perfezionato da Antonio Manetti che, oltre ad aver incluso vari artisti tra i suoi Huomini singulari [37] aveva anche dedicato una biografia individuale a Brunelleschi. [38] Uno dei modelli di Manetti era chiaramente costituito dalla Vita di Dante di Boccaccio. Come Boccaccio, infatti, anche Manetti esordiva con una serie di notizie sulla famiglia del biografato, la sua storia, la sua appartenenza alla città. A Villani si era invece ispirato Landino, che aveva dedicato un capitolo dell'Apologia ai Fiorentini excellenti in pittura e scultura, mentre il suo allievo Ugolino Verino aveva composto un'opera intitolata significativamente De pictoribus et sculptoribus Florentinis qui priscis Graecis aequiparare possint. [39] E infine Paolo Giovio aveva aggiunto le vite di Leonardo, Michelangelo e Raffaello al suo dialogo De viris litteris illustribus pubblicato nel 1527. Come si vede le strategie di legittimazione erano quelle solite: da un lato l'inclusione nelle raccolte biografiche, o addirittura la composizione di una biografia individuale, dall'altro l'equiparazione agli antichi, facilitata dal fatto che negli ultimi libri della sua opera Plinio aveva dedicato alcuni capitoli agli artisti. [40]
3. Le Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori di Giorgio Vasari
Quando Vasari nel 1550 pubblicò la prima edizione delle Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, poté dunque contare su un'ormai ben consolidata tradizione alla quale far riferimento. Com'è noto, le Vite dell'autore aretino erano ben più che una raccolta di biografie con intenti encomiastici. [41] L'obiettivo di Vasari, che per lungo tempo aveva lavorato a stretto contatto con Paolo Giovio, era infatti quello di documentare la rinascita dell'arte dopo la barbarie del Medioevo e la restituzione della loro originaria «nobiltà» alla pittura e alle sue consorelle scultura e architettura. E, come era successo per la rinascita delle lettere, anche quella delle arti figurative veniva da lui attribuita all'arrivo in Italia di alcuni maestri greci, dai quali Cimabue aveva imparato a dipingere. [42] Anche in questo caso, quindi, i «moderni» erano riusciti a operare una saldatura col mondo classico, superando la rozzezza dell'età di mezzo e l'ordine «tedesco» importato in Italia dai Goti. [43] L'opera vasariana si presentava così prima di tutto come ricostruzione di un processo storico di rinascita, crescita e definitivo raffinamento delle arti, che avevano finalmente raggiunto il culmine della perfezione con il divino Michelangelo e l'apertura dell'età di Cosimo I. [44] Ecco quindi che nel Proemio della Terza Parte delle Vite si celebravano la «grazia», la «licenzia che, non essendo di regola, fusse ordinata nella regola e potesse stare senza fare confusione o guastare l'ordine» [45], la «perfetta maniera».
Ma se le Vite erano la storia dell'evoluzione delle tecniche e degli stili, esse erano anche e prima di tutto storie di singoli uomini, legate al modello rappresentato dalle biografie degli uomini illustri [46] e come tali utilizzavano, per esempio, una gran quantità di materiali e di topoi derivati dalla tradizione classica e in particolare dalle vite di artisti narrate negli ultimi libri dell'Historia naturalis di Plinio. La strutturazione dell'opera in singole biografie permetteva inoltre una efficace drammatizzazione del percorso teleologico della perfezione, dai primi inizi di renovatio al culmine michelangiolesco. Le biografie edificanti e quelle in cui la grandezza dell'ingegno si rispecchiava nell'elevatezza dell'animo erano infatti complementari alle vite di personaggi «bizzarri», «astratti», «malinconici», e contribuivano a costruire un insieme al tempo stesso unitario e molteplice. Il filo rosso ideologico che le univa era la celebrazione della riconquistata nobiltà delle arti figurative, fondata su quello stretto intreccio tra invenzione e intelletto, tra creatività e sapienza che faceva dell'artista «quasi un altro Iddio» secondo quanto aveva stabilito Leon Battista Alberti. [47] E se le arti figurative erano tornate a risplendere e coloro che le esercitavano erano tornati ad essere equiparabili agli dei, anche il singolo pittore, scultore ed architetto realmente vissuto doveva veder riconosciuta la propria eccellenza. Obiettivo non secondario delle Vite era appunto la legittimazione di tali aspettative.
Per essere autentico, tuttavia, questo riconoscimento non poteva limitarsi al piano morale, ma doveva tradursi in una dignità sociale espressa nel lessico gerarchico dell'epoca: la parola «nobiltà», insieme agli aggettivi «nobile» e «nobilissimo» e all'avverbio «nobilmente» ricorreva almeno 85 volte nel testo della prima edizione, mentre il termine «onore» con tutti i suoi derivati veniva addirittura ripetuto più di 400 volte. [48] Né l'uno né l'altro insieme di termini veniva peraltro utilizzato in senso puramente metaforico, riferito alla sola sfera morale. Ciò emerge per esempio in maniera molto chiara da un commento alla Vita di Taddeo Gaddi, del quale si dice che «in processo di tempo lavorò e guadagnò tanto, che faccendo capitale delle facultà sopra ogni altro che in quell'arte si esercitasse ne' tempi suoi, diede principio alla ricchezza et alla nobiltà della sua famiglia». [49] La stessa impossibilità di tenere separati il riconoscimento artistico da quello sociale emerge, a contrario, da altri commenti, come per esempio da quello alla vita di Giovan Francesco Rustichi, là dove Vasari scrive: «Quello che a Giovanfrancesco dovea risultare in onore, faceva il contrario e storto, però che dove meritava d'essere stimato non solo come nobile e cittadino, ma anco come virtuoso, l'essere eccellentissimo artefice gli toglieva appresso gl'ignoranti et idioti di quello che per nobiltà se gli doveva». [50] Non sempre il pubblico era in grado di capire e di tributare i meritati onori.
Nelle raccolte di Vite l'effetto autocelebrativo si raggiungeva attraverso un gioco di rimandi continui tra le singole biografie e l'immagine della professione nel suo insieme, che emergeva proprio dalla molteplicità delle storie individuali. E anche in questo caso l'opera di Vasari da un lato segnava il culmine di una tradizione plurisecolare, mentre dall'altro avrebbe costituito un modello imprescindibile per gli autori successivi.
Dopo aver dedicato alcune pagine all'analisi delle origini della pittura e della scultura e del loro successo presso i Greci e i Romani, Vasari concludeva che «la nobiltà e antichità di esse arti» [51] erano indubbie come indubbio era quindi il prestigio che erano in grado di conferire anche agli artefici «moderni». Così, per esempio, di Iacopo della Quercia egli scriveva che «per le sue rarissime doti nella bontà, nella modestia e nel garbo meritò degnamente di esser fatto cavaliere, il qual titolo onoratissimamente ritenne vivendo, onorando del continovo la patria e se medesimo. Per il che quegli che dalla natura dotati sono di egregia et eccellente virtù, quando accompagnano con la modestia de' costumi onorati il grado nel quale si trovano, sono testimoni i quali al mondo mostrano d'essere assunti al colmo di quella dignità che si riceve dal merito e non da la sorte». [52]
Vasari tornava sull'argomento a proposito di Andrea Mantegna, spiegando che «sendo stimato, onorato e premiato, non fu maraviglia se la virtù che aveva sempre andò crescendo. E fu grandissima ventura la sua, che, sendo nato d'umilissima stirpe in contado e pascendo gli armenti, tanto s'alzasse col valore della sorte e della virtù ch'egli meritasse di venire cavaliere onorato». [53] E poco oltre ribadiva il concetto sostenendo che il maestro del Perugino «con Pietro [non] faceva altro che dire di quanto guadagno et onore fussi la pittura a chi ben la esercitasse: e contandoli i premii già delli antichi e de' moderni, confortava Pietro a lo studio di quella». [54]
Come si vede, la retorica tradizionale di una nobiltà fondata su antiche ricchezze, apparentemente messa in ombra dall'enfasi posta sulla virtù, si riproponeva con forza nel momento in cui la nobiltà delle arti veniva associata alla loro «antichità» e i riconoscimenti assumevano i contorni molto concreti e mondani di un cavalierato, un «onorato premio», «dignità grandissime», «facultà», e via dicendo. [55]
La relazione non era però a senso unico e non erano solo le arti nobili a nobilitare coloro che le praticavano. Il gioco di rimandi prevedeva infatti che fosse proprio all'eccellenza degli artefici che si doveva la loro rinascita dopo la caduta e il sommo grado di perfezione cui erano giunte. E infatti all'origine di tutto era stato Giotto: «Quello obligo istesso che hanno gli artefici pittori alla natura - la quale continuamente per essempio serve a quegli che cavando il buono da le parti di lei più mirabili e belle, di contrafarla sempre s'ingegnano -, il medesimo si deve avere a Giotto, perché essendo stati sotterrati tanti anni dalle ruine delle guerre i modi delle buone pitture e i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, con celeste dono quella ch'era per mala via resuscitò e redusse ad una forma da chiamar buona». [56] Lo stesso inestimabile contributo andava riconosciuto a Leonardo «perché mai non fu persona che tanto facesse onore alla pittura [57], e a Raffaello, grazie al quale «o Arte della pittura, tu pur ti potevi allora stimare felicissima, avendo un tuo artefice che di virtù e di costumi t'alzava sopra il cielo! Beata veramente ti potevi chiamare, da che per l'orme di tale uomo hanno pur visto gli allievi tuoi come si vive, e che importi l'avere accompagnato insieme arte e virtute». [58]
Il riconoscimento di questo ruolo attivo degli artisti era d'altra parte all'origine stessa dell'opera di Vasari: nel Proemio alla seconda parte delle Vite egli infatti scriveva di aver «preso a scriver la istoria de' nobilissimi artefici per giovar all'arti quanto patiscono le forze mie, et appresso per onorarle». [59] E contemporaneamente sottolineava quanto fosse importante il contributo degli «scrittori delle istorie, quegli che per comune consenso hanno nome di avere scritto con miglior giudizio […] come quelli che conoscevano la istoria essere veramente lo specchio della vita umana, non per narrare asciuttamente i casi occorsi a un principe od a una republica, ma per avvertire i giudizii i consigli, i partiti et i maneggi degli uomini, cagione poi delle felici et infelici azzioni - il che è proprio l'anima della istoria, e quello che invero insegna vivere e fa gli uomini prudenti». [60] E quindi se «ha grandissimo torto la crudeltà della morte» a strappare prematuramente alla vita gli ingegni più eccelsi - scriveva a proposito di Antonio da San Gallo - «non potrà ella però già mai, con ogni sua invidia, troncare la gloria e la fama di quegli eccellenti, consecrati alla eternità: la onorata memoria de' quali (mercè degli scrittori) si andrà continuamente perpetuando di lingua in lingua, a dispetto della morte e del tempo». [61]
Che i grandi artisti nobilitassero la propria arte era d'altronde l'inevitabile conseguenza del dono che Dio aveva concesso loro, dotandoli di grandezza d'animo, oltre che di ingegno. [62] Ecco quindi che Leonardo «con la liberalità sua raccoglieva e pasceva ogni amico povero e ricco, pur che egli avesse ingegno e virtù» [63], e che di Raffaello si diceva «che ogni pittore che conosciuto l'avessi, et anche chi non lo avesse conosciuto, lo avessi richiesto di qualche disegno che gli bisognasse, egli lasciava l'opera sua per sovvenirlo; e sempre tenne infiniti in opera, aiutandoli et insegnandoli con quello amore che non ad artefici ma a figliuoli proprii si conveniva; per la qual cagione si vedeva che non andava mai a corte, che partendo di casa non avesse seco cinquanta pittori, tutti valenti e buoni, che gli facevono compagnia per onorarlo. Egli insomma non visse da pittore, ma da principe». [64]
4. L'eredità di Vasari
L'opera di Vasari ebbe successo e la si ritrova in diverse biblioteche coeve. Nel 1647 fu integralmente ristampata a Bologna [65] e alcune Vite, come quella di Michelangelo o quella di Sansovino, furono anche pubblicate singolarmente. [66] Il suo modello di biografia - ricco, articolato e pieno di notizie e commenti sia sulla figura dell'autore sia sulle sue opere - non trovò tuttavia immediati seguaci, perlomeno non al di fuori del campo storico-artistico. Le vite di letterati, giuristi, matematici, e altro continuarono a ispirarsi piuttosto ad altri modelli più classici ed eruditi. [67] La prima importante differenza riguardava la scelta della lingua: gli Elogia patritiorum venetorum di Nicola Crasso. [68] le Apes urbanae di Leone Allacci [69], il Musaeum historicum et physicum di Giovanni Imperiale [70], gli Illustrium virorum elogia di Jacopo Filippo Tomasini [71], la Pinacotheca imaginum di Gian Vittorio Rossi [72], erano tutti scritti in Latino e già questo bastava a selezionare il loro pubblico, escludendo quei lettori curiosi ma non particolarmente eruditi che invece avrebbero potuto interessarsi a questo tipo di opere. Lo spazio dedicato a ciascuna vita era inoltre limitato: Allacci non andava oltre la mezza pagina, Imperiale ne concedeva un paio e anche Rossi nella prima parte dell'opera non si era distaccato da questo modello. Solo nella seconda e soprattutto nella terza parte della Pinacotheca alcuni personaggi avevano ricevuto un trattamento più ampio e più attento alla loro personalità. [73] Nell'insieme era dunque difficile che ci fosse spazio per quelle considerazioni sul carattere e sui costumi del biografato, nonché sulle sue fortune e sfortune, che invece caratterizzavano le Vite di Vasari. E soprattutto c'era poco spazio per un'analisi approfondita delle loro opere. [74] L'individualità dei singoli biografati cedeva piuttosto il passo alla celebrazione collettiva della grandiosità di un pontificato (quello barberiniano) o di un patriziato (quello veneto) o ancora della propria cerchia di amici e conoscenti [75], e persino della grandezza dei moderni rispetto agli antichi. [76] La scelta autoreferenziale del latino non stupisce più.
La produzione biografica delle Accademie, dalle Glorie degli Incogniti veneziani [77] ai Ritratti degli Accademici Gelati bolognesi [78], non si discostava da questo modello che si potrebbe quasi definire «possessorio»: quello che premeva era la rivendicazione dell'esistenza di un gruppo e la delimitazione dei suoi confini attraverso la ricognizione del numero dei suoi adepti e delle loro alte qualità. [79]
L'intenzione di definire un campo disciplinare e/o professionale e dimostrarne l'antichità e l'ampiezza era particolarmente evidente in alcune opere come la raccolta di Vite de' matematici di Bernardino Baldi, composte tra il 1587 e il 1595, ma destinate a rimanere manoscritte fino alla fine del XIX secolo [80], e l'Advocatorum Sacri Consistorialii Syllabum di Carlo Cartari. [81]
Baldi era stato allievo di Federico Commandino e, come scriverà egli stesso, aveva frequentato assiduamente la sua casa, perché «essendo in quei tempi giovinetto si dilettava grandemente di queste professioni [matematiche]». [82] Da qui era nata l'idea di una raccolta di Vite di matematici alla quale - come spiegherà l'editore settecentesco di una versione ridotta dell'opera - «applicò l'animo, subito che ebbe composta per impulso di grata riconoscenza la Vita di Federico Comandino suo Maestro, e insieme uno de chiarissimi lumi della sua Patria: riputando egli cosa non convenevole, dopo d'aver scritto del suo Maestro, tacere de gl'altri, e comportare che stassero immerse nell'oblivione le memorie gloriose di tanti, e tanti eccellentissimi Uomini, che con li studii, e dottrina loro non ad una persona, ne ad una Città sola, mà ad intere Provincie, e al mondo tutto apportarono grandissima utilità, e ornamento». [83]
A cominciare da quella di Commandino, le Vite di Baldi erano abbastanza lunghe perché ci fosse spazio per le vicende familiari e personali dei biografati, sul modello vasariano [84], e perché ce ne fosse anche per una breve descrizione della loro persona fisica, dei loro costumi e degli eventuali loro vizi. Ma in realtà di tutto questo si parlava poco. L'interesse dell'autore era infatti rivolto, manifestamente, allo sviluppo delle discipline matematiche alle quali egli stesso si era applicato «con molta dolcezza». [85] L'analisi delle opere e dei risultati raggiunti da ciascun autore «moderno», in un continuo confronto con l'autorità degli «antichi», era dunque molto puntuale e il gioco di rimandi tra la nobiltà della disciplina e quella dei virtuosi che la praticavano risultava particolarmente intenso ma tendeva a prescindere dai costumi. [86]
Quanto all'Advocatorum Sacri Consistorialii Syllabum di Cartari, l'autopromozione di casta era evidente e persino dichiarata. L'autore era egli stesso un avvocato concistoriale ed era vissuto abbastanza a lungo da diventare decano del relativo collegio. In questa veste si era quindi sentito in dovere di fare qualcosa per il gruppo professionale cui apparteneva e di utilizzare in questo senso i documenti originali cui aveva accesso in virtù della sua carica. Aveva quindi ricostruito la cronologia di tutti coloro che avevano fatto parte del collegio e la aveva arricchita di brevi notizie biografiche e soprattutto bibliografiche. Ciò che gli premeva era la dimostrazione dell'alto profilo dottrinario di quei giuristi, da desumersi dall'elenco delle loro celebri opere, piuttosto che la disanima delle loro qualità morali o delle loro virtù sociali. Che scrivesse in latino era dunque perfettamente naturale e gli interlocutori che doveva avere in mente scrivendo non erano certo dei generici letterati, bensì degli avvocati o ufficiali di Curia come lui.
Anche se scritti in italiano - e quindi presumibilmente destinati a un pubblico più vasto - il Teatro d'huomini letterati [87] di Girolamo Ghilini e gli Elogi d'huomini letterati di Lorenzo Crasso [88] non aggiungevano nulla di più o di diverso. Sebbene Vasari fosse ben noto ad autori di singole vite, come vedremo, la sua eredità non fu dunque uniformemente fatta propria da chiunque intendesse scrivere una raccolta di vite di uomini illustri per genio e dottrina. Furono soprattutto gli storici dell'arte a riprendere il suo modello di biografia. Alcuni lo impoverirono, privandolo di ciò che gli storici di oggi considerano il suo maggior valore, vale a dire il giudizio storico-critico sulle opere e lo stile dell'artista, e limitandosi alla cronaca di una serie di eventi. Altri invece ripresero il filo del suo discorso, utilizzando il commento alle opere per delineare quella precisa genealogia delle belle arti che stava loro a cuore. [89] Tutti però si mostrarono particolarmente sensibili al problema del rapporto reciproco tra lo status sociale dell'artista e il valore dell'arte. «Così la virtù, e il valore del Rubens ha nobilitato la Pittura, & illustrato la Patria» commentava Baglione. [90] «Egli è da lodarsi l'essempio de gli antichi pittori Zeusi, Parrasio, Apelle, e fra' moderni, l'onore di Rafaelle e di Tiziano, per non dire ultimamente la splendidezza del Rubens e del Van Dyck, mentre essi con la famigliarità de' regi e de' grandi apportarono estimazione ed utilità alla pittura, inalzandola di nuovo al più onorato pregio dell'arti liberali e facendola oggetto della beneficenza» insisteva Bellori. [91] «Per la verità la Professione è molto obbligata alla grandezza dell'animo di Guido [Reni], perché il credito suo ha posto in una grande stima con l'opere di sua mano quelle di altri eccellenti Pittori, li quali con l'essempio suo si sono fatti arditi di farsi trattare onoratissimamente» aggiungeva Passeri. [92] E sebbene il bolognese Carlo Cesare Malvasia e il fiorentino Filippo Baldinucci scrivessero prima di tutto per affermare il ruolo della propria città nella rinascita e nel perfezionamento delle belle arti, anch'essi non mancavano certo di sottolineare la nobiltà degli artisti di cui scrivevano la vita.
Nel rivendicare il primato di Bologna e dei moderni Malvasia introduceva inoltre un nuovo elemento. Rivolgendosi ai Lettori egli infatti scriveva: «a me non occorrerà per provarvelo [l'antichità della pittura a Bologna] lo stancarvi l'orecchio con le tante autorità di dottissimi anche e gravissimi Scrittori, quali […] non sono attesi [attendibili] in questa parte […]. A me basterà il solo guidarvi ove possiate rendervene capace colla semplice oculare ispezione. L'evidenza di fatto esser deve sol quella, che ne costituisca oggi voi giudice; & a simiglianza dell'odierne sperienze della non meno tanto rimota Inghilterra, che della prossima a noi Firenze […], voi pure in questo affare disponga scuotere generosamente lo troppo tirannico giogo dell'ipse dixit». [93] Dal canto suo Baldinucci fu il primo storico dell'arte a far un uso pieno di documenti originali, citati integralmente [94], alla ricerca di un «effetto di verità» che adotterà anche nella Vita singola dedicata a Bernini. [95] Nella seconda metà del Seicento il metodo filologico, fondato sul controllo dei documenti e sull'approccio diretto alle fonti, liberato dal peso inopportuno e fuorviante della tradizione, aveva dunque conquistato tanto credito da essere apertamente rivendicato anche in campi assai lontani dalla filosofia naturale. Al tempo stesso uno storico della pittura rivendicava il primato dell'ispezione oculare sull'opinione di seriosissimi e incompetenti dottori, in questo condividendo il metodo non solo e non tanto degli scienziati ma anche e soprattutto degli antiquari, che in quegli stessi anni portavano avanti le loro ricerche fondate sull'osservazione dei reperti archeologici. [96]
Note
1. Mi riferisco, per esempio, allo stile di vita o al modo di costruire la propria memoria, di cui tratterò nei prossimi capitoli.
2. Paul Oskar Kristeller, The Modern System of the Arts: A Study in the History of Aesthetics, «Journal of the History of Ideas», vol. 12, n. 4 (1951), pp. 496-527, p. 507.
3. Kristeller, The Modern System of the Arts, cit., p. 507.
4. James A. Weisheipl, The Structure of the Arts Faculty in the Medieval University, in «British Journal in Educational Studies», 19 (1971), pp. 263-271.
5. Andrea A. Robiglio, The Thinker as a Noble Man (bene natus) and Preliminary Remarks on the Medieval Concepts of Nobility, in «Vivarium», 44 (2006), pp.205-247, p. 211.
6. Sul contemporaneo dibattito intorno alla nozione di nobiltà, da cosa derivi e a quali categorie di persone si possa applicare cfr. Claudio Donati, L'idea di nobiltà in Italia (secoli XIV-XVIII), Roma-Bari, Laterza, 1995.
7. Marco Toste, «Nobiles, optimi viri, philosophi». The Role of the Philosopher in the Political Community of the Faculty of Arts in Paris in Late Thirteenth Century, in José Francisco Meirinhos (ed.) Itinéraires de la raison. Etudes de philosophie médiévale offerts à Maria Candida Pacheco, Louvain-la-Neuve, Fédération Internationale des Instituts d'Études Médiévales, 2005, pp. 269-308; Robiglio, The Thinker, cit., pp. 212-13.
8. Kristeller, The Modern System, cit., p. 510.
9. Andrea Battistini, Ezio Raimondi, Retoriche e poetiche dominanti, in Letteratura italiana, vol. III, Le forme del testo, I, Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 5-348, p. 44.
10. Ivi, pp. 44-45.
11. Ivi, p. 45.
12. Ivi, p. 46.
13. Francesco Tateo, La disputa sulla nobiltà , in Id., Tradizione e realtà dell'Umanesimo italiano, Bari, Dedalo,1967, pp. 355-421; Donati, L'idea di nobiltà , cit.
14. Kristeller, The Modern System of the Arts, cit.
15. Eugenio Garin (a cura di), La disputa delle arti nel Quattrocento, Firenze, Vallecchi, 1947.
16. Carlo Dionisotti, Filologia umanistica e testi giuridici fra Quattro e Cinquecento, in Scritti di storia della letteratura italiana: 1963-1971, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2008, pp. 429-442, p. 433 (ed. or. in La critica del testo. Atti del II congresso internazionale della società italiana di storia del diritto, I, Firenze, Olschki, 1971, pp.189-204).
17. Dionisotti, Filologia umanistica, cit., pp. 434-35.
18. Eric Cochrane, Historians and Historiography in the Italian Renaissance, Chicago, University of Chicago Press, 1981, pp. 393.
19. Ivi, pp. 394.
20. Ivi, p. 395.
21. De Vita et moribus Francisci Petrarchi (1341-42).
22. De origine vita studiis et moribus viri clarissimi Dantis Aligerii florentini poetae illustris et de operibus compositis ab eodem (1351-55).
23. Cesare Vasoli, Bruni, Leonardo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 14, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1972, pp. 618-633, p. 620.
24. Ibid.
25. Ivi, p. 628-29.
26. Gerarda Stimato, Autoritratti letterari nella Firenze di Cosimo I: Bandinelli, Vasari, Cellini e Pontorno, Bologna, Bononia University Press, 2008, p. 32.
27. Han, 1470 circa; cfr. Claudio Giovanardi, Il bilinguismo italiano-latino del Medioevo e del Rinascimento, in Storia della lingua italiana, a cura di Luca Serianni e Pietro Trifone, vol. II, Scritto e parlato, Torino, Einaudi, 1994, pp. 435-468.
28. Vitae et sententiae philosophorum e graeco in latinum traductae, interprete Ambrosio Traversari Camaldulensi (1470).
29. De grammaticis et rhetoribus clarissimis libellus (1474).
30. Dionisotti, Filologia umanistica, cit., p. 432-33.
31. Ivi, p. 435.
32. De hominibus doctis dialogus, terminato intorno al 1490; cfr. ibid.
33. Nancy Siraisi, Medicine and the Italian Universities, 1250-1600, Leiden-Boston-Köln, Brill, 2001, p.169. Ma di questo libro cfr. tutto il cap. 8, The Physician's Task: Medical Reputation in Humanist Collective Biographies, pp.157-183.
34. In Garin (a cura di), La disputa delle arti, cit.
35. Scritto prima del 1457.
36. Giuliano Tanturli, Le biografie d'artisti prima del Vasari, in Il Vasari storiografo e artista, Firenze, INSR, 1976, pp. 275-298, p. 275.
37. Huomini singulari in Firenze dal MCCCC innanzi, scritto tra il 1494 e il 1497.
38. Vita di Filippo di ser Brunellesco, anch'essa scritta tra il 1494 e il 1497.
39. Tanturli, Le biografie d'artisti, cit., pp. 289-292.
40. Ivi, p. 280.
41. La letteratura in materia è ormai ricchissima, per cui cfr. il recente Le Vite del Vasari: genesi, topoi, ricezione, a cura di Katia Burzer, Venezia, Marsilio, 2010. Cfr. anche Marco Ruffini, Art Without an Author: Vasari's Lives and Michelangelo's Death, New York, Fordham University Press, 2011 (in cui si sostiene che, soprattutto nell'ed. giuntina e per effetto dell'intervento di Vincenzo Borghini, si privilegiano grandemente le opere rispetto alle biografie; in una lettera a Vasari dell'estate del 1564, Borghini scrivi che le vite sono per i grandi uomini; per i bassi come i pittori valgono le opere: Ivi, p. 95).
42. «Avvenne che in que' giorni erano venuti di Grecia certi pittori in Fiorenza, chiamati da chi governava quella città non per altro che per introdurvi l'arte della pittura, la quale in Toscana era stata smarrita molto tempo…»: Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori, e architettori, vol. II, I ed. (Torrentiniana), pp. 34-35 (ed. digit. http://vasari.sns.it/consultazione/Vasari/indice.html).
43. Ivi, pp. 38-39.
44. Per le revisioni che questo obiettivo ha comportato rispetto all'impianto della prima edizione cfr. Giorgio Patrizi, Le Vite de più eccellenti pittori, scultori ed architetti di Giorgio Vasari, in Letteratura italiana. Le Opere, vol. II, Dal Cinquecento al Settecento, Torino, Einaudi, 1993, pp.581-605.
45. Vasari, Le Vite, cit., p. 542.
46. Patrizi, Le Vite, cit., p. 588.
47. Sul debito di Vasari nei confronti dei trattati albertiani sulla pittura, scultura e architettura cfr. Patrizi, Le Vite, cit. p. 595.
48. Per questo calcolo ho utilizzato l'edizione digitale delle Vite, consultabile alla url http://biblio.signum.sns.it/vasari/consultazione/Vasari/indice.html, limitando volutamente la ricerca alla prima edizione (Torrentiniana) delle Vite, molto più contenuta. Nella seconda edizione, uscita dai Giunti nel 1568, le ricorrenze dei termini «nobile» e derivati salgono a 322, e quelle di «onore» e derivati a 862.
49. Vasari, Le Vite, cit., vol. 2, Torrentiniana, pp. 210-11.
50. http://biblio.signum.sns.it/vasari/consultazione/Vasari/indice.html, vol. 5, Giuntina, p. 478.
51. Vasari, Le Vite, cit., vol. 3, Torrentiniana, p. 4.
52. Ivi, p. 21.
53. Ivi, p. 547.
54. Ivi, p. 596.
55. Ivi, vol. 2, pp. 7-8.
56. Ivi, p. 95.
57. Ivi, vol. 4, p. 36.
58. Ivi, p. 212.
59. Ivi, vol. 3, p. 4.
60. Ibid.
61. Vasari, Le Vite, cit., vol. 5, Torrentiniana, p. 28.
62. Nella Vita di Donatello Vasari riferiva che secondo Brunelleschi gli artisti dovevano «più che gli altri conoscere la bontà di Dio per lo ingegno che e' ci ha dato e per lo onore che ci è stato fatto sopra gli altri uomini» (Vasari, Le Vite, cit., vol. 3, Torrentiniana, p. 222). In quella di Michelangelo riprendeva il concetto, rafforzandolo: «gli industriosi et egregii spiriti col lume del famosissimo Giotto e degli altri seguaci suoi si sforzavano dar saggio al mondo del valore che la benignità delle stelle e la proporzionata mistione degli umori aveva dato agli ingegni loro, e, desiderosi di imitare con la eccellenzia della arte la grandezza della natura per venire il più che e' potevano a quella somma cognizione che molti chiamano intelligenzia …» (Ivi, vol. 6, p. 3).
63. Ivi, vol. 4, p. 37.
64. Ivi, vol. 4, p. 212.
65. Er. Dozza.
66. Vita del gran Michelagnolo Buonarroti ...: con le sue magnifiche essequie stategli fatte in Fiorenza dall'Achademia del disegno, Firenze, Giunti, 1568; Vita di M. Jacopo Sansovino, scultore, & architetto eccellentissimo della Sereniss. Rep. di Venetia, Venezia 1571.
67. Benedetto Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari, Laterza, 1929; Id., Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1931; Carlo Dionisotti, La galleria degli uomini illustri, in «Lettere italiane», 33, (1981), pp. 482-492.
68. Elogia patritiorum Venetorum, belli, pacisque artibus illustrium, Venezia, Deuchino, 1612.
69. Apes urbanae sive de viris illustribus qui ab anno 1630 per totum 1632 Romae adfuerunt, Roma, Grignano, 1633.
70. Musaeum historicum et physicum, Venezia, Giunta, 1640.
71. Illustrium virorum elogia iconibus exornata, Padova, Pasquardo, 1630.
72. Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum qui auctore superstite diem suum obierunt, Colonia, Egmond, 1643-48.
73. A Francesco Bracciolini erano per es. dedicate 5 pagine; a John Barclay 10: cfr. Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum qui auctore superstite diem suum obierunt, Lipsia, Fritsch, 1712, pp. 718-722 e 616-625.
74. Croce, Storia dell'età barocca, cit.; Id., Nuovi saggi sulla letteratura italiana, cit.; e Dionisotti, La galleria degli uomini illustri, cit.
75. Cfr. la dedica al Lettore di Gian Vittorio Rossi in Pinacotheca, cit., p.n.n.: «Eorum tantum imagines in hanc Pinacothecam intuli, qui, mea aetate, memoria digni extitere, quique, me vivo, fato functi sunt suo; neque tamen omnium imagines sum complexus, sed eorum tantum, qui mihi, vel amicitia conjuncti, vel auditione et fama noti fuere» (sottolineatura mia).
76. Dionisotti, La galleria degli uomini illustri, cit., p. 486.
77. Girolamo Brusoni, Le glorie de gli Incogniti o vero gli huomini illustri dell'Accademia de' signori Incogniti di Venetia, Venezia, Valuasense, 1647.
78. Valerio Zani, Memorie imprese, e ritratti de' signori Accademici Gelati di Bologna raccolte nel Principato del signor conte Valerio Zani il Ritardato, Bologna, Manolessi, 1672.
79. Da questo punto di vista, la pubblicazione di raccolte di vite non era certo l'unico strumento a disposizione, come si vedrà a proposito dell'azione dell'Accademia degli Umoristi al momento della censura dell'Adone e della morte di Marino. La pubblicazione dei discorsi accademici rispondeva agli stessi scopi e andava nella stessa direzione.
80. Una prima parziale edizione si ebbe nel 1887 a cura di Enrico Narducci (Vite inedite di matematici italiani scritte da Bernardino Baldi, in «Bullettino di Bibliografia e di Storia delle Scienze Matematiche e Fisiche», t. XIX). Per un'edizione più completa si dovette però aspettare quella a cura di Elio Nenci (Le Vite de' matematici. Edizione annotata e commentata della parte medievale e rinascimentale, Milano, Angeli, 1998): cfr. Paul Lawrence Rose, The Italian Renaissance of Mathematics. Studies on Humanists and Mathematicians from Petrarch to Galileo, Genève, Droz, 1975, pp. 253-255. Nel 1707 ne era stata pubblicata una versione abbreviata, col titolo Cronica de matematici overo Epitome dell'istoria delle vite loro, Urbino, Monticelli, 1707.
81. Roma, Masotti, 1656.
82. Baldi, Cronica, cit., p. 139.
83. Lo stampatore a chi legge, in Baldi, Cronica, p. XV. La prima edizione della Vita di Federico Commandino avvenne nel 1714, nel vol. XIX del «Giornale de' letterati d'Italia», art. VI, pp. 140-184. Sulle Vite e la loro genesi cfr. Baldi, Le Vite de' matematici, cit.; Rose, The Italian Renaissance of Mathematics, cit.
84. Che Baldi probabilmente conosceva: cfr. Rose, The Italian Renaissance of Mathematics, cit., p. 258.
85. Bernardino Baldi, Vita di Federico Commandino, in «Giornale de' letterati d'Italia», vol. XIX (1714), art. VI, pp. 140-184, p. 182.
86. Cfr. Biagioli, The Social Status of Italian Mathematicians, cit.
87. Venezia, Guerigli, 1647.
88. Venezia, Combi & La Noù, 1666.
89. Paola Barocchi, Storiografia e collezionismo dal Vasari al Lanzi, in Storia dell'arte italiana, vol. II, L'artista e il pubblico, Torino, Einaudi, 1979, pp. 5- 81; Evelina Borea e Lucilla de Lachenal (a cura di), L' idea del bello: viaggio per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, Roma, De Luca, 2000; Giovan Pietro Bellori, The Lives of the Modern Painters, Sculptors, and Architects: A New Translation and Critical Edition, Cambridge, Cambridge University Press, 2005.
90. Giovanni Baglione, Le vite de' pittori, scultori et architetti: dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a' tempi di Papa Urbano Ottavo nel 1642, Roma, Fei, 1642, p. 364.
91. Giovan Pietro Bellori, Le vite de' pittori, scultori et architetti moderni, Roma, er. Mascardi, 1672.
92. Giovanni Battista Passeri, Vite de' pittori, scultori ed architetti che anno lavorato in Roma. Morti dal 1641 fino al 1673, Roma, Settari, 1772.
93. Le Pitture di Bologna, Bologna, Monti, 1706, pp. 8-9.
94. Paola Barocchi, Il collezionismo del cardinale Leopoldo e la storiografia di Baldinucci, in Omaggio a Leopoldo de' Medici, a cura di Anna Forlani Tempesti e Anna Maria Petrioli Tofani, Firenze, Olschki, 1976, pp. 14-25.
95. Tomaso Montanari, At the Margins of the Historiography of Art: The Vite of Bernini between Autobiography and Apologia, in Maarten Delbeke, Evonne Levy, and Steven F. Ostrow (eds.), Bernini's Biographies, University Park, Pennsylvania State University Press, 2007, pp. 73-109.
96. Arnaldo Momigliano, Ancient History and the Antiquarian, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», vol. 13, 3-4 (1950), pp. 285-315.