1. «Marking services» e legami reciproci
Come ho avuto modo di sottolineare in diverse occasioni, le strategie di promozione e autopromozione delle persone eccellenti si avvalgono del prezioso contributo dei loro pari. La notorietà dei diversi personaggi dipende infatti molto dai servizi di identificazione offerti da persone che intrattengono con loro legami di tipo professionale o amicale o che semplicemente condividono momenti più o meno strutturati di socievolezza. Giambattista Marino, per esempio, offre un servizio di questo genere a Galileo Galilei nel momento in cui dedica diverse ottave del X canto dell'Adone all'inventore del cannocchiale e scrutatore di corpi celesti: «Chiara la gloria tua vivrà con esse // e tu per fama in lor chiaro vivrai // e con lingue di luce ardenti e belle // favelleran di te sempre le stelle». [1] A sua volta Galileo rende un tributo analogo al poeta nel momento in cui incarica Francesco Stelluti di fargli recapitare una copia del Saggiatore fresca di stampa [2]: «le due figure senza dubbio più importanti della cultura del tempo» si scambiano omaggi che sono al tempo stesso riconoscimenti reciproci e glorificazioni erga omnes. [3]
Anni dopo, accingendosi a scrivere la Vita del suo maestro Galileo, Viviani si rivolgerà a Baldinucci per chiedergli maggiori particolari sulla data della sua morte, in modo da poter istituire un legame astrale tra la scomparsa dell'artista e la nascita dello scienziato. Questa prossimità tra professioni diverse e il fatto di sentirsi tutti in qualche modo parte di una stessa comunità emerge in maniera evidente anche da una lettera scritta dal musicista Antimo Liberati, il cui scopo è difendere Arcangelo Corelli dalle critiche mossegli da musicisti di Bologna. Nel farlo Liberati ricorda come anche «il Tasso […] Raffaele d'Urbino, Ticiano, Domenichino e tutti li più celebri huomini d'ogni professione [siano stati] tacciati da critici o per mera invidia […] o almeno per dimostrare di saper assai con le parole». [4]
Non mancano inoltre i casi in cui tra persone che esercitano attività differenti si creano veri e propri sodalizi, come avviene per esempio tra Francesco Borromini e il letterato Fioravante Martinelli, scriptor latinus alla Biblioteca Vaticana e autore di varie opere sulle chiese antiche di Roma. [5] Non contento di elogiarlo a più riprese, sia per le sue opere di restauro di antichi edifici sia per le sue fabbriche ex-novo, Martinelli tra il 1658 e il 1660 lavora infatti a una monografia sulla chiesa della Sapienza che dovrebbe essere illustrata dai disegni dell'amico architetto. [6] Questi a sua volta da un lato mutua dall'amico letterato l'idea di procedere alla pubblicazione delle proprie opere [7], dall'altro legge e commenta la sua Roma ornata dall'architettura, pittura e scoltura, composta tra il 1660 e il 1663 e anch'essa destinata a rimanere a lungo manoscritta. [8] Un sodalizio simile lega tra loro Gian Lorenzo Bernini e Lelio Guidiccioni: il letterato elogia l'amico artista, discute con lui sul valore o il disvalore dell'innovazione e contribuisce non poco all'edificazione del mito berniniano, celebrandolo a più riprese nelle proprie opere. [9]
A volte questo genere di tributi diventa quasi un dovere, come spiega Camola nella sua Vita di Marino: Antonio Bruni, assai vicino al poeta «per moltitudine d'opere, e per felicità di stile» ha, secondo lui, «oblighi di patrocinio verso l'amico estinto». Di se stesso egli inoltre dichiara: «ho stimato ben fatto […] mentre qui in Roma si stampavano le presenti Poesie, formare questo breve racconto [della sua vita]; il quale viene da me appoggiato nel presente libro all'immortalità della gloria di lui, acciochè in ogni tempo renda testimonianza delle honorate memorie, ch'io serbo nell'animo mio». [10]
L'uso invalso sempre più spesso di pubblicare lettere di elogio, o allineare le citazioni da altri illustri esponenti della stessa arte o professione, oppure elencare le «celebratissime Accademie» che hanno conferito riconoscimenti risponde alla stessa esigenza di celebrare la grandezza di un individuo attraverso la testimonianza di altri grandi: lo abbiamo visto a proposito di Marino, ma anche di Pinelli, Ciampini, Lancisi, e molti altri la cui biografia è inserita in una raccolta, a partire da quella di Commandino scritta da Baldi. [11]
Legami reciproci, di conoscenza se non di familiarità, emergono anche dall'analisi dei cataloghi delle biblioteche di cui siamo in possesso: Ciampini possiede le Vite di Vasari e quelle di Baldinucci; inoltre ha la Vita di Bernini dello stesso Baldinucci, un libro di Peresio - autore come si ricorderà della biografia di Contelori - sul Maggio romanesco e la copia di una lettera di Liberati sui componimenti musicali dei concorrenti a un posto di maestro di cappella a Milano, evidentemente abbastanza interessante da essere pubblicata da Mascardi nel 1685. [12] Dal canto loro Raspantini e Bernini possiedono rispettivamente due opere di Marino [13] e due di Galileo [14], che difficilmente si potrebbero considerare attinenti alla loro professione. [15] In biblioteche di migliaia di volumi, che aspirino a coprire tutto l'insieme del sapere, questo genere di presenze potrebbe considerarsi del tutto casuale; ma in piccole raccolte librarie come le loro esse assumono il significato di un riconoscimento, di una scelta.
Un ruolo fondamentale veniva inoltre svolto, come abbiamo visto in più occasioni, dalle Accademie, tanto più importante in quanto spesso si trattava di promuovere personaggi privi di altre appartenenze «forti», come un casato o un ordine religioso. A favore di Marino si era mobilitata l'intera Accademia degli Umoristi, grata per «quegli aumenti di gloria» che le erano derivati dalla sua ascrizione, così come intorno a Galileo si erano mobilitati i Lincei e l'Accademia del Cimento, a partire dal suo promotore Leopoldo de' Medici. Inoltre Viviani era ascritto all'Accademia della Crusca, così come lo era Baldinucci, cui si era rivolto per avere notizie intorno alla vita e la morte di Michelangelo, mentre lo stesso Leopoldo ne era il protettore. Ed è ancora a un'Accademia - la Fiorentina, di cui il biografato era stato console - che si dovette la pubblicazione della Vita di Galileo nel 1717. A volte a questo rapporto di interdipendenza si teneva così tanto che alcune Accademie si comportavano come un qualsiasi altro corpo geloso della propria giurisdizione, e non accettavano di condividere con altri le glorie di un proprio adepto. Fu questo per esempio il caso dell'iscrizione funebre in onore di Virginio Cesarini, nella quale l'Accademia dei Lincei avrebbe voluto essere citata in esclusiva, senza che si facesse menzione del fatto che l'illustre defunto era anche membro di quella degli Umoristi. [16] Al contrario degli Umoristi e di molte altre accademie dalla «vocazione fortemente inclusiva» [17], i Lincei erano e si sentivano selettivi: «l'Academia nostra» - scriveva Federico Cesi - non è «di un luogo particolare» dove si entra a proprio piacimento, «ma un'universal scelta di letterati» e proprio per questo «si contenta starsene da sé». Data la posizione e il prestigio di Cesarini, per i Lincei l'«esclusiva» sarebbe stato un riconoscimento di grandissima importanza, e probabilmente Urbano VIII e il cardinal Barberini gliela rifiutarono proprio per evitare di sbilanciarsi troppo in loro favore. [18] E tuttavia molti membri dell'Accademia dei Lincei erano ascritti anche a un altro sodalizio, a cominciare proprio da quello degli Umoristi. [19]
Ma non era solo attraverso le parole che le Accademie contribuivano alla celebrazione dei propri ascritti: le raccolte di ritratti che ornavano le loro sale miravano esattamente allo stesso risultato e diversi «prìncipi» si mostrarono consapevoli della rilevanza di una simile scelta. Valga per tutti l'esempio di Giuseppe Ghezzi, principe dell'Accademia di S. Luca, che decise appunto di raccogliere i ritratti dei membri più illustri del sodalizio ed esporli nelle sale delle riunioni, in modo che suscitassero nel visitatore un'immediata impressione di eccellenza corale, che dai ritratti doveva riverberarsi sul luogo e da questo sulle persone raffigurate. [20]
Dall'inizio del XVIII secolo fu poi l'Arcadia ad attivarsi per glorificare i propri adepti, pubblicando regolarmente le Vite dei propri membri più illustri. Nel frattempo un importante contributo pubblicitario era venuto dalle guide ai luoghi di interesse di una città. Il Ritratto di Roma moderna, pubblicato da Pompilio Totti nel 1636, per esempio, elencava brevissimamente una serie di «musei», che comprendeva quelli dei Barberini, dei Farnese e dei Giustiniani, ma non dimenticava le sicuramente più modeste raccolte di Francesco Angeloni, Lelio Guidiccioni e diversi altri appartenenti al ceto mediocre come loro. Lo stesso faceva con le biblioteche, menzionando quella di Felice Contelori, accanto a quelle degli Altemps e dei Barberini. D'altra parte Gaspare Celio, pubblicando nel 1638 una Memoria […] delli nomi dell'Artefici delle Pitture, che sono in alcune Chiese, Facciate, e Palazzi di Roma, dichiarava esplicitamente: «Vi sono Gentilhuomini particolari, ch'hanno cose molto curiose e degnie d'esser viste, e lodate, fra li quali il Signor Abbate Lelio Guidiccioni, il Sig. Angelo (sic) Angeloni, che oltre le pitture, ha molte medaglie & altre cose curiose, sicome il P. Mastro Fra Gio. Battista dell'ordine di S. Agostino, & altri, li quali non si dicono, perché non è certo, che restino ferme, poiché le danno via secondo l'occasione». [21] Il museo di Francesco Angeloni è menzionato anche nella Roma ricercata nel suo sito di Fioravante Martinelli [22], ma è soprattutto alla Nota delli musei, librerie, galerie, et ornamenti di statue e pitture ne' palazzi, nelle case, e ne' giardini di Roma, pubblicata da Bellori nel 1664, che bisogna guardare per avere un'idea precisa dei «servizi di identificazione» che un letterato poteva offrire ai suoi omologhi. A differenza delle guide precedenti, che menzionavano la raccolta ma non aggiungevano particolari, la Nota infatti dedicava sempre almeno qualche riga a descrivere collezioni e biblioteche e spesso diceva qualcosa anche sulla persona del loro proprietario. Gli individui appartenenti al ceto mediocre erano una trentina, un po' più di un quinto di tutti i menzionati, tra i quali si trovavano famiglie nobili ma anche collegi, chiese, conventi e istituzioni pubbliche. L'intento era per tutti celebrativo, naturalmente. In alcuni casi, tuttavia, si ha l'impressione che la citazione belloriana fosse un'operazione pubblicitaria vera e propria. Alla descrizione della raccolta e dei suoi pezzi più pregiati Bellori aggiungeva infatti l'indirizzo del proprietario. Era questo il caso di Eustachio Divini, di cui la Nota dice: «Studio di curiosità et inventioni mathematiche, opere eccellentissime di sua mano, Telescopi, Microscopi in nuove maniere et grandezze di vetri et di cannoni, da esso inventate e poste in uso, nella qual arte sin hora tiene il primo luogo. Habita a Ripetta» [23]; ma è anche il caso di Giovanni Piccioli, proprietario di uno «Studio di bellissimi disegni de' più celebri pittori et di stampe rare et pitture. Habita vicino Banchi» [24]; di Torquato de Alexandris, detentore di un «Museo di varie antichità et cose peregrine, per curiosità notabili. Habita all'Angelo Custode in casa di Monsignor Buratti» [25]; del cav. Corvini, possessore di un «Museo di cose naturali et di varie curiosità antiche e peregrine, con un giardino di semplici et di alberi forastieri e rari, nella cognitione de'quali et nella Chimica egli è versatissimo, conservando vaghissime miniature della Sig. Madalena Corvini sua sorella celebre in questa arte. Habita alla Longara». [26] Se si tiene presente il commento di Celio - «le danno via secondo l'occasione» - è difficile non pensare che la raccolta avesse anche fini commerciali e che l'aggiunta dell'indirizzo servisse a facilitarne l'individuazione da parte di potenziali clienti. Bellori stesso godette d'altronde di un servizio di identificazione, ad opera addirittura di Leibniz, che visitò il suo museo nel 1689 e stese un resoconto dettagliato della propria visita. [27]
Meno pubblicitari ma comunque celebrativi sono infine i Due trattati delle Accademie, e Librerie celebri di Roma, pubblicati da Carlo Bartolomeo Piazza 1698 [28], dove si parla di Ciampini, come abbiamo visto, ma anche di «Nicola Severoli Avvocato Concistoriale, e Primario nella Curia Romana, e molto benemerito della Giurisprudenza […] il quale per formare questa sua nobilissima Libreria, segnalata perciò trà ogni altra di privata Famiglia, v'impiegò tutt'i sforzi per molti anni, del suo studio e sapere» [29], nonché di diversi altri bibliofili «privati». [30]
Accanto alle Accademie un ruolo di un certo rilievo veniva infine svolto anche dalle più informali «conversazioni», dai caffè, e probabilmente anche da botteghe di librai come quella di Jean Crozier, specializzata nell'importazione di libri francesi e frequentata da Leibniz e da Errard. [31] Sappiamo della conversazione che si riuniva quasi tutte le sere in casa Ciampini e di come vi partecipassero tutti i membri dell'élite intellettuale romana, ma anche illustri stranieri di passaggio, a cominciare dal già citato Leibniz. Ed è anzi proprio la sua corrispondenza a informarci su tali riunioni, frequentate da «uomini eruditi ed eleganti». [32] Durante il suo soggiorno romano, inoltre, il filosofo tedesco si era spesso incontrato con un gruppo di amici che si riuniva in un caffè di piazza Navona, all'angolo della strada che conduceva proprio all'abitazione di Ciampini. [33] Gli scambi epistolari tra appartenenti alla Repubblica delle lettere amplificavano questo genere di notizie e le diffondevano a livello europeo.
2. La circolazione delle informazioni
Oltre a offrire servizi di identificazione, le lettere, le conversazioni, le pubblicazioni che abbiamo visto fin qui diffondevano informazioni e contribuivano quindi a creare una cultura condivisa, sia dal punto di vista astratto che da quello molto concreto e materiale dello stile di vita. Gli abiti si assomigliavano, come abbiamo visto dai ritratti, e questo forse era dovuto più alla circolazione dei sarti e delle informazioni tra di loro, che ai rapporti tra i loro clienti. Ma non è neanche del tutto da escludere che i lettori di Bellori, Baldinucci, e di altri biografi attenti a menzionare questo genere di particolari, si lasciassero influenzare da quelle descrizioni e cercassero di uniformarvisi. Anche le abitazioni inoltre si assomigliavano e, al di là di una tendenza uniformante sul lato dell'offerta, su cui tornerò tra breve, è probabile che le analogie di stile derivassero dalla condivisione di comuni modelli, che sia gli artisti sia i medici o gli avvocati avevano modo di contemplare di persona. La loro professione li metteva infatti in contatto con principi e cardinali e rendeva possibile una frequentazione delle loro dimore. La struttura tipica dei palazzi nobiliari romani, caratterizzati da infilate più o meno lunghe di stanze prive di mobili e piene di elementi ornamentali, che emerge in dimensioni ridotte anche da tanti inventari post mortem di appartenenti al ceto mediocre, deriva probabilmente dal desiderio di adottare quel modello «alto». Galileo sapeva com'era uno «studietto da ometto curioso», così come aveva idee ben precise sull'aspetto di una galleria regia; lo stesso valeva per Marino che stava raccogliendo una biblioteca e una quadreria degne di un principe e persino per Ciampini. Da uomini di successo quali erano non avevano certo difficoltà a rendersene conto di persona, visitando sia le une che gli altri.
Un ruolo altrettanto importante dovevano svolgere le visite reciproche che, come abbiamo visto, erano tutt'altro che rare. Passeri ci dice che Salvator Rosa riuniva regolarmente una «conversazione» aperta a pittori come lui, ma anche a letterati, scienziati e musicisti. Galileo amava «d'avere il commercio di virtuosi e d'amici, da' quali era giornalmente visitato» e accoglieva in casa sua «professori di pittura o scultura e di altro nobil esercizio, o esperti nelle matematiche o in altro genere di scienza». [34] A casa di Pinelli «tutti i giorni si riunivano tutti coloro che a Padova si fregiavano della nobiltà conferita dalle lettere liberali e non solo loro, ma anche altri di diversa provenienza, che ritenevano desse loro prestigio il frequentarlo» [35], e il padrone di casa era volentieri prodigo di consigli su come scegliere i quadri e gli altri ornamenti. [36] Ciampini teneva un'Accademia e una conversazione, ambedue molto frequentate e, se altre biografie sono meno ricche di dettagli, l'accenno ai lauti conviti e alle squisite vivande offerte agli ospiti ricorre, come si è visto, piuttosto di frequente.
Non bisogna dimenticare, inoltre, il ruolo svolto da Roma quale luogo di incontro di tutte queste persone. Le collezioni di statue, di frammenti di marmo, le lapidi, i piccoli reperti archeologici che si ritrovano in molte case di persone eccellenti sono infatti tipicamente romane. Variano le dimensioni della collezione, naturalmente, così come varia la qualità dei singoli pezzi, ma il modello appare decisamente diffuso. E qui entra in campo, come ho detto, la specificità dell'offerta del mercato romano, caratterizzato da una ricchezza pressoché unica di reperti archeologici. Ma anche la presenza di tanti artisti, richiamati dalla magnificenza della corte papale e da quella di tante corti cardinalizie, dilata la possibile offerta del mercato culturale romano. Sono poi le guide, oltre alle corrispondenze e al passaparola, a diffondere lo schema, sollecitando le visite alle raccolte più belle e a volte, come nel caso del museo Angeloni, sono gli stessi proprietari a divulgare, oltre alla notizia dei loro tesori, anche quella del loro criterio di messa in mostra, stilando personalmente un catalogo. [37]
3. Noi siamo «moderni»: l'osservazione diretta contro il giogo dell'ipse dixit
Artisti, letterati, uomini di legge, studiosi: cos'è che li accomuna? Al di là delle apparenze - e delle artificiose classificazioni in base alla professione o al reddito - in realtà tutte queste figure hanno in comune parecchie cose. In un'economia «clientelare» [38] com'è quella romana dell'epoca, essi per esempio condividono la dipendenza dalla grande committenza nobiliare (cosa che vale anche per gli avvocati: Pari è il procuratore in Roma della Granduchessa di Toscana). Molti di loro probabilmente mal sopportano questa soggezione, che tanti artisti, a cominciare da Pietro da Cortona e Salvator Rosa, denunciano apertamente. [39] Ma anche gli avvocati possono sentirsene infastiditi, almeno a giudicare dalle parole di uno di loro il quale, dopo essersi lamentato di avere «non pochi crediti da esigere, et in specie dall'ecc.mo sig. principe don Lelio Orsini, l'ill.mo sig. marchese Ortensio Ceva, l'ill.mi sig. conti Spada», raccomanda di non dare mai la figlia in sposa ad «alcun procuratore e volendo essa […] di proprio capriccio maritarsi con procuratori in tal caso» le lascia solo la legittima, perché egli «[muore] per le fatiche fatte in curia senza ricognizione, anzi brontoli, e con gran denari [suoi] propri spesi fuori senza haver havuto in questa [sua] malattia soccorso di un mero quattrino». [40] E in chiave anti-clientelare - più che, o oltre che, stoicizzante o decisamente stoica - si potrebbe rileggere anche la polemica tra Matteo Peregrini [41] e Giovanni Battista Manzini [42] sul «savio in corte», che si accende negli anni venti del secolo e sul cui tema intervengono anche Agostino Mascardi [43] e altri letterati riuniti nell'Accademia dei Desiosi. [44] Se è infatti vero che il leitmotiv di questi «discorsi» è costituito dall'esortazione a sopportare con distacco il fatto che maggiori onori siano attribuiti ad altri meno meritevoli, perché «può parere ingordigia quella di colui, il quale dotato da Dio di sì gran dono, come sono le virtù, e la letteratura, chieda quegli ancora che per avventura ad altri sono riserbati» [45], è però anche vero che si tratta di un invito a comportarsi dignitosamente difronte a una palese ingiustizia. D'altra parte, come sostiene Peregrini, «all'eminenza della Maestà non giugne l'obligo verso i bassi. Ciò che ne giovano i Grandi, è tutto favore. L'affetto loro ha nome di Gratia, [non] solo, perché altri sia loro grato, ma perché è liberalità e non dovere. Si nega a mille sudori senza temer macchia d'ingiustizia». [46] Ma non tutti condividono l'elogio del distacco - che è anche accettazione della dipendenza clientelare - e qualcuno, come l'accademico Desioso Giuliano Fabrici si spinge fino a giustificare l'ambizione di gloria, sostenendo che è di «pubblico interesse, il permetter qualche dominio all'Ambitione nelle menti de i meritevoli, Perché se questi ò non conoscessero i proprij pregi, ò non curassero i publici applausi, troppo gravi pregiudicij ne sentirebbe la civil società». [47]
In una società ferocemente gerarchica le persone eccellenti sono inoltre accomunate dal fatto di possedere una particolare expertise e di puntare su quella per incrinare le gerarchie sociali, rivendicando con forza la propria eccellenza e promuovendo se stessi e il proprio sapere. E promuovendosi individualmente, non come membri di un casato, che peraltro il più delle volte è piuttosto oscuro. Il più esplicito in questo senso è, come abbiamo visto, Giovanni Giustino Ciampini, che progetta di rendere «immortale [un] nome, che forse per altro resterebbe sepolto in una perpetua oblivione». A questo fine non servono le ricchezze immobiliari, che non sarebbero comunque mai in grado di competere con quelli che compongono i patrimoni ereditari di famiglie ben più ricche e potenti. Molto meglio funzionano i prodotti dell'ingegno dell'artista o del letterato, le opere d'arte, le composizioni musicali, i libri, gli epistolari da essi creati, con la loro capacità di condensare l'esperienza e l'essenza stessa della persona che li ha prodotti. [48] E chi, come un avvocato, non produce oggetti, può comunque riferirsi alle suppellettili di cui si circonda e si serve, o affidare la propria memoria a forme più sottili di materializzazione della cultura come la fondazione di una tradizione culturale o di un percorso di studio.
Dare corpo, visibilità, alla cultura e, attraverso di essa, a una nobiltà diversa ma non meno eccellente di quella ereditaria: tale sembra essere l'obiettivo di tanti che svolgono una professione intellettuale. Ma non è alla tradizione che per questo si affidano. Al contrario per molti di loro essere e sentirsi moderni è componente essenziale del processo di affermazione sociale. I discorsi accademici pronunciati nelle assemblee dell'Accademia dei Desiosi, riunita intorno a sé dal cardinale Maurizio di Savoia, e poi raccolti e pubblicati da Mascardi [49], contengono per esempio «qualcosa di più che documenta in modi più espliciti e diretti l'esistenza di precise linee culturali nettamente favorevoli a un gusto modernista e, persino, alle esperienze della nuova scienza galileiana». [50] Questo gusto modernista porta molti Desiosi a schierarsi in favore dei «moderni», come farà Virgilio Malvezzi in un'opera pubblicata a distanza di tempo, nella premessa alla quale dichiarerà: «Chi volontariamente si soggetta all'imitazione [dei predecessori] è inimico del suo secolo; l'avvilisce, l'abbatte, rendendolo inferiore a' passati, quanto è differente la copia dall'originale». [51] In quegli stessi anni l'anticortigiano Manzini rincarerà la dose, sostenendo che «l'autorità de gli antichi, per sentimento di Plutarco, achetano, e sodisfanno ben sì facilmente gli huomini di poco talento, ma non già gl'ingegni grandi». [52] Gli antichi, infatti, «non hanno scritto meglio de gli altri, perch'han scritto prima de gli altri […] Il mondo va raffinandosi d'ogni ora più, e particolarmente nell'opere dell'ingegno. Molte cose che furon già rare, son ora vulgari, e l'istesso avverrà ne' secolo venturi […] che egli è troppo ripugnante alla natura del nostro ingegno, ch'è tutto di zolfo, il ricalcar le strade battute […] Bisogna ardire, innovare, tentare». [53] E in un elogio della modernità e delle invenzioni dei moderni si lancerà anche Bernini, in un dialogo manoscritto con Guidiccioni attribuibile con ogni probabilità proprio a quest'ultimo. [54] In contraddittorio col letterato, l'artista sosterrà infatti che «più glorioso stimavo il caminare per nuova strada che andando per l'antica, perderla per la moltitudine che v'ondeggia per entro». [55] E poco oltre aggiungerà: «Si potrebbe pur dire che non ogni cosa è stata trovata sin ora, e che resta sempre nuovo paese da scoprire: o in cielo, con novità di stelle o di macchie, o in terra, con nuove provincie, con nuovi mestieri, nuove invenzioni, campane, artigliaria, stampa, che so io? E quel che fu, l'istesso sarà. Il mondo gira, e al girar di così gran ruota gl'ingegni s'aguzzano, e in tanto a i trovatori di novità si dà premio di gloria particolare». [56]
Il gusto per il moderno fa sì che, come gli Umoristi, molti Desiosi, a cominciare da Girolamo Aleandro autore di una Difesa dell'Adone uscita nel 1629, siano filo-marinisti. [57] Ma fa anche sì che molti si dichiarino insofferenti nei confronti del «giogo dell'ipse dixit» e si proclamino invece entusiasti fautori dell'esperienza diretta, che si tratti di osservare un fenomeno naturale, oppure un quadro o un reperto archeologico.
Francesco Angeloni, come ho già detto antiquario e segretario del Cardinale Ippolito Aldobrandini, in un Dialogo scritto nel 1630-31 e rimasto tuttavia inedito, ad esempio si lancia in un'apologia dell'osservazione diretta, sostenendo che
«coloro che vi attendono conseguiscono incontinente gran parte del frutto della fatica loro, e lo conseguiscono in maniera tale, che di haverlo già nelle mani son frutti certi. Si perché [più] prestamente de gli studiosi dell'altre professioni, col veder solamente le cose, imparano, et si fanno maestri: come perché non ispecolano essi le universali, e sottili opinioni della filosofia, fondate più tosto nella varia qualità de gl'ingegni, che sopra la verità delle cose; ma vengono così sensate pruove a toccare le cose stesse con le mani, et a cavare dal senso le ragioni più vive, et gli argomenti più forti per formarne le proposizioni pratiche, delle specolative molto più vere, e sicure». [58]
Come si ricorderà, inoltre, egli esalta la scienza dei moderni che si avvale di nuovi strumenti ottici e che «levando un velo da gli occhi del genere umano, et accrescendo ad essi una maniera di vedere sì grande, l'[ha] tratto di tanti errori e cotanto insegnatoli». [59]
Pochi anni prima il già menzionato Giuliano Fabrici, che viene definito poeta improvvisatore dai suoi sodali dell'Accademia dei Desiosi, aveva dichiarato che in una società ideale «la Filosofia si darebbe à studiare il gran testo scritto da Dio, dove volume è il mondo, e caratteri l'esperienze, non si sottopporrebbe alla legge d'uno scritto litigioso, che in due mila anni d'interpretationi non finisce ancora d'intendersi, etiandio da quei filosofanti, che hanno giurato di creder quel, ch'ei comanda. Et in somma si ridurrebbe il genere humano à ponderar l'opinioni col peso della ragione, e non dell'autorità». [60] Risuonano in queste parole, pronunciate la sera del martedì grasso del 1625 [61], chiare reminiscenze galileiane [62] e colpisce che a pronunciarle sia non un filosofo naturale, neanche dilettante, ma un poeta. [63] Tuttavia è molto probabile che Fabrici sia solo un portavoce, un personaggio incaricato di pronunciare il discorso scritto da altri ben più importante di lui che, per ragioni di opportunità politica, preferisce non esporsi in prima persona. Tutto fa pensare infatti che l'autore del testo sia l'allievo di Galileo nonché accademico linceo Giovanni Battista Ciampoli, strenuo sostenitore della libertas filosofandi da un lato e della liceità dell'innovare dall'altro. [64] La difesa della nuova scienza rappresentata da Galileo, contro la chiusura manifestata nei suoi confronti dai padri del Collegio Romano, va dunque di pari passo con la rivendicazione della grandezza dei moderni e la condanna di «questi superstitiosi cultori dell'autorità, molte volte ingrati detrattori di quel Secolo [il loro], che con tanta benignità gli mantien vivi […] quasi che i Palazzi moderni non possano fabricarsi con altra materia, che con accumulare i rottami delle fabriche vecchie». [65] Un punto di vista assai simile era stato espresso anni prima da Marino in una lettera a Tassoni, nella quale il poeta aveva scritto: «Piacemi ch'ella mostri d'aver senso, e non di ber con l'orecchio, con mortificare di quando in quando l'ostinata superstizione di certi rabini, per non dire idolatri: parlo d'alcuni poeti tisicuzzi, i quali non sanno fabricare se non sopra il vecchio, né scrivere senza la falsa riga; e che lodando il lodevole e riprendendo quello che è degno di riprendimento, giudichi secondo la qualità delle cose, senza lasciarsi trasportare dall'autorità di chi che sia». [66]
Queste controversie dalle conseguenze più o meno drammatiche sono state lette soprattutto in chiave politica o filosofica - filospagnoli contro filofrancesi, aristotelici sostenitori della tradizione contro antiaristotelici novatores -. Ma in filigrana vi possiamo leggere anche rivendicazioni più legate alla fierezza professionale e al desiderio di artisti, letterati, scienziati di affermarsi in quanto tali, di farsi riconoscere e legittimare da un pubblico più vasto di quello dei pochi patroni potenti con cui hanno abitualmente a che fare. Gli interessati sanno benissimo che non c'è spazio, né dal punto di vista politico né da quello del mercato, per un'attività indipendente, libera dai condizionamenti di committenti e protettori, tanto è vero che l'esperienza dell'Accademia fisico-matematica di Ciampini viene dichiarata fallimentare proprio perché non ha alle spalle un principe potente, che possa molto concretamente premiare gli studiosi migliori. [67] Ma ciò non vuol dire che non ne sentano il peso e che non risentano delle contraddizioni della propria posizione, costretta nello spazio ambiguo che intercorre tra il desiderio di godere dei vantaggi sociali ed economici derivanti dal fatto di avere un protettore e l'aspirazione all'indipendenza, al non dover più servire.
Da un poeta a uno storico dell'arte, anni dopo sarà al bolognese Carlo Cesare Malvasia che si dovrà una presa di posizione altrettanto netta a favore dell'osservazione diretta:
«a me non occorrerà per provarvelo [l'antichità della pittura a Bologna] lo stancarvi l'orecchio con le tante autorità di dottissimi anche e gravissimi Scrittori, quali […] non sono attesi [attendibili] in questa parte […] A me basterà il solo guidarvi ove possiate rendervene capace colla semplice oculare ispezione. L'evidenza di fatto esser deve sol quella, che ne costituisca oggi voi giudice; & a simiglianza dell'odierne sperienze della non meno tanto rimota Inghilterra, che della prossima a noi Firenze […], voi pure in questo affare disponga scuotere generosamente lo troppo tirannico giogo dell'ipse dixit». [68]
E sono degli antiquari a esaltare la validità euristica dell'ispezione oculare e del confronto tra la tradizione storiografica e le immagini nonché dell'importanza di far parlare le cose, vale a dire i reperti archeologici. [69]
Ma sono naturalmente i filosofi naturali a rivendicare con maggior forza l'eredità dell'Accademia del Cimento e del suo metodo:
«un'altra Accademia di materia diversa siamo dietro adesso a fondare - scrive nel 1677 il primo segretario dell'Accademia fisico-matematica, Girolamo Toschi - & è di Filosofia naturale appoggiata su l'esperienze ad imitazione di quella celebre del Cimento […] e dell'altre molto accreditate di Inghilterra, Francia, e Germania […] Soggetto adunque di questa Accademia sarà non di meramente discorrere […] ciò che dagli altri sarà stato pienamente insegnato, ma di promuovere le scienze e discipline […] con nuovi ritrovamenti fondati su le proprie ed altrui osservazioni, oppure di esaminare, approvare, o riprovare le nuove invenzioni ritrovate da altri con le nuove esperienze & osservazioni proprie». [70]
In tutti i campi la scienza più innovativa, quella che viene portata avanti nelle accademie più accreditate d'Europa è una scienza fondata sull'evidenza dei fatti e diversi letterati e studiosi romani vogliono anch'essi inserirsi in quella corrente moderna di pensiero che sembra loro la più promettente e prestigiosa. Con prudenza, naturalmente, per non incorrere in guai con la censura e quindi limitandosi alla mera registrazione dei fenomeni osservati, oppure confinando l'osservazione diretta all'interno di discipline meno pericolose, come l'antiquaria o la storia dell'arte, o persino usando il metodo sperimentale per delegittimare dall'interno le affermazioni della nuova scienza. [71] E anche rivolgendo la loro filologia contro i detrattori della Santa Sede, come fanno Contelori e Ciampini che utilizzano le proprie conoscenze in materia di testi antichi e di antiquaria cristiana per respingere le pretese giurisdizionali di Venezia da un lato e dei vescovi gallicani dall'altro.
Al pari di Parigi, di Londra e financo di Lipsia, anche Roma deve affermarsi come luogo della modernità: forse c'è in questo il progetto militante di aggiornare la cultura cattolica-romana, per difenderla da quell'arretratezza che la condannerebbe al provincialismo e all'emarginazione. [72], ma a me sembra evidente che una forte spinta venga anche dall'«ambizione dei letterati», dal loro desiderio di fare della città in cui si trovano a operare un centro di eccellenza riconosciuto a livello europeo: nel solito gioco di rispecchiamento reciproco l'eminenza del luogo, cui ciascuno di loro contribuisce, si rifletterebbe a sua volta su quella dei virtuosi che ne fanno parte.
4. Noi valiamo
Brutale ma efficace è infine quella forma di apparentamento tra professioni diverse che deriva dalla necessità di stabilire il valore dei propri servizi e di farlo nel modo più efficiente e al tempo stesso onorevole possibile. I più espliciti in questo senso sono il medico Paolo Zacchia e il pittore Pietro da Cortona che entrambi ricorrono ad argomentazioni molto simili.
Discutendo dei doveri e dei diritti dei medici, Zacchia introduce - esattamente come farà il Trattato della pittura e scultura, uso, et abuso loro, pubblicato nel 1652 - una distinzione tra i professionisti di grado più elevato - i medici-fisici - e quelli che invece si occupano di questioni più grossolane. [73] Questa distinzione si ripercuote sulle retribuzioni perché ciò che si deve al medico-fisico è un onorario, mentre ciò che ricevono gli altri si dice mercede: «le opere di costoro sono infatti servili, tanto quanto le opere degli artefici meccanici e, quando non è esercitata da un medico-fisico, la stessa chirurgia è arte meccanica». [74] Un'immediata conseguenza di questa distinzione è che il medico può prestare la sua opera anche nei giorni festivi [75] e persino accettare un compenso, se questo viene dato spontaneamente. [76] Per la stessa ragione, però, il medico non può in alcun modo pattuire la retribuzione nell'urgenza del male: se lo fa, ciò che riceve perde la qualifica di onorario per degradarsi a mercede e lo stesso medico-fisico si trasforma in mercenario che «inquina la dignità della sua arte». [77]
Più o meno negli stessi anni anche i pittori stavano cercando di formalizzare la questione e l'appena citato Trattato della pittura e scultura, uso, et abuso loro, scritto, come dice il sottotitolo, da un teologo - Giandomenico Ottonelli - e da un pittore - Pietro da Cortona -, mirava appunto a stabilire alcune regole di base. [78] Per cominciare bisognava tener presente che «di tre sorti sono i Pittori. Alcuni infimi, e di pochissima perfettione, che con niuno, o con piccolo grido esercitano la Pittura. Altri sono di mediocre eccellenza, & operano con facilità, e presto si contentano delle loro fatiche, e vivono senza gran capitale d'honorata fama. I Pittori della terza sorte sono quelli, che meritano assolutamente il titolo d'eccellenti, godono molta gloria appresso tutti, e le lor opere sono stimate, bramate, et ammirate». [79] Allo stesso modo l'attività del dipingere poteva essere liberale o servile, a seconda delle circostanze: «La Pittura - sostenevano infatti gli autori - considerata in se stessa, per se stessa, propriamente, assolutamente […] è Arte liberale, o almeno s'accosta grandemente alle Liberali, & è degna d'essere esercitata da persone nobili, e libere». Essa tuttavia «può per accidente diventar servile, almeno estrinsece, cioè quando l'esercitano persone ignobili, vili, basse, e che s'accostano alla conditione, e qualità de' servi, e l'esercitano bassamente». Perciò «non può lecitamente esercitarsi in giorno festivo con l'apparato, lunghezza di fatiche, e publica dimostratione, che costumasi ne' giorni di lavoro […] molto meno può la Pittura far di festa quell'opere, che sono preparatorie al dipingere, e proprie de' garzoni, e de' fattori dell'officina: come pestar colori, stendere tele, porre imprimatura, e cose simili, perché sono propriamente opere servili». Tuttavia, purché ciò avvenga «in luogo ritirato, che non sia di scandalo», un artista eccellente può dipingere in giorno festivo, anche per mercede, perché in questo caso la sua attività è da paragonarsi alla scrittura più che a un'attività manuale. [80]
Anche per i pittori era perciò difficile pattuire un prezzo in anticipo, oppure individuare alcuni parametri oggettivi in base al quale calcolarlo. Secondo le Considerazioni sulla pittura di Giulio Mancini le determinanti del prezzo di un dipinto erano talmente tante che non era possibile individuare alcuna regola. [81] E sebbene qualcuno ci provasse, tentando di stabilire una relazione tra prezzo e dimensioni, oppure tra prezzo e complessità della composizione [82], i grandi artisti non si lasciavano certo ingabbiare all'interno parametri così meccanici. [83] Al contrario, i loro biografi raccontavano con dovizia di particolari come i loro compensi esulassero da questo tipo di logiche. Guido Reni era noto per la sua ritrosia a parlare di prezzi: piuttosto che stabilirli in anticipo preferiva aspettare che l'opera fosse finita, confidando nel fatto che i committenti, abbagliati dalla sua eccellenza, gli avrebbero donato ben più di quanto egli stesso avrebbe potuto chiedere. [84] Altrettanto - secondo Bellori - faceva Poussin che «non trattò mai il prezzo de' suoi quadri, ma quando li aveva forniti l'annotava dietro la tela, e senza detrarsi punto gli era subito mandato a casa». [85] Ancora più intransigente era, nel racconto di Pascoli, Salvator Rosa, divenuto ben presto famoso per le sue risposte irridenti. A un committente, che voleva patteggiare in anticipo il prezzo di un quadro, egli aveva per esempio replicato: «Io non patteggio mai col mio pennello; perché né pur esso saper può il valore del suo lavoro, finché terminato non l'abbia. Quando l'avrò terminato vi dirò ciò che costa, e starà a voi il prenderlo o lasciarlo». E un altro si era visto liquidare con l'invito beffardo di andare «a trovare il bottaio, e 'l fornaciaro, che fanno i lavori a numero, ed a misura». [86]
Le corrispondenze e i contratti di pagamento lasciano tuttavia intravvedere una realtà ben diversa, in cui la ricerca di parametri oggettivi e il richiamo a logiche di mercato assumono un ruolo molto più deciso. [87] A questo tipo di logiche fanno per esempio riferimento sia Pietro da Cortona, quando chiede di essere pagato quanto i suoi immediati concorrenti [88], sia lo stesso Guido Reni quando spiega che i pittori più bassi vengono pagati 2 o 3 scudi a figura, mentre la tariffa di quelli ordinari è di 15 scudi. La stessa logica valeva, a quanto pare, anche in campo letterario, almeno stando alla testimonianza di Baiacca, che spiegava come a Parigi l'Adone avesse incontrato un tale successo che il libro si vendeva ormai a carissimo prezzo. [89] D'altra parte tanta insistenza sulla gratuità della prestazione e l'onorevolezza della retribuzione era un'arma a doppio taglio: indubbiamente collocava le persone eccellenti in una sfera separata rispetto a tutti gli altri della stessa professione, ma al tempo stesso ribadiva la dipendenza del professionista dalla «gratitudine» di un numero molto ristretto di grandi committenti, dai loro capricci e persino dalla loro eventuale indisponibilità di denaro. E, infatti, almeno una volta nella loro vita molti di loro si sarebbero trovati a condividere le amare considerazione del procuratore Zanobini sull'ingratitudine e la disattenzione dei loro clienti altolocati. [90]
Note
1. Adone, canto X, 47a ottava.
2. Lettera del 4 nov. 1623, Stelluti a Galilei, cit. in Giovan Battista Marino, Adone, a cura di Emilio Russo, Milano, BUR, 2013, Introduzione, p. 5.
3. Ivi, p. 6.
4. Piero Buscaroli, Corelli Arcangelo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 29, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 1983.
5. Stefano Tabacchi, Martinelli, Fioravante, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 71, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 2008.
6. L'opera però non troverà un editore e resterà manoscritta: cfr. Joseph Connors, Francesco Borromini: la vita (1599-1667), in Borromini, e l'universo barocco, a cura di Richard Bösel e Christoph L. Frommel, Milano, Electa, 2000, pp. 7-21, pp. 17-18.
7. Ivi, p. 17.
8. Tabacchi, Martinelli, Fioravante, cit.
9. Cfr. Cesare D'Onofrio, Note berniniane. Un dialogo-recita di Gian Lorenzo Bernini e Lelio Guidiccioni, in «Palatino», 10 (1966), pp. 127-134, p. 127; Michele Di Monte, Guidiccioni, Lelio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 61, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 2004; Eraldo Bellini, Le biografie di Bernini e la cultura romana del Seicento, in Id., Stili di pensiero nel Seicento italiano: Galileo, i Lincei, i Barberini, Pisa, ETS, 2009, pp. 159-201, p.192.
10. Camola, p. 29.
11. Baldi, Vita, cit., pp. 516-517.
12. Lettera scritta in risposta ad una del sig. Ovidio Persapegi: che gli fa istanza di voler vedere, ed esaminare i componimenti di musica fatti dalli cinque concorrenti nel concorso per il posto di maestro di cappella della Metropolitana di Milano, fatto sotto il dì 18. agosto 1684 ... e voler dare il suo parere, quale de' cinque concorrenti sia il migliore.
13. Le Nuove poesie del cavalier Marino: cioè, Il ritratto del sereniss. Sig. duca di Sauoia, Il Tebro festante, L[sic] rapimento d'Europa, Il testamento amoroso, Lidia abbandonata, Canzone nelle nozze del Prencipe di Stigliano, Li sospiri, L'amante messaggiere; e il Ritratto del serenissimo don Carlo Emanuello duca di Savoia, non sappiamo in quali edizioni.
14. I Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica & i movimenti locali, e il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo Tolemaico e Copernicano, di cui ugualmente ignoriamo luogo e data di edizione.
15. Come si può invece fare per Ciampini che di opere di Galileo ne possiede sei.
16. «O siamo soli - scriveva Federico Cesi a proposito di questa iscrizione - o ci lascino stare«: cit. in Giuseppe Gabrieli, Una gara di precedenza accademica nel Seicento fra Umoristi e Lincei, in Id. Contributi per la storia della prima Accademia dei Lincei, Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 1989, pp. 236-257, p. 251.
17. La definizione è di Eraldo Bellini (Umanisti e lincei, cit., p. 97).
18. Federica Favino, 'Marvellous Conjuncture'? The Academy of Maurice of Savoy in Rome between Politics and the 'New Science', in Maria Pia Donato - Jill Kraye (eds.), Conflicting Duties: Science, Medicine an Religion in Rome, 1550-1750, London-Turin, The Warburg Institute - Aragno Editore, 2009, pp.135-155, p. 154.
19. Giuseppe Gabrieli, Una gara di precedenza, cit., p. 249.
20. Cfr. Lione Pascoli, Vite, cit., vol.II, p. 201; Missirini, Memorie, cit., p. 143. Cfr. l'intera collezione in http://www.accademiasanluca.it/opere.html
21. Napoli, Bonino, p. 142.
22. Roma, Tani, 1650, p. 81.
23. Ivi, p. 22.
24. Ivi, p. 45.
25. Ivi, p. 6.
26. Ivi, p. 21.
27. Robinet, Iter Italicum, cit., pp. 53-54.
28. In appendice all'Eusevologio romano overo delle opere pie di Roma accresciuto ed ampliato secondo lo stato presente, Roma, Cesaretti e Paribeni, 1698.
29. Ivi, p. clxi.
30. Ivi, pp. clxvii- clxxix.
31. Robinet, Iter Italicum, cit., p. 148; ASR, Notai AC, vol. 5899, c. 489v., «Conto delle spese fatte da Gio Crozier libraro in Roma, per le cinque casse di libri spettanti all'heredità del q. sig.re Carlo Errard, e di suo ordine mentre viveva fatte venire di Francia».
32. Robinet, Iter Italicum, cit., p. 45 (lettera di Leibniz a Francesco Bianchini).
33. Ivi, p. 155 (lettere di Leibniz a Bodenhausen e a Bianchini).
34. Viviani, Racconto historico, cit., p. 626.
35. Gualdo, Vita, cit., p. 46: «Domi Ioh. Vincentius quotidie conveniebatur ab omnibus quotquot Patavij litterarum ingenuarum ornamento nobiles erant, neque ab his solum, sed et ad advenis, qui eo ventitare gloriosum sibi ducebant» (trad. di Barbara Carabotta).
36. Secondo Paolo Gualdo egli «Privatos ideo homines, nec multarum sane opum, aegreferbat in conquirendis veteribus nummis, gemmis, tabulis, signis patrimonia prodigere […] Quod ad tabulis attinet, his consulebat qui pinacothecas supra vires instruerent, ut exemplari quopiam contenti essent, quod Bonaroti, Raphaelis Urbinatis, Titianiue ptotypon bona fide referret» («Mal sopportava che i privati di poche sostanze dissipassero il patrimonio per monete antiche, gemme, dipinti, sigilli: questa passione si addice solo ai più fortunati e ai più agiati […] Per quanto riguarda i dipinti, suggeriva a coloro che allestivano per sé una pinacoteca al di là delle loro forze, di contentarsi di una copia che rendesse fedelmente l'originale di Buonarroti, di Raffaello o di Tiziano»): Ivi, pp. 78-79.
37. Non diversamente da quanto avveniva per le biblioteche: si ricordi per es. che Gualdo dedica varie pagine a spiegare come Pinelli ordinasse i suoi libri.
38. Cfr. sul concetto di economia clientelare («client economy») cfr. John Brewer, Commercialization and Politics, in Neil McKendrick, John Brewer, John Harold Plumb (eds.), The Birth of a Consumer Society, Europa Publications, London 1982, pp. 197-262.
39. Cfr. Patrizia Cavazzini, Painting as Business in Early Seventeenth-Century Rome, University Park, Pennsylvania State University Press, 2008; Philip Sohm, Richard Spear (eds.), Painting for Profit. The Economic Lives of Italian Seventeenth-Century Painters, New Haven-London, Yale University Press, 2010; Jonathan Scott, Salvator Rosa. His Life and Times, New Haven-London, Yale University Press, 1995.
40. Cfr. il testamento di Gio. Battista Zanobini in ASR, TNC, uff. 28, Testamenti, vol. 8, cc. 266 ss, 14 settembre 1688.
41. Il savio in corte distinto in quattro libri ove s'intendono, e si disciogliono le ragioni, che dissuadono dal corteggiare; e si mostra le necessità de' savi nelle corti, e perche sia à loro convenevole l'andarvi. Componimento di nuovo, e laconico stile, Bologna, Tebaldini, 1624.
42. Titolo originario Il servitio negato al savio, Bologna, Tebaldini, 1626.
43. Cfr. per esempio i discorsi Che gli esercitij di Lettere sono in Corte non pur dicevoli, ma necessari; Che un cortigiano non dee dolersi, perché vegga più favorito in Corte l'ignorante che 'l dotto, il plebeo che 'l nobile; Che la Corte è vera scuola non solamente della prudenza, ma delle virtù morali, tutti pubblicati in Agostino Mascardi, Prose vulgari, Venetia, Fontana, 1625, e più volte riediti nel corso del secolo.
44. Cfr. per esempio Girolamo Aleandro, Del modo, che tener devono i Saggi, e Letterati Cortigiani per non esser dalla Corte (quasi da novella Circe) in sembianze de brutti animali trasformati, in Saggi accademici dati in Roma nell'Accademia del Sereniss. prencipe Cardinale di Savoia, a cura di Agostino Mascardi, Venezia, Fontana, 1630, pp. 1-12; Virgilio Malvezzi, Ragioni per le quali i letterati credono non potere avvantaggiarsi nella Corte, Ivi, pp. 13-34; Giuliano Fabrici, Dell'ambitione del Letterato, Ivi, pp. 71-89; Agnolo Cardi, La Calamita della Corte, Ivi, pp. 181-196.
45. Aleandro, Del modo, cit., p. 9.
46. Matteo Peregrini, Che al Savio è Convenevole il Corteggiare, Bologna, Tebaldini, 1624, pp. 3-4.
47. Giuliano Fabrici, Dell'ambitione del Letterato, cit., pp. 71-89, p. 82.
48. Cfr. A. Gell, Art and Agency, cit.
49. Saggi accademici, cit.
50. Riccardo Merolla, L'Accademia dei Desiosi. Storia e testo, Roma, Carocci, 2008, p. 34
51. Virgilio Malvezzi, Introduttione al racconto de principali successi accaduti sotto il comando del potentissimo re Filippo IV, Roma, er. Corbelletti, 1651; cit. anche in Eraldo Bellini, Agostino Mascardi tra «ars poetica» e «ars historica», Milano, Vita e pensiero, 2002, pp. 177-178.
52. Giovanni Battista Manzini, Delle Meteore rettoriche, Bologna, Monti, 1652, p. 50.
53. Ivi, pp. 54-56; cfr. anche Bellini, Agostino Mascardi, cit., p. 178.
54. Cfr. Cesare D'Onofrio, Note berniniane. Un dialogo-recita di Gian Lorenzo Bernini e Lelio Guidiccioni, in «Palatino», 10 (1966), pp. 127-134. Il dialogo è peraltro fortemente venato di piaggeria, perché il suo autore insiste a più riprese nell'attribuire una superiore competenza, in qualsiasi campo del sapere, al papa e al cardinal Barberini.
55. Cit. ivi, p. 129.
56. Cit. ivi, pp. 127-134, p. 130. In realtà tutto il dialogo è un assai conformistico elogio della superiore competenza degli alti prelati contro quella, spesso limitata, degli artefici. Sul rapporto tra Guidiccioni e Bernini cfr. anche Michele Di Monte, Guidiccioni, Lelio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 61 Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 2004; Bellini, Le biografie di Bernini, cit., pp. 191-192.
57. Difesa dell'Adone: poema del cav. Marino, per risposta all'Occhiale del cav. Stigliani, Venetia, Scaglia, 1629; cfr. anche Bellini, Umanisti e lincei, cit., pp. 97-113.
58. Dello studio dell'opere più belle della Natura e dell'Arte, ff. 15-16, cit. in Veronica Carpita, Tra Tasso e Galilei: l'idea bifronte del museo di Francesco Angeloni, in «Storia dell'Arte», nn. 122-123 (2009), pp. 93-118, p. 102.
59. Ivi, p. 100.
60. Fabrici, Dell'ambitione, cit., p. 77.
61. Cfr. Merolla, L'Accademia dei Desiosi, cit., p. 28.
62. Cfr. la celebre frase del Saggiatore (Roma, Mascardi, 1623, p. 25) nella quale Galileo sostiene che «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo) …».
63. In realtà di lui si sa ben poco: cfr. Merolla, L'Accademia dei Desiosi, cit., p. 34.
64. Cfr. Favino, 'Marvellous Conjuncture'?, cit.
65. Fabrici, Dell'ambitione, cit., p. 75.
66. Marino, Lettere, a cura di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1966, pp. 110-11 num. 58; cfr. anche Emilio Russo, Marino, Roma, Salerno, 2008, p. 319.
67. Cfr. infra
68. Carlo Cesare Malvasia, Le Pitture di Bologna, Bologna, Monti, 1706, pp. 8-9 [ed. orig. 1686].
69. Cfr. Giovanni Ciampini, Vetera Monimenta…, Roma, Komarek, 1690, Praefatio: «Eo tempore diligenter perscrutatus Auctores illos, qui de hujusmodi rebus plura tradiderant, et aliorum scripta cum Imaginibus, quae ad hunc diem stetere, attente conferens, Exteri studium illius oculari experimento excitare curabat» (p.n.n.); «plura quandoque adnotavi ad Sacram eruditionem spectantia; plura interpretatus sum, quae Hyeroglyphicorum ambagibus continebantur; plures adduxi calculos Auctorum, sicubi aliquid probandum fuit; plures denique excitavi, si quando è re videbatur, & ad rem facere quaestiones» (p.n.n.)
70. Lettera di Girolamo Toschi ad Angelo Rocca, 23 lug. 1677, cit. in Girolamo Tiraboschi, Biblioteca modenese, 6 voll. Modena, 1781-86, vol. V, Società tipografica, 1784, p. 285-86.
71. Cfr. Favino, Beyond the 'Moderns'?, cit.
72. Cfr. Maria Pia Donato, Le strane mutazioni di un'identità: il «letterato» a Roma (1670-1750), in Biagio Salvemini (a cura di), Gruppi e identità sociali nell'Italia di età moderna, Bari, Edipuglia, 1998, pp. 275-314; Marina Caffiero, Maria Pia Donato, Antonella Romano, De la catholicité post-tridentine à la République romaine : splendeurs et misères des intellectuels courtisans, in Naples, Rome Florence, cit, pp. 171-208.
73. Cfr. Paolo Zacchia, Quaestiones medico-legales, t. I, Amsterdam, Joannis Blaeu, 1651 (1a ed. Roma, Mascardi, 1621-34), Quaestio VIII De erroribus tam in omittendo, quam in committendo ad Mercedem Spectantibus, pp. 393-397.
74. Cfr. Ivi, p. 394: «eorum opera sunt servilia non minus, ac sint opera aliorum Artificum mechanicorum, nam & ipsa Chirurgia […] mechanica est, nisi a Physico exerceatur».
75. Ivi, p. 396.
76. Ivi, p. 398.
77. Cfr. Ivi, p. 395: «cum de mercede cum aegro pacto convenis, tunc amittit nomen honorarii, & acquirit nomen mercedis, & ipse Physicus mercenarius evadit, & suae ipius Artis dignitatem inquinat». Su tutta la questione cfr. anche Gianna Pomata, La promessa di guarigione. Malati e curatori in Antico regime, Roma-Bari, Laterza, 1994, in particolare pp. 92-94.
78. Firenze, Bonardi, 1652.
79. Trattato della pittura, cit., p. 232.
80. Ivi, pp. 261-62.
81. Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1956.
82. Cfr. Richard Spear, Rome: Setting the Stage, in Painting for Profit, cit., pp. 33-114.
83. Pietro da Cortona per esempio protesta di «non haver mai praticato che le pitture si siano comperate e vendute a palmi et a misura», cit. in Donatella Livia Sparti, La casa di Pietro da Cortona: architettura, accademia, atelier e officina, Roma, Palombi, 1997, p. 132
84. Cfr. Spear, Rome, cit., pp. 52-53.
85. Bellori, Vite, cit., p. 456.
86. Pascoli, Vite, cit., p. 143.
87. Cfr. Spear, Rome, cit., pp. 33-114, pp. 52-53; Raffaella Morselli, Bologna, in Painting for Profit, cit., pp. 145-172, p. 164. Luisa Ciammitti, 'Questo si costuma ora in Bologna': una lettera di Guido Reni, aprile 1628, in «Prospettiva», 98-99 (2000), pp. 194-203.
88. Donatella Livia Sparti, La casa, cit., p. 132
89. Baiacca, Vita, cit., p. 462: «era in tanto pregio salito che a rigorosissimo prezzo si comperava».
90. Cfr. infra nota 37.