1. Durata e memoria: una posta in gioco politica
Tra i tanti modi di confezionarsi un'immagine di «persona eccellente» la costruzione della memoria è certo il più strategico e delicato da gestire. I nostri personaggi si trovano a vivere in una società gerarchica, i cui vertici sono occupati da famiglie che si fanno un vanto della propria genealogia. Non paghe di aver rintracciato le proprie origini nell'antichità classica o in quella biblica [1], pretendono inoltre di preordinare la propria discendenza in modo da renderla «perpetua». In questo quadro il diritto alla «durata» diventa oggetto di una feroce competizione e trovare il modo di lasciare qualcosa dopo di sé, di non morire insieme al proprio corpo fisico, diventa una sfida cruciale. Le opere certo aiutano, ma da sole non sembrano bastare, anche perché il legame che le unisce al loro autore è spesso tenue e destinato a perdersi col tempo. [2] A questo si aggiunga che le persone eccellenti non possono accontentarsi di una memoria di lignaggio, ma devono puntare su qualcosa di più personale. Fondando la propria eccellenza su ingegno e dottrina piuttosto che su una vera o presunta antichità della stirpe, devono infatti lasciare una traccia specifica del proprio io individuale. Vincolare il patrimonio con un fedecommesso non è quindi una strada tanto praticabile e, di fatto, è una scelta che viene lasciata ad altri appartenenti al ceto mediocre, quali i mercanti o gli artigiani di successo. Per distinguersi, le persone eccellenti devono trovare strumenti più originali e meno conformistici. Il compito che molti di loro si assumono è, inoltre, più ambizioso. Le loro disposizioni post-mortem non possono limitarsi alla discendenza, al suo benessere materiale e alla sua durata nel tempo, ma devono uscire dall'ambito del casato per farsi più generali e incidere sull'intera compagine sociale. A questo punto l'obiettivo diventa la promozione dell'ingegno e della dottrina, e lo sforzo è quello di individuare i mezzi più adatti a farlo. E' in questo più ampio contesto, piuttosto che nel ristretto ambito familiare, che si preserva al meglio l'eredità dell'eccellenza.
2. Memoria collettiva e memoria individuale
La memoria è qualcosa di notoriamente impalpabile e per garantire la sua durata nel tempo è necessario assicurarla a qualche elemento concreto, darle un corpo, una sostanza. Le persone eccellenti lo sanno bene e mostrano di occuparsene attivamente. E questa è un'altra delle cose che li distinguono dagli altri appartenenti al ceto mediocre di cui fanno parte. [3] L'esigua minoranza di testatori di ceto mediocre che si preoccupa di mantenere viva la propria memoria utilizza infatti una varietà di strumenti che non rispondono tutti allo stesso scopo.
Una prima fondamentale distinzione riguarda la natura del ricordo da salvaguardare che, per il ceto mediocre come per la nobiltà, è molto più spesso collettivo, di corpo, che individuale. Il fedecommesso, che è il dispositivo nobiliare per eccellenza, intende notoriamente rispondere alla prima esigenza. La sua ragion d'essere è infatti non solo di vincolare i beni, rendendoli inalienabili in modo che «sempre debbano restare nella casa e famiglia» di colui o colei che a tale vincolo li ha sottoposti, ma anche di preordinare la successione, riducendo gli individui a semplici anelli della catena genealogica. [4] A Roma la pratica si è diffusa nel corso del '500, per arginare la frammentazione dei grandi patrimoni feudali sottoposti, di regola, alla divisione paritaria tra fratelli. Come accennavo, essa ha però rapidamente guadagnato consensi anche al di fuori degli ambienti nobiliari, soprattutto tra mercanti e artigiani di successo che hanno accumulato considerevoli fortune e che aspirano a consolidarle. E anche per loro il problema è fare in modo che «perpetuamente resti conservata la memoria della [propria] agnatione e famiglia» [5], non quella della persona. Come ricordo del singolo il fedecommesso di solito non funziona.
Uno spazio maggiore alla memoria individuale del testatore - o per meglio dire a quella della sua anima - è offerto dai lasciti per funzioni liturgiche. [6] Alcune chiese di Roma - come Santa Prassede, San Lorenzo fuori le mura, Santa Maria liberatrice, San Gregorio - e, al loro interno, alcuni altari, si sono specializzati nella raccolta di elemosine per la celebrazione di messe in suffragio dell'anima dei defunti - di solito cicli di 20-30 messe basse ma anche messe solenni, cantate -. Così sono moltissimi i testamenti che prevedono un legato a uno o, più spesso, a tutti e quattro questi luoghi pii. Il più delle volte il lascito non è accompagnato da commenti, perché la pratica è ormai standardizzata. Ma qualche testatore più loquace o più oppresso dal peso dei suoi peccati non si contenta di quel che offrono abitualmente le istituzioni, e specifica il numero di messe chiedendone 500, 1.000, 5.000, o addirittura imponendo che siano perpetue. [7]
Tuttavia la memoria si conserva meglio se è dotata di un supporto fisico preciso e così, pur restando nell'ambito religioso, chi se lo può permettere affida il ricordo di sé e della propria stirpe alla fondazione o alla decorazione di una cappella, chiedendo che sia intitolata alla sua famiglia e che vi sia quindi apposta una targa col suo nome. Costruire, decorare o ri-decorare un luogo sacro sono atti tipici della grande nobiltà o del patriziato urbano e infatti le chiese di Roma sono piene di cappelle gentilizie. Ma anche chi non appartiene all'élite politica può ritenere proficuo questo tipo di investimento «memoriale». [8] Oltre alla decorazione generale dello spazio sacro, il testatore o la testatrice possono poi personalizzare ulteriormente il lascito, per esempio disponendo che sull'altare o alle pareti siano esposti i quadri lasciati in eredità a quello scopo, oppure che le proprie vesti o le proprie tappezzerie di broccato o di damasco siano trasformate in parati o paliotti, o ancora che vi si trasferiscano tutte le suppellettili liturgiche che fino allora sono state in uso nella loro cappella domestica. In questo modo anche l'individualità della persona può ricevere un riconoscimento. E' questo, per esempio, il caso della nobildonna Caterina Raimondi, che lascia 1.500 scudi per «abbellire e fare con colonne, capitelli et altro l'altare [di Sant'Antonio dei Portoghesi], e collocarvi nel mezzo quel quadro che hoggi vi è di Sant Antonio da Padova mio particolare avvocato». In cambio vuole che si faccia
«fare nella mia cappella a mie spese vicino al mio ritratto quella iscritione nel marmo con lettere d'oro, che più li piacerà e parerà [al mio esecutore testamentario] e possi far mentione di tutte queste mie opere pie». Come si vede, non si tratta più solo dell'anima e della sua salvezza, ma dell'intera personalità della testatrice, il cui ricordo perenne è affidato alla solidità di quella scritta a lettere d'oro su una targa di marmo. La creazione o la decorazione di una cappella è d'altronde un'opera di tale valore morale che persino una pia dama può sentirsi legittimata ad aspirare a una propria affermazione individuale, indipendente da quella del suo casato.
Anche l'avvocato Pari e il pittore Raspantini costruiscono e decorano spazi sacri. Il primo chiede che si provveda all'acquisto di una cappella situata all'interno del duomo di Montepulciano, sua città, «nel sito più nobile si potrà avere e si orni di marmi neri e misti conforme alla cappella di San Martino» [9], e la si dedichi alla natività della Vergine e a vari santi. Il secondo vuole che la sua casa di Assisi sia trasformata in chiesa, da intitolare alla S.ma Concezione e da affidare alle cure dei padri di S. Dionigi di Roma. Pari dispone inoltre che «vi si metta una pietra di marmo o travertino nella quale sia intagliata brevemente la disposizione da me fatta a favore della Comunità e seminario di Montepulciano nel presente testamento». Raspantini analogamente vuole che vi metta «l'arme della mia casata con l'iscrittione nella quale si debba far mentione del nome di Marino Raspantini mio padre e Benilia Bachitieri mia madre e di Giacomo Raspantini dottore mio fratello carnale già morto che siano in cielo et il nome di me testatore». [10] Seguono, in entrambi i casi, disposizioni molto dettagliate a proposito della nomina dei cappellani, dei loro obblighi generali e delle messe in suffragio che dovranno celebrare, delle dotazioni finanziarie che devono sostenere l'impresa, delle autorità che devono vigilare sul buon funzionamento del tutto.
Come è stato messo in luce da numerosi studi, la pietà agisce di per sé da fattore singolarizzante [11], e questo vale, perlomeno per quel che appare da questi due casi, anche rispetto alla memoria di sé. [12] Ma, pur senza escludere forme di devozione religiosa anche molto sincere, le persone eccellenti non sono santi, e quella che di solito cercano di costruirsi è una memoria laica, secolare, da spendere nel mondo. Le loro disposizioni post-mortem devono quindi andare oltre il lascito pio: l'obiettivo non è solo salvare la propria anima, ma guadagnarsi un posto distinto nelle gerarchie sociali attraverso la costruzione di un monumento a se stessi e al proprio ingegno e dottrina.
Come al solito, però, i loro comportamenti non si possono ricondurre a un modello univoco, perché, se l'obiettivo è uno solo, i mezzi di cui si servono sono molteplici. Alcuni individuano uno o più oggetti che gli appartengono e li rivestono di cautele particolari. Altri fondano scuole e collegi. Altri ancora danno vita a pie iniziative. Tutti investono questi loro lasciti di forti valenze performative oltre che affettive.
3. Memoria e oggetti
La scelta di Bernini è quella di affidare la sua memoria alla Verità svelata dal Tempo, un'opera carica di significato proprio perché l'ha fatta con le sue mani, e vi ha condensato la propria esperienza passata e futura. Unico tra tutti i suoi lavori, questo gruppo marmoreo è rimasto fino all'ultimo in suo possesso, perché lo scultore si è sempre rifiutato di venderlo e, nel momento in cui lo lascia in eredità ai figli, egli lo vincola con un fedecommesso affinché mantenga perpetuamente viva la sua memoria presso di loro. Altri artisti scelgono questa stessa strada. L'incisore Gaspare Mola di Como parla per esempio in questi termini di un fodero di spada da lui fabbricato, che lascia in eredità all'Ospedale di San Carlo al Corso di Roma:
«per essere opera singolare et di grandissima spesa et fatica è degna d'ogni gran Re o Imperatore, per essere opera unica che forse mai più ha per riuscire ad altri, et è opera nova, la quale guardia con suoi finimenti per il pugnale et la centura e pendagli con ferri smaltati, ogni cosa non si può fare per pagamento che sia, perché non ci è denaro che la paghi, ma per terminare il suo giusto et honesto prezzo doveria essere almeno pagata 3 mila scudi d'oro, che se si farà prova di cercare se ci fosse persona idonea che gli bastasse l'animo di fare un'opera simile, se colui che si sia non fosse un balordo non si obbligarà mai a farla per tal prezzo, perché se egli la facesse saria più tosto un stupore o meraviglia che cosa riuscibile, si come io che l'ho fatta con grandissimo tempo dico che anco ci sia concorso l'aiuto del cielo et più tosto un miracolo che cosa sicura da potersi fare un'altra volta». [13]
Questa lunga e contorta esaltazione di una sua opera, riuscita così perfetta da meravigliare il suo stesso autore, acquista un significato ancora più incisivo se la si accosta al memoriale redatto da sua figlia Anna Mola, nel corso di un processo per separazione dal marito:
«Per trovar occasione di strappazzarmi mi diceva che io ero figlia d'un artigiano et VS esser gentiluomo, che si sa poi chi è il signor padre et ch'era quello di VS che per dignità non la cede punto alla casa sua perché le sue virtù sono ricercate da Principi grandi et è stato visto et accarezzato dalle maggiori Corti d'Italia et tutti l'honorano come merita». [14]
Un uomo vezzeggiato dai più grandi sovrani d'Italia e giustamente da tutti onorato, lascia dunque in eredità una sua opera di così eccelsa fattura che da sola è in grado di materializzare la straordinaria eccellenza del suo autore. Trattandosi di un fodero di spada, vale a dire di un accessorio distintivo della nobiltà, anche questo oggetto assume un valore simbolico aggiuntivo: è veramente una materializzazione del nobile carattere del suo autore.
Sia Bernini che Mola affidano dunque a una propria opera il compito di dare corpo, in maniera concreta e tangibile, alla loro più intima essenza e di tenerne vivo il ricordo. Per accentuare il valore di ciò che stanno lasciando Bernini impone ai suoi figli di non separarsi mai dalla statua. A Mola invece non importa che la guaina della spada venga venduta, ma esorta i suoi eredi
«a non lasciarsi ingannare dalle parole di pochi intendenti, et darla a vil prezzo, et la raccomando che ogni due, o tre mesi, sia stropicciata con una straccio di tela sottile e bene asciuto per vietare, che non si aruginisca, e toccar bene con il panno da per tutto, et tenerla lontana dall'humido, e darne avviso a Principi Grandi, che sarà abbracciata, et comprata e tenuta carissima fra le gioie singolari detta guardia, et suoi finimenti». [15]
Certo un fodero di spada è un manufatto investito di forti simbologie nobiliari e un gruppo marmoreo di soggetto allegorico è carico di valori metafisici. Ma questa stessa capacità di rendere corporea e visibile l'eccellenza può essere attribuita anche a oggetti apparentemente meno significativi. E, cosa ancora più degna di rilievo, anche a manufatti non fabbricati da colui che, nominandoli nel proprio testamento, tributa loro un omaggio speciale, facendoli uscire dall'anonimato. Ecco infatti che il musicista Antimo Liberati, di Foligno, dichiara di essersi sempre rifiutato di vendere, nonostante l'altissimo prezzo offertogli, una sua spinetta fabbricata dal celebre costruttore Pesaro che è «una delle più eccellenti che siano uscite dalle mani di quel valoroso artefice» e la lascia, non a caso, a qualcuno che è stato suo amico fin dalla «prima adolescenza». [16] Un artista che non usa certo le mani come farebbero uno scultore o un incisore è comunque in grado di riconoscere l'eccellenza di un manufatto e di rispettarne il giusto valore, che non si può misurare in denaro. Nel definire la qualità della persona, il merito di aver riconosciuto la qualità dello strumento musicale e di averlo conservato resistendo alle lusinghe del mercato è equivalente a quello di averlo costruito.
Uno stesso fortissimo legame con la propria creatura traspare dai testamenti di naturalisti e antiquari nei confronti dei loro «musei». Lascio, scrive per esempio Ulisse Aldrovandi,
«questo mio sì caro tesoro, & fatiche al reggimento di Bologna de cinquanta Senatori, tanto immense, nelle quali, oltre le fatiche dell'animo, & della persona, che non si possono pagare, ho speso tutte le mie entrate in tutto il tempo della mia vita in far tanti viaggi in varj paesi, in pagamenti di varie cose venutemi da varie parti d'Europa, in libri d'ogni sorte di scienza necessarj nelle varie mie composizioni, in pittori, in designatori, & intagliatori mantenuti in casa mia per tanti anni, tre scrittori intelligenti, col salario, & però volendo, che tante mie fatiche seguano dopo la mia morte in onore, & utile della Città, né possino andare in nulla; ho eletto per conservazione di questo Museo, & Libraria de Libri stampati, & Opere da me composte, di lasciar l'Illustriss. Senato di Bologna suddetto, che si contenti averne quella cura, & custodia dopo la morte mia, che si conviene a tante fatiche, & meritamente ho eletto con mia soddisfazione il suddetto Illustriss. Senato, sì per l'essere cognito, le fatiche, & vigilie mie, sì anco per averne avuti tanti segni d'amorevolezza in quarantre anni, che io ho letto tante lettere, come Logica, Filosofia ordinaria, & straordinaria, prima delle cose naturali, e poi l'anno 1561, o altro più vero tempo, fatta ordinaria […] li quali Signori supplico ad avere a cuore, che né cosa alcuna sia mai deteriorata, né alienata, né trasportata, né fuori del Museo, né fuori della Città, a fine dell'onor mio, et che tali mie opere si pongano sotto il mio nome, et che si veda d'impetrare una scomunica Papale a quello, che togliesse qualche cosa, et che sopra il tutto si faccia sopra la Porta della Stanza questa Iscrizione: Ulissis Aldrovandi Museum rerum naturalium, & Bibliotheca librorum compositorum ab eo, & ab aliis; e di poi quello, che parerà a loro conveniente a perpetua memoria della mia Persona, et onore della Città, et famiglia Aldrovandi». [17]
Gli fa eco Giovanni Ciampini, che pure non doveva essere un lettore di Aldrovandi - nel catalogo della sua biblioteca non c'è neanche un'opera del naturalista bolognese - e probabilmente non ne conosceva il testamento:
«lascio la mia libraria con tutti li manoscritti […] dichiarando che se vi fosse qualche opera imperfetta di quelle io vado tessendo, desidero che qualchuno degl'ospiti la perfezioni; lascio parimenti che tutti li rami intagliati, ch'hanno servito per la stampa de miei libri, ed altri, che vi sono […] non si vendino, ma si conservino sempre per bisogno, che potesse occorrere di far nuova stampa […] e questi rami […] si potranno tenere attaccati nel museo infrascritto. Nell'istessa maniera lascio alli medesimi padri tutte le mie statue, e bassi rilievi, tanto di pietra quanto d'ogn'altra materia, quadri, istrumenti matematici, globi, medaglie, ed altre cose che formano museo». [18]
E gli fa eco Lancisi, che invece era probabilmente a conoscenza di quel nobile precedente. Secondo il suo biografo Crescimbeni, infatti, «temendo, che una sì bella raccolta di libri con tanta spesa, e fatica messa insieme, non fosse un giorno parata male, sicome per lo più addiviene alle Librerie de' Letterati, che si veggono giornalmente per le panche de' pubblici Librai dissipate, e disperse, [egli] si avvisò di prendervi provvedimento, mentre egli viveva» e decise pertanto di donarla, con un atto formale, stipulato davanti a un notaio, all'Ospedale di S. Spirito, perché la custodisse in perpetuo ad uso dei medici che vi lavoravano e di chiunque altro avesse a cuore lo studio. Poi si attivò per ottenere dal papa un Breve di conferma della transazione e infine un «Breve di scomunica contro gli estrattori de' libri in data de' 17 febbraio 1714, che fece altresì incidere in marmo, e affiggere sopra la porta dentro il Vestibolo della libreria». [19]
L'amore per la propria creatura si ritrova anche in ambienti culturalmente più modesti e certamente più defilati rispetto alla Repubblica delle lettere. Anche l'avvocato Amadori ha per esempio un piccolo tesoro, che ha raccolto, come al solito, con sacrificio di tempo e di denaro, da raccomandare ai suoi esecutori testamentari:
«Voglio - scrive - che detto sig. Francesco mio fratello et herede faccia vendere […] all'incanto tutte le gioie, argenti, et altre robbe di casa mia eccetto però le statue, teste e busti, le quali non voglio che si vendino mai, mà che stijno sotto perpetuo fidecommesso di come dirò appresso […] Si come anco voglio, che non si possino mai vendere, imprestare, ne cavar fuori di casa le cinque statue, che sono nelle cinque nicchie nel corridoio avanti s'entri in sala, altre cinque statue grandi, e quattro teste con suoi busti, che sono in sala con suoi scabelloni, e cinque teste, che sono sopra il camino di detta sala, e quelle, che Io ho ordinato che si faccino come sopra, ma che tutte, et singole debbino sempre stare sotto perpetuo fidecommesso come sopra». [20]
Il tesoro del commediografo Giovanni Azzavedi consiste invece nella sua biblioteca di teatro e narrativa che in vita ha trattato con ogni cura, disponendo gli scaffali dei libri in una sala ornata di ritratti di belle e illustri dame del suo tempo e persino stilandone personalmente un catalogo, e anch'egli cerca di difenderla dalla dispersione vincolandola con un fedecommesso. [21] Le vette del virtuosismo autocelebrativo vengono tuttavia toccate da Antimo Liberati, il musicista che ho già citato. Egli infatti lascia alla cattedrale di Foligno
«tutte le musiche scritte a penna da me composte ecclesiastiche latine, cioè le partiture originali e copie di esse, e tante legate quante sciolte, et anche tutti gli oratori volgari da me composti […] et anche alcune cantate morali e profane conforme alla nota in fine del presente testamento, et anche tutti li libri stampati di teorica musica, e d'altre materie di diversi autori […] come anche altri libri di partiture di musica stampate e manoscritte, et altri libri di cantilene sacre […] con condizione che [i canonici] facciano fare […] una scanzia proporzionata nella quale vi possano e devano collocare tutti questi libri e musiche, le partiture originali delle quali se saranno rimaste in fogli volanti si facciano legare alla rustica come lealtre […] e [tutti questi libri] non possano ne devano estrahersi mai dalla detta scanzia ne prestarsi ne divulgarsi in mano di chi si voglia, ma devano stare e serbarsi per sempre in quel luogo per memoria mia».
Non contento di ciò, dopo varie altre raccomandazioni, a chiusura del testamento ribadisce: sulla scansia si dovrà «scrivere il titolo che ivi siano i libri da me lasciati a perpetua memoria». [22], e aggiunge: «per la cui [dei beni] sicurezza li detti SS.ri Canonici devano procurare e impetrare dal Sommo Pontefice una scommunica che detti libri e musiche originali non possano mai estrahersi dalla detta scanzia, la quale dovrà chiudersi con tre serrature e chiavi diverse». [23]
4. La memoria e l'eccellenza delle nuove generazioni
Altri personaggi tentano operazioni ancora più grandiose, legando la memoria di sé alla riproduzione dell'eccellenza nelle nuove generazioni. Alcuni restringono il campo alla cerchia dei parenti o dei compatrioti: lo scultore Ercole Ferrata, lombardo, ordina per esempio di conservare intatto il «suo studio de disegni, modelli, cere, giessi et tutti gli strumenti di professione [... in modo che] serva per beneficio della patria e di quei giovani che potessero essere inclinati alla sua professione che venissero dalla sua patria, preferibili i parenti». [24] E Borromini fa altrettanto, anche se restringe il campo dei beneficiari a un unico nipote.
Altri non pongono limiti e rivolgono il loro pensiero a tutti i giovani che vogliano incamminarsi sulla via della virtù. Il pittore bresciano Girolamo Muziano, fondatore dell'Accademia di San Luca, nel 1592 decide per esempio di lasciare alla sua creatura prediletta, la
«compagnia de pittori in S. Luca nella chiesa di S. Martina le due casette gionte insieme poste nel borgo di S. Agata nel rione dei Monti, acciò delli frutti di esse si spesino li giovani che alla giornata verranno all'improvviso a Roma a imparare la Pittura secondo la regola li sarà data, la qual opera raccomanda al rev.mo generale della ven. comp. del S.mo nome di Gesù, et al rev.mo sacrista p.nte di palazzo molto suoi padroni che si degnino agiutarla, protegerla et favorirla et anco la raccomanda ai suoi generi riservando però l'usufrutto di dette casette alla d.a madonna Hortentia sua consorte, mentre viverà».
Pochi anni dopo il suo esempio verrà ripreso da un altro pittore, Alessandro Zuccari, anche lui fondamentale artefice del successo dell'Accademia di San Luca. Nel 1603 egli infatti consegna a un notaio di S. Angelo in Vado, sua città, un testamento con il quale dispone
«che la casa sulla piazza della Sa.ma Trinità sopra l'entrata, ov'è ordinato lo studio per me, e miei figlioli sul prospetto della piazza, sia legata, et abbia a servire per la professione mia del disegno, e sia luogo, e ricetto di Accademia per Pittori, Scultori, ed Architetti, ed altri nobili spiriti di belle lettere, e tutto per l'ajuto della professione mia di Pittura in ispecie, e per studio di Giovani studiosi, e di provetti possa servire; e li stanzini, che sono attorno detto studio sotto, e sopra servano, e debbano servire per ospizio de' poveri giovani studiosi della professione, stranieri, tramontani, fiammenghi, e forestieri, che spesso vengono senza recapito, e se Dio mi dà sanità, e grazia di ritornare [a Roma], spero, e desidero stabilire, et accomodare del tutto detto studio in una dozzena di stanzini nell'altro sito incontro, pure su detta piazza […] ma fino che avrò commodità io, e li miei eredi di far questo servano li stanzini già fatti, e in ognuno d'essi siano due banche da letto, e quattro tavole, e un pagliaccio con due scabelli, e una tavola, e una cassa, e che detti poveri giovani, che avranno voglia di studiare possano studiare, e si possano ricovrare costì, e per sei mesi, e un anno non possano essere cacciati, e venendo de' nuovi poveri giovani uno dia luogo all'altro, e così successivamente, facendo sempre elezione de' più poveri, e spiritosi […] e il primogenito di essi [miei eredi] di mano in mano abbia particolar cura di detti giovani, e li indirizzi alli studj conforme gli ordini costituiti dall'Accademia […] e detti giovani siano obbligati osservare le dette costituzioni, esser quieti, studiosi, pacifici, e riconoscer gli eredi miei per superiori […] e che la spesa, che detti eredi volessero fare in anniversarj sia convertita in carità, e beneficio di detti poveri giovani in far comprar carta, lapis, ed altre cose per lo studio […] e li detti eredi non possano vietare ciò mentre si comporteranno nobilmente, e virtuosamente senza risse, e discordie, e in tal caso possino licenziarli, e levar gl'inquieti, e scandalosi, e ricevere gli umili, e pacifici». [25]
Più o meno negli stessi mesi Aldrovandi esprimeva una simile sollecitudine per la formazione delle nuove generazioni, scrivendo che «maggiore impresa non si può fare in materia de Letterati, che augmentare, e drizzare una Biblioteca pubblica». [26]
A Nicola Pari, avvocato di Montepulciano e procuratore in Roma della Granduchessa di Toscana, invece, della sua professione in quanto tale importava poco e non era a questa che voleva prioritariamente formare i giovani. Quello che gli premeva era la promozione culturale generale di tutti i suoi concittadini e a questo scopo si era deciso a fondare quella che definiva la sua «opera pia», cioè in pratica una scuola pubblica aperta a tutti, chierici e laici, cittadini e forestieri. Perciò disponeva che una parte delle rendite della sua eredità fosse destinata a stipendiare un maestro di scrittura e d'abaco, un maestro di grammatica, e due professori «che legghino uno logica, filosofia, teologia e casi di coscienza e l'altro instituta civile e canonica e faccia la repetitione delle cento leggi di Bartolo». Nel complesso si trattava di una spesa di quasi 500 scudi l'anno, una cifra imponente per un semplice esponente del ceto mediocre, ancorché proprietario terriero: capitalizzata al 4% rimandava a un patrimonio di 12.500 scudi. Aver disposto questo tuttavia non bastava a soddisfare la sua ansia di meritocrazia, ed egli passava quindi a definire una serie di misure che avrebbero dovuto garantire la scelta dei migliori candidati possibili: un bando pubblico da affiggersi in Montepulciano e nelle città vicine, un «concorso et esame rigoroso», un impegno preventivo degli esaminatori a scegliere i migliori:
«avanti si faccia il concorso, voglio che […] si dia il giuramento sopra li sacrosanti Evangelij di eleggere quelli che secondo la loro coscienza per dottrina integrità di vita e buoni costumi giudicaranno più idonei per dette cariche offizij e letture e di non attendere a favori ne raccomandazione alcuna ma il solo merito delle persone».
Era questa «la disposizione a favore della comunità e seminario di Montepulciano» che doveva essere ricordata nell'iscrizione marmorea da apporre sull'entrata della cappella in Duomo. [27]
Altrettanto imponenti erano le disposizioni testamentarie di Giovanni Ciampini. Egli apriva infatti il suo lunghissimo testamento con questa dichiarazione:
«Avendo io sino al presente procurato di spender il talento che Iddio mi ha dato in maggior onore e gloria sua, et in benefizio tanto della mia persona, con applicare sempre l'anima agli studi, quanto anche del mio prossimo, con animarlo [...] a fare il medesimo [voglio lasciare i miei beni a beneficio degli studiosi poveri, in modo che possano] con maggiore facilità rendersi abili per il bene comune e rendere immortale il loro nome, che forse per altro resterebbe sepolto in una perpetua oblivione. Per effettuare questo mio desiderio e volontà intendo d'instituire un'Opera Pia […] cioè fondare un ospizio di dodici, o più o meno persone, conforme saranno capaci le mie entrate, e frutti della mia heredità, le quali […] col continuo esercizio delle scienze possino incaminarsi a generose operazioni […] ed impiegando il talento che Sua Divina Maestà gl'ha dato per il mantenimento, ed accrescimento delle buone lettere. Poiché la mia heredità consiste la maggior parte in beni mobili ed immobili, dalli mobili dichiaro, che si debbano separare tutti li materazzi, lenzuola, ed altre robbe ad uso di letto, come anche le sedie ordinarie ed i quadri di divozione, che saranno necessari per metterne uno per stanza delli ospiti infrascritti, si come gli stigli, che si troveranno in cucina in tempo della mia morte per servizio delli medesimi ospiti; inoltre […] si potranno lasciare i mobili nobili per guarnire una, o due stanze dove si congregheranno, e si faranno le Accademie».
Più avanti specificava:
«Escludo [dal novero dei possibili ospiti] quelli che per studio di pura e semplice theologia scolastica, e morale […] o di legge, overo di medicina pretendessero entrare nell'ospizio poché tali studij sono professati da molte persone le quali fioriscono in questa città e non gli manca il modo di abilitarsi, il che non succede dell'altre scienze. Dichiaro che tra il numero delle scienze si debbano intendere anche quelle delle lingue, come greca, ebraica, arabica, ed altre lingue morte; inoltre la scoltura, pittura quando l'artefice fosse persona ecellente in quell'arte […] e questi tali mentre convivono nell'ospizio debbano fare qualche loro opera in utile di esso. Il simile dico delle scienze di sopra nominate […] quando uno […] trovasse occasione di servire qualche em.mo cardinale o prencipe, overo fosse provisto di qualche beneficio ecclesiastico, o d'altra entrata sufficiente a poter vivere, in tal caso lo dichiaro inabile a godere il beneficio di ospite […] poiché intendo soccorrere a quelli poveri virtuosi e letterati, particolarmente oltramontani e forastieri, quali professando scienze poco studiate in questa città non trovano così facilmente congiuntura di sostentarvisi […]. La nomina di detti ospiti […] la riservo a mia disposizione, quale spero farla avanti la mia morte».
Naturalmente dava anche disposizioni per la sua biblioteca e le sue collezioni: «Per commodità de sudetti ospiti e sudetti padri del collegio clementino pro tempore, e d'altri virtuosi, che vogliono studiare lascio la mia libraria […] Nell'istessa maniera lascio [… il mio] museo da tenersi ad uso del'ospiti, […] ed anche di chi si diletta di scoltura, pittura, e di erudizioni antiche, con lasciar pigliar copia o disegno di quello più aggradirà, essendo mia intenzione di apportare sempre utilità e giovamento alli virtuosi».
Tra gli «oblighi e pesi che haveranno gli ospiti» c'era
«che ogni quindici giorni si tenga accademia pubblica […] una volta si tenga sopra le materie conciliari simile a quella fondata da me 23 anni sono nel collegio di Propaganda fide, ed un'altra volta si tenghi sopra le materie fisicomatematiche, conforme a quella parimenti da me fondata, e che tengo in mia casa da 18 anni in qua; inoltre se ne faccia una straordinaria l'anno sopra l'utilità che recano li studij e in lode del pontefice ed altri che haveranno cooperato alla fondazione ed accrescimento di questo ospizio, ed il discorso che si farà in detta accademia straordinaria […] anticipatamente si stampi e nel fine dell'accademia si distribuisca all'uditorio, per dare occasione che sia più numerosa l'udienza». [28]
La memoria si affidava anche alla perpetuazione di una tradizione.
Diversamente da Ciampini e come Aldrovandi, Lancisi non aspettò di testare, ma donò la sua biblioteca alcuni anni prima di morire. L'obiettivo era però sempre quello di contribuire alla formazione dei giovani:
«Questo Luogo pio [l'ospedale di S. Spirito] adunque dovrassi considerare più d'ogn'altro, come pubblico utilissimo Seminario, in cui circa cento Giovani, che tra Medici, Cirurgi, e Speziali di continuo vi dimorano, oltre molti altri, che giornalmente vi vengono per far quivi la pratica, possono meravigliosamente profittare nelle proprie professioni, quando a loro non manchi alcuna cosa necessaria a questo fine; onde io stimo, che quanta maggior diligenza s'impiegarà nella scelta de i mezzi, per cui la gioventù attenda in questo Archiospedale con più studio, tanto maggiore e migliore sarà il servizio, che si renderà ai medesimi poveri, come quelli che verranno trattati da Persone disinteressate, le quali desiderano di solamente guadagnare per se con la studiosa ricerca, e diligente cura delle loro infermità, e similmente tanto maggiore utile risulterà alla Repubblica nel formarsi, e maturarsi sempre meglio quei Professori, che adagio adagio debbono salire a i posti cospicui de i Magisteri, non meno nelle pubbliche Università, che nelle condotte, e nelle cure eziandio degl'istessi supremi Principi […]. Uno poi de' migliori, e maggiori mezzi per istruire la suddetta Gioventù nell'Archiospedale di S. Spirito, io da che vi dimorai in qualità di Medico Assistente nell'Anno 1676 ho sempre creduto, che sarebbe quello di una copiosa Libreria Medica, in cui gli stessi Giovani nelle molte ore, che anno di libertà, e di ozio, potessero agevolmente, e profondamente riconoscere, ed istudiare i tanti casi, che loro accade colà dentro di giorno in giorno vedere; e perciò in sì lunga serie d'anni sono rimasto chiaramente convinto, che per la mancanza de' Libri necessarj sieno stati così pochi i Giovani, che abbiano potuto studiare per le forme, che vale a dire, investigando primieramente lo stato naturale, e poi il morboso dell'uomo con i varj, e più proprj mezzi per risanarlo; ed al contrario ho veduto, che molti avendovi fatta la nuda pratica, sieno diventati poco più che Empirici, cioè poco profittevoli, anzi talora sommamente nocivi alla Repubblica. Per questi riflessi io mi sono risoluto di seguire il consiglio dello Spirito Santo […]. E perciò non solamente voglio disporre in vita, ma dare ancora incominciamento, & esecuzione all'Opera premeditata, col donare il mio Studio alla Casa di S. Spirito in Sassia, in cui mi lusingo, che la maggior parte della Gioventù Medica, tanto Romana, quanto Forastiera abbia da studiarvi colla caritatevole direzione di quegl'insigni Maestri, che non dubito saranno sempre per trovarsi in un Luogo pio pubblico, e Pontificio. Ma perché i principj dati dagl'Uomini alle proprie operazioni, qualora son ben regolati, fanno una moral sicurezza de i loro prosperi proseguimenti, quindi io prego Monsignor Illustrissimo Giorgio Spinola, al presente Commendatore di S. Spirito, di ricevere in nome del suddetto Archiospedale la mia Libreria con i seguenti Capitoli …». [29]
Qualche anno dopo, nel redigere il proprio testamento, Lancisi fu ancora più esplicito:
«Voglio poi, che dalla mia eredità si detraggano trenta luoghi de' Monti non vacabili, da porsi separatamente a moltiplico, sinché si giunga a formare l'entrata bastante, come si dirà, a mantenere tre giovani Medici, che o siano già stati Assistenti nel medesimo Ospedale di S. Spirito, o almeno si trovino già Dottori di tre anni prima, e tutti sudditi della Santa Sede, fra quali do sempre la prelazione alli Romani, & ad uno dello Stato di Urbino, colla nomina di questo da darsi dalla Casa Albani […] Questi Giovani poi saranno tenuti, per corrispondere colla dovuta gratitudine al mio desiderio, di andare a studiare ogni giorno alla mia Libreria, e se qualcuno non vi andasse (fuori che in caso d'infermità, e delle solite vacanze) io l'intendo decaduto, e voglio, che si dia subito il luogo ad un altro, non essendo mia intenzione di nudrire oziosi, ed ignoranti, ma giovani abili, e studiosi». [30]
5. Competenze professionali e bene comune
Alcuni, tuttavia, non sono tanto interessati a tramandare e promuovere la propria dottrina, quanto a fare il bene della comunità, utilizzando le proprie competenze professionali per fondare «opere pie» che aiutino i più deboli. E' questo desiderio che, per esempio, ispira l'avvocato Amadori a fondare un ufficio di avvocato dei poveri:
«Et perché io ho veduto, e vedo che molte povere Donne, Vedove, Orfani, per pupilli e altre persone scarse e manchevoli di beni di fortuna per haver il modo da defendersi, et chi defenda loro et le loro buone ragionui, vanno sperse, et sono oppresse, Io desidero per quanto il mio poco havere mi permetterà di sovvenirli in quel miglior modo, che potrò et perciò avendomi raccomandato a S. D. M. più volte, che mi ispiri, come Io posso mandare ad esecutione questo proponimento finalmente ho stabilito di fare l'infrascritta sostituzione et disposizione per l'effetto soddetto, laonde al soddetto Sig Francesco mio fratello et herede in qualsivoglia tempo, che egli morrà, nella soddetta tutta mia universale heredità interamente et senza alcuna diminuzione et dedutione et detrazione quantosivoglia dovuta […], sostistuisco et voglio che gli succeda per fidecommesso il più prossimo mio parente della mia Casa Amadori, il quale sia Dottore di Legge et in età di celebra messa e questo mio parente Dottore di legge, voglio, che prima di pigliare la mia heredità nel modo, che dirò, sia sacerdote, e celebri messa, et doppo che havrà celebrato messa, voglio, che si metta in Prelatura et che si chiami Monsig. Amadori, et faccia, et usi l'arme mia puramente, e senza alcuna mistura, et che vadi ad habitare nella soddetta casa mia all'archo di Portogallo, et che all'hora pigli la mia heredità […] La cura et essercitio poi di detto Monsignore mio herede […] voglio, che sia di patrocinare, e defendere tutte singole liti di qualsivoglia sorte di vedove, pupilli, orfani e povere persone di qualsivoglia natura, che haveranno da litigare in Roma, le quali se gli raccomanderanno, ordinando espressamente, che non refutino lite alcuna civile per ardua, et faticosa, che sia, purché siano giuste o almeno dubbie, e che non neghino, o impedischino a nessuno il sentire le loro liti, e differenze et comando, che prima di pigliare la difesa delle dette liti et prima d'accettarle detti Monsignore, Auditore et sollecitatore, vedino sommariamente li loro meriti , se siano giuste, o almeno dubbie, accettino, e li difendino, et se poi nel progresso della lite vedesse che fossero ingiuste, et che li loro principali havessero il torto probabilmente, in questo caso tralascino di più defenderle, dichiarando, che io non intendo di comprendere, ne voglio siano comprese quelle persone che stanno nel servitio di persone grandi, e ricche e che hanno parenti, e perciò prima di accettare la difesa delle loro liti, voglio che detto monsignore faccia diligente perquisitione della qualità di dette persone e dell'havere loro, e se saranno al servitio come sopra, o haveranno parenti ricchi non l'accetti gravando in ciò la coscienza di detto Monsignore, avvertendo che la mia intentione è, e così voglio, che tra dette persone siano sempre anteposte e preferite vedove, pupilli, e persone miserabili che non haveranno parenti ricchi o staranno con persone grandi, e ricche come sopra, et in particolare quelle persone che siano in pericolo di perdere l'honore, e la castità per la loro povertà e mancamento nelle loro liti perché in sollevarle e aiutarle si fa opera digna di merito appresso S.M.D. e non altrimenti». [31]
Una volta tanto, questa disposizione testamentaria non verrà disattesa e, a un secolo di distanza, la «prelatura Amadori» sarà ancora in grado di fornire assistenza legale ai poveri. Partecipa dello stesso spirito il lascito di Lancisi, così annunciato nel suo testamento:
«Nel determinare poi, e nell'eleggere il mio Erede universale, confesso di non aver' incontrato alcun dubbio; poiché essendomi riuscito di cumulare le mie poche sostanze nell'Alma Città di Roma per mezzo di studiose, ed oneste fatiche, mi vedo in preciso debito non solo di non permettere, che il mio avere sia trasportato fuori di Roma, ma di doverlo unicamente lasciare a quei medesimi due ordini di persone dalle quali appunto io ho cavato ogni mio profitto, e vantaggio. E perché il prim'ordine è stato quello deg'Uomini savj, e dotti, che mi anno insegnato sì colla voce viva, che con i propri scritti la buona filosofia tanto morale, che naturale con le maniere di ordinatamente studiare, e di cambiare bensì, ma non di abbandonare giammai le applicazioni serie, e giovevoli a i miei Concittadini. A questo primo ordine io stimo d'aver già in qualche modo soddisfatto coll'istituzione degli otto Sacrificj da celebrarsi ogni mese in suffragio ancora dell'anima del mio Maestro, e con l'erezione della mia pubblica Libreria, da cui gli Giovani studiosi, e gli Uomini letterati potranno derivare le loro cognizioni più scelte, e più necessarie per divenire uomini grandi, e così portare del beneficio a i sudditi, ed a i Principi della Santa Chiesa. Il secondo ordine poi delle persone, dalle quali ho ricevuto un sommo bene è stato quello degl'infermi ricchi, e nobili, e particolarmente di tre Sommi Pontefici, a i quali ho avuto la sorte di servire, ad uno in qualità di Medico straordinario, a due poi come Medico, e Camierier Segreto partecipante […] i quali Santi Pontefici, fidandosi della mia tal quale abilità, si sono compiaciuti non pur la lode, che forsi io non ho meritato, di sufficiente buon Medico, ma tali premj, & onorarj, onde dopo la spesa non piccola da me impiegata nella Libreria, mi trovo in stato di poter disporre del residuo de' miei averi, per qualche altra opera pia diretta precisamente a restituire l'altra parte del bene a chi me l'ha dato. Sicché avendolo ricevuto dagl'infermi ricchi (i quali però non anno, né averanno giammai alcun bisogno de' miei sussidj) Io lo devo lasciare a gl'infermi poveri. Et avendo fatta nuova, e matura riflessione all'essere io stato da Giovine in qualità di Medico Assistente con molto mio profitto nel grand'Ospedale di S. Spirito, per questo motivo di dovuta gratitudine mi sono determinato d'istituire per mio Erede universale il medesimo Archiospedale di S. Spirito in Sassia. Ma parché io scorgo, che quivi si ricevano con indicibile, ed illimitata carità tutti gli uomini amalati, che vi concorrono, ma che le povere donne unicamente vi rimangono escluse […] e che per questa ragione le povere Donne febricitanti, le quali abitano nelle prossime Regioni, e fuori, e dentro de' borghi, della Lungara, di Ponte, di Strada Giulia, e dell'Orso, sono obligate a morire quasi di stento, nelle loro casette, o a farsi condurre con grandissimo incommodo, e pericolo per lo spazio di tre, e più miglia all'Ospedale di S. Giovanni in Laterano […] quindi è, che nella restituzione, la quale io penso di fare agl'infermi del ricevuto da loro, ho stimato un'atto di maggiore, è di più scelta carità il volere, che si erigga in un luogo vicino a quello di S. Spirito un'Ospedale minore di sole povere Donne». [32]
6. La pubblicità
Il ripetersi di donazioni e lasciti testamentari analoghi, in ambienti ed epoche diverse, spinge a interrogarsi sulla loro notorietà e sugli eventuali modelli cui i singoli testatori potevano essersi ispirati.
Suscitando in generale le ire degli eredi naturali, e venendo da persone molto conosciute o anche solo relativamente ben note, queste disposizioni erano ovviamente assai chiacchierate. I concittadini ne parlavano, ne scrivevano ai loro corrispondenti, ne informavano i menanti e gli autori di Avvisi e gazzette. Le voci venivano poi raccolte dagli eventuali biografi. Non molti anni dopo la morte di Zuccari, concludendo la Vita di lui Baglione per esempio commentava:
«amò in particolare l'Accademia Romana […] e nel suo testamento la fece sottoposta a fidecommisso, che morendo i suoi heredi senza successori, lascia herede universale l'Accademia, e Compagnia di S. Luca di Roma, tanto era l'amore che portava al luogo, fonte del Disegno». [33]
Il testamento del pittore era dunque noto, almeno nell'ambiente artistico. E, sebbene sia rimasto inedito fino al 1774, era sicuramente conosciuto anche quello di Aldrovandi, sia per la notorietà della persona sia perché il suo beneficiario era il Senato bolognese. [34]
Un secolo dopo Crescimbeni, commentando l'atto di donazione di Lancisi all'ospedale di S. Spirito in Sassia, avrebbe d'altra parte affrontato esplicitamente la questione, scrivendo: «Distesasi non pur per l'Italia, ma anche fuori di essa la fama di questa insigne azione di Monsignor Lancisi, siccome egli era dappertutto cognitissimo, ed aveva Protettori, ed Amici». [35]
A qualunque campo disciplinare appartenesse, ogni singolo testatore aveva dunque un modello di «opera pia» cui fare riferimento. Ma anche se ne avesse sentito parlare solo alla lontana, tutte queste diverse iniziative, legate a tante diverse situazioni, e tuttavia amplificate dalla pubblicità garantita dalla pubblicazione del documento fondativo, oppure dal tam-tam della Repubblica delle lettere, o ancora dalla risonanza di una lite in tribunale, confluivano in un bagaglio culturale condiviso, che veniva alimentato da ogni nuova donazione, ogni nuovo lascito testamentario. Che un collezionista si dovesse cautelare contro la probabile dispersione del suo «sì caro tesoro» era cosa ben nota a chiunque si dedicasse seriamente a una raccolta, di libri, oggetti d'arte o naturalia che fosse. Il rapido smembramento di tante collezioni rinascimentali era servito da lezione. [36] Che fosse nobile e giusto restituire alla comunità una parte di quello che si era ricevuto era cosa risaputa da chiunque avesse fatto studi classici. [37] E che questo servisse a perpetuare il proprio nome era anche notorio. Tutto questo non costituiva però un bagaglio culturale specifico delle perone eccellenti. Al contrario: la magnificenza, l'evergetismo, erano prima di tutto virtù di governanti, di principi! E se le persone eccellenti le facevano proprie, le coniugavano tuttavia a modo loro. Quelle che volevano promuovere e far crescere nella società erano le stesse qualità sulle quali basavano la propria rivendicazione di eccellenza: la cultura, l'eccellenza professionale, il merito personale. Perciò era giusto e addirittura doveroso parlarne, nelle biografie, ma anche nelle corrispondenze tra dotti. Una settimana dopo la morte di Ciampini, per esempio, a Parigi Mabillon era già informato non solo del suo decesso ma anche del testamento e delle controversie che aveva immediatamente suscitato. Il suo corrispondente romano gli aveva infatti scritto:
«Le palais a pris tous ses [di Ciampini] manuscrits et ses papiers pour la bibliothèque Vaticane; il avait laissé tout son bien, par son testament, pour une espèce de séminaire qu'il voulait faire, qui aurait été une belle chose si elle avait été bien exécutée, car il fondait des places pour huit ou dix personnes savantes, de toutes les nations qui étaient fort bien logées vis-à-vis de la chapelle de N. D. de Sainte-Marie Majeure; il leur lassait sa bibliothèque, ses antiques, et à chacun cent écus de revenu; il n'avait rien à faire qu'à étudier, lire les livres nouveaux de leur nation, en faire un abrégé, et rapporter ceux qui mériteraient d'être censurés à la congrégation de l'Indice, dont, par parenthèse, son Em. Casanata a été fait préfet à la place du feu cardinal Altieri; de manière que tous les mois on aurait pu avoir un journal des savants qui aurait fait connaître les différentes nations. Vous voyez que ce dessein là était beau et noble, s'il avait été bien exécuté; il avait déjà acheté un fort belle maison pour cela; il a laissé au collège futur tout son bien, et rien à son frère qui a sept ou huit enfants. Cela à fait crier, et on croit même que son testament sera cassé». [38]
Alla luce di tutto questo non è così sorprendente che l'avvocato Pari si sentisse in obbligo di proibire esplicitamente: «che nessuna persona di qualsivoglia stato di guisa grado e condizione si possa ingerire in qualsivoglia modo e sotto qualsivoglia pretesto nel amministrazione della mia heredità e nel governo di questa opera pia da me lasciata che nella sua casa e famiglia habbia simile opera pia di salariare maestri di schuola mantenere scholari et altre simili opere pie acciò per negligenza et usurpazione nel interessi del opere pie simili questa non venga negletta e patisca».
Se un avvocato di una cittadina relativamente piccola temeva di veder confondere la propria scuola con quella fondata da qualcun altro, evidentemente salariare maestri e mantenere scolari non erano disposizioni così insolite. Il passaparola funzionava.
Trasmessa a voce, per lettera, a stampa, la notizia di queste lodevoli iniziative doveva dunque circolare. La notorietà era infatti essenziale, da un lato per salvaguardare efficacemente la memoria del testatore, dall'altro per aggiungere un consistente tassello alla costruzione di quell'eccellenza che, come si è visto, si inseguiva in vita e in morte. E, in effetti, la pubblicità data a queste disposizioni testamentarie proveniva da ambienti molto prossimi ai testatori, esattamente come avveniva per i musei o le biblioteche di cui si parlava nelle Guide. Anch'essa si può quindi considerare un servizio di identificazione, ancora una volta in mano a personaggi - letterati o artisti o dottori - del tutto omologhi ai fondatori di scuole e altre «opere pie» e interessati, esattamente come loro, a promuovere se stessi e il proprio gruppo di elezione.
7. Progenie e «creatura»
Nicola Pari, pur essendo sposato, non aveva figli e Ciampini, che peraltro sposato non era, non ne aveva nemmeno lui. Questo alleggeriva di molto il senso di responsabilità verso il proprio lignaggio che ambedue sentivano di avere, e al quale comunque tributavano omaggio lasciando somme abbastanza cospicue ai nipoti. Ma i nipoti non sono figli e l'assenza di questi ultimi è stata probabilmente determinante nelle loro scelte testamentarie. Altri che vorrebbero fare come loro sono infatti frenati proprio dagli obblighi che sentono di avere verso la propria discendenza. Francesco Raspantini - che abbiamo visto lasciare disposizioni per la costruzione di una cappella - oscilla per esempio continuamente tra il desiderio di compiere una grande opera e la pietas verso i suoi giovanissimi figli che potrebbero non raggiungere mai l'età adulta. Quando decide di fare testamento egli ha solo un bambino di pochi mesi; un altro figlio gli è morto in fasce un paio di anni prima, e il suo timore che anche questo secondogenito non gli sopravviva traspare da tutte le sue disposizioni. Ogni volta che nomina i suoi eredi universali - il figlio nato e gli altri che a Dio piacendo gli nasceranno - egli si premura infatti di avvertire che se nessuno di loro raggiungesse l'età adulta tutti i suoi beni debbano convergere nella costruzione del luogo sacro. E quando dispone per l'uso dei suoi mobili e delle sue suppellettili è la cappella a venirgli in mente per prima, quasi che la sua più intima aspirazione fosse la sua costruzione, e solo l'etica di lignaggio potesse distoglierlo dal realizzarla.
Liberi come si è visto da obblighi dinastici, Pari e Ciampini decidono dunque di destinare la propria eredità alla costruzione di luoghi o di percorsi di studio. Ciampini prevede che tutto questo abbia una sede fisica, sia cioè alloggiato in un edificio apposito e pertanto lo associa a un bene immobile; poi lo riempie di arredi, libri, oggetti d'arte e di studio che gli appartengono, chiedendo anche che non vengano mai venduti né dispersi. Negli anni che intercorrono tra la prima stesura del testamento (aprile 1694) e la sua malattia finale (luglio 1698), riesce inoltre a comprare un «casino a S.ta Maria Maggiore», che deve essere assai bello, visto che lo ha pagato ben 6.000 scudi. Dispone quindi che «detto casino possa servire la primavera e l'autunno staggioni comode per farvi l'accademia e vi si trasferischino li mobili necessari per detto effetto. Inoltre voglio che si ponga l'iscrizione sopra la porta del detto casino che lo dichiari dell'hospizio da me instituito, siccome anche nell'altra casa vicino al collegio Clementino dove habitaranno li pp virtuosi». [39] Le ragioni dei suoi familiari non tardano però a farsi sentire. Al letto di Giovanni morente è ossessivamente presente il fratello Domenico, che lo costringe a dettare ben due codicilli: nel primo si stabilisce che metà delle rendite destinate alla fondazione dell'ospizio vadano invece alle sue nipoti, fin tanto che non saranno sistemate, o maritate o in convento. Nel secondo, steso poche ore dopo, il legato alle nipoti da temporaneo diventa vitalizio. Esausto, il povero testatore morente fa un estremo tentativo di difendersi dall'invadenza dei parenti, che insidiano così brutalmente la sua creatura, e «trasferisce il possesso di tutti e singoli suoi beni di qualsivoglia sorte, specie, qualità e quantità in qualsivoglia luogo posti ed esistenti negli eredi da esso istituiti in detto suo testamento e respettivamente nel m. R.P.D. Antonio Fran.co Forti e sig. Fran.co Maria Honorati suoi esecutori testamentari, costituendo li medesimi procuratori irrevocabili, ut in rem propriam». [40] Ma ciò non basterà a salvare l'Ospizio: le rendite saranno ormai insufficienti a permetterne il funzionamento e gli eredi designati non accetteranno l'eredità.
Muziano invece ha una famiglia sua propria, costituita da una moglie e da alcune figlie femmine e sa di avere degli obblighi nei loro confronti, che intende rispettare. Pertanto dispone che la sua vedova riceva una rendita vita natural durante e istituisce le figlie eredi universali del suo patrimonio. Non contento di questo, spinge la sua lealtà verso la famiglia fino al punto di vincolare questa sua eredità e predisporre anche varie sostituzioni fedecommessarie. Nemmeno in questo caso, tuttavia, dimentica la sua creatura e infatti dispone che, in caso di estinzione totale della sua discendenza, l'eredità non vada perduta e nel fedecommesso subentri la compagnia dei pittori, «acciò si facci l'hospedale per essi pittori». [41] Nel caso di Zuccari, come vedremo tra breve, l'amore per la creatura si spingerà fino al punto di mettere in discussione non solo i diritti ereditari delle figlie femmine, ma anche quelli ben più solidi dei figli maschi.
Che i diritti ereditari dei figli non debbano prevalere su quelli della propria creatura fino a comprometterne la sopravvivenza è opinione espressa anche dal naturalista Ulisse Aldrovandi, che nel testamento redatto in quello stesso 1603 affida la sua biblioteca e il suo museo al Senato di Bologna con queste motivazioni: «Considerando le gran fatiche, & spese, che ho continuamente fatte in cinquantasei anni, & faccio di continuo, drizzando sempre ogni cosa ad onor di Dio, & utilità de' Studiosi presenti, e posteri, acciocché le tante fatiche, & spese nei studj miei non abbiano andar in sinistro, & essendo sempre stata la mente mia, quantunque avessi avuti figlioli legittimi, & naturali, di non volerli far padroni delle tante mie fatiche in questo teatro di natura, & della mia Biblioteca universale di libri». [42]
Come si è visto però questa insensibilità verso i diritti del sangue non lascia indifferenti i contemporanei, che ne sono spesso turbati. Il corrispondente romano che informa Mabillon della morte di Ciampini, per esempio, commenta: «Il a laissé au colége [sic] futur tout son bien, et rien à son frère qui a sept ou huit enfants. Cela fait crier, et on croit même que son testament sera cassé, car il crie vengeance d'avoir laissé plus de deux cent mille francs pour ce prétendu collége, et quoique à ses pauvres parents, que cent écus à chacun». [43] D'altra parte, a dispetto dell'amore per la propria creatura, gli stessi testatori si mostrano spesso imbevuti di ideologia di lignaggio: sia Pari, sia Raspantini, sia Amadori ordinano per esempio che nella nomina ai canonicati o alla prelatura si dia la precedenza a membri della propria famiglia.
8. La memoria di sé
Una sottile contraddizione attraversa dunque l'animo di tante persone eccellenti: da un lato la memoria di sé come individuo singolare, persona eccellente, sembra passare al di sopra di qualsiasi altro tipo di lealtà, persino di quella nei confronti dei consanguinei e addirittura dei figli. Dall'altro, però, le ragioni del sangue riprendono il sopravvento, e si prefigurano percorsi privilegiati per i propri parenti. Una contraddizione analoga caratterizza peraltro il loro modo di concepire la «nobiltà», che oscilla tra prese di posizione meritocratiche a favore dell'ingegno e della dottrina personali e molto più conformistici adeguamenti alla cultura dominante che invece la collega a una posizione sociale, accompagnata da un certo tipo di relazioni e di tenore di vita. In una cosa però i nostri personaggi si mostrano coerenti ed è nella totale identificazione con la propria creatura. Questo oltretutto non riguarda solo chi quell'opera la ha creata con le sue mani, oppure le ha dato vita nel corso di lunghi anno di studio e applicazione, ma anche chi la ha solamente ideata nell'ultima fase della sua esistenza e le ha dato voce solo in coincidenza con la propria morte. D'altra parte, se sono dottrina e ingegno che hanno illustrato il nome della persona eccellente, facendolo emergere dall'oscurità, non può essere il sangue, inteso come perpetuazione della Casa, a garantirne l'immortalità. Se il problema della memoria sottende sia l'uno che l'altro, sangue e ingegno, casato e singolo individuo, seguono pur sempre regole diverse e vanno gestiti con diversi criteri.
Note
1. R. Bizzocchi, Genealogie incredibili. Scritti di storia nell'Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2009.
2. Si pensi. per esempio, alle difficoltà che incontrano i notai nell'identificare gli autori non solo dei quadri ma anche dei libri.
3. I testamenti che contengono disposizioni specifiche sono infatti molto pochi rispetto a quelli che si limitano a istituire una serie di legati e a individuare un erede universale.
4. Sul fedecommesso è stato scritto tanto che inutile che mi dilunghi; per il contesto romano cfr. Maura Piccialuti Caprioli, L'immortalità dei beni: fedecommessi e primogeniture a Roma nei secoli XVII e XVIII, Viella, Roma 1999. 21. ASR, Giustiniani, b.32, c. 30; ma cfr. anche Renata Ago, Il gusto delle cose, Donzelli, Roma 2006, p. 22 e più in particolare il cap. V.
5. Cfr. il testamento di Pietro Antonio Maronio in ASR, TNC, uff. 31, vol. 333, cc. 306, 9 ottobre 1699.
6. Sulla costruzione della memoria cfr. Grounds for Remembering, fascicolo monografico di «Representations», 69 (2000); Joan A. Holladay, Tombs and Memory: Some Recent Books, in «Speculum», 78 (2003), pp. 440-450; Arnoud-Jan A. Bijsterveld, Do ut des. Gift Giving, Memory and Conflict Management in Medieval Low Countries, Verlore, Hilversum 2007.
7. Cfr. Renata Ago, L'eredità mobile, in Paola Lanaro (a cura di), A venticinque anni da 'L'eredità materiale', Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 89-106.
8. Angelo Torre, Il consumo di devozioni. Religione e comunità nelle campagne dell'Ancien Régime, Venezia, Marsilio, 1995.
9. Cappella situata all'interno dello stesso Duomo.
10. Per i testamenti e i successivi codicilli dei due cfr. la trascrizione a cura di Renata Ago in Testamenti.
11. Natalie Zemon Davis, Boundaries and the Sense of Self, in Thomas C. Heller; Morton Sosna; David E. Wellbery (eds.), Reconstructing Individualism: Autonomy, Individuality, and the Self in Western Thought, Stanford, Stanford University Press, 1986, pp. 53-63; Jodi Bilikoff, Confessors, Penitents and the Construction of Identities in Early Modern Avila, in Barbara B. Diefendorf, Carla Hesse (eds.), Culture and Identity in Early Modern Europe (1500-1800): Essays in Honor of Natalie Zemon Davis, University of Michigan Press, 1993, pp. 83-102.
12. Sulla pietà come fattore individualizzante, soprattutto nel caso delle donne, cfr. Gabriella Zarri, Le sante vive: Profezie di corte e devozione femminile tra '400 e '500, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990; Ead. (a cura di), Donna, disciplina, creanza cristiana dal XV al XVII secolo: studi e testi a stampa, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 1996; Ead., Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2000; Daniel Bornstein, Roberto Rusconi (eds), Women and Religion in Medieval and Renaissance Italy, The University of Chicago Press, 1996; Gianna Pomata, Gabriella Zarri (a cura di), I monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco, Roma, Storia e Letteratura, 2005.
13. Antonino Bertolotti, Artisti lombardi a Roma nei secoli XV, XVI, XVII, Forni, Bologna 1969, vol. II, pp. 202-3. Sull'agency degli oggetti artistici cfr. Alfred Gell, Art and Agency, Clarendon, Oxford 1998.
14. Bertolotti, Artisti lombardi a Roma, cit., p. 209.
15. ASR, Notai AC, Testamenti e donazioni, vol. 28, c. 358, 1639.
16. ASR, Notai AC, Testamenti e donazioni, vol. 19, cc.160 ss, 24 ottobre 1685.
17. Giovanni Fantuzzi, Memoria della vita di Ulisse Aldrovandi, medico e filosofo bolognese, Bologna, Lelio dalla Volpe, 1774, pp. 76-84.
18. Cfr. /it/banche-dati/collezioni-digitali/testamenti/ciampini.aspx
19. Crescimbeni, Vita, cit., pp. 49-53.
20. ASR, Notai AC, Testamenti e donazioni, vol. 28, c. 203, 1639; copia in S. Girolamo della Carità, b. 175, f. 1.
21. Luigi Spezzaferro, Per il collezionismo dei bamboccianti a Roma nel Seicento: qualche appunto e qualche riflessione, in Da Caravaggo a Ceruti. La scena di genere e l'immagine dei pitocchi nella pittura italiana, a cura di F. Porzio, Ginevra-Milano, Skira, 1998, pp. 83-88.
22. ASR, Notai AC, Testamenti e donazioni, vol. 19, cc.160 ss, 24 ottobre 1685.
23. Ibid.
24. Bertolotti, Artisti lombardi a Roma, cit., p. 174.
25. Melchior Missirini, Memorie per servire alla storia della Romana Accademia di S. Luca fino alla morte di Antonio Canova, Roma, De Romanis, 1823, pp. 65-66.
26. Giovanni Fantuzzi, Memoria della vita, cit., p. 84.
27. Testamento e codicillo di Nicola Pari in ASR, TNC, uff. 5, Testamenti, vol. 760, cc. 619, 25 novembre 1663 e cc. 648, 18 marzo 1667.
28. ASR, TNC, uff. 1, vol. 849, 12 luglio 1698.
29. Crescimbeni, Vita, cit., pp. 81-85.
30. Ivi, p. 142.
32. Ivi, pp. 137-140.
33. Baglione, Le Vite, cit., p. 124.
34. Fantuzzi, Memoria della vita, cit.,
35. Crescimbeni, Vita, cit., p. 104.
36. Paula Findlen, Ereditare un museo: collezionismo, strategie familiari e pratiche culturali nell'Italia del XVI secolo, in «Quaderni storici», n. 115 (2004), pp. 45-82; Renata Ago, Il gusto delle cose. Una storia degli oggetti nella Roma del Seicento, Roma, Donzelli, 2006.
37. Cfr. Ago, Il gusto delle cose, cit., in particolare il cap. V, Il grande collezionismo.
38. Valéry, Correspondance inédite, cit., vol. 3, pp. 15-16.
39. TNC, uff. 1, vol. 849 , c. 10, 7 luglio 1698.
40. TNC, uff. 1, vol. 849 , c. 13, 12 luglio 1698
41. Cit. in Paola Di Giammaria, Girolamo Muziano Brixien pictor in urbe da Brescia a Roma, Brescia, Shakespeare & Company, 1997, p.165-66.
42. Fantuzzi, Memorie della vita, cit. pp. 75-76.
43. Valéry, Correspondance inédite, cit., vol. 3, p. 16, 22 luglio 1698.